Lacan – L’amore, l’odio e l’ignoranza

Le parole, i simboli, introducono [nel reale] una cavità, un buco grazie al quale è possibile ogni sorta di attraversamento. Le cose diventano intercambiabili.
Questo buco nel reale si chiama, secondo il punto di vista, l’essere o il niente. L’essere e il Kandinsky-chiaveniente sono essenzialmente legati al fenomeno della parola.
Nella dimensione dell’essere si situa la tripartizione del simbolico, dell’immaginario e del reale, categorie elementari senza le quali non possiamo distinguere nulla nella nostra esperienza.

Non per nulla, indubbiamente, sono tre.
Deve esistere una legge minimale, che la geometria non fa altro in questo caso che incarnare, cioè il fatto che se staccate dal piano del reale qualche pezzo da introdurre in una terza dimensione, non potrete costruire nessun solido se non con altri due pezzi almeno.

Uno schema del genere fa presente questo: solo nella dimensione dell’essere, e non in quella del reale, possono inscriversi le tre passioni fondamentali: alla giunzione del simbolico e dell’immaginario, quella frattura, se volete, quello spigolo che si chiama l’amore – alla giunzione dell’immaginario e del reale, l’odio – alla giunzione del reale e del simbolico, l’ignoranza. […]
Ora, le due dimensioni dell’amore e dell’odio non vanno senza la terza, che invece di solito si trascura […]

SIGNORA AUBRY: – Capisco che alla congiunzione dell’immaginario e del reale si trovi l’odio, a condizione di prendere congiunzione nel senso di rottura. Quel che comprendo meno è che alla congiunzione del simbolico e dell’immaginario si trovi l’amore. […]

Come ha sottolineato benissimo la signora Aubry nella sua domanda, sono punti di giunzione, punti di rottura, crinali posti tra i differenti domini in cui si estende la relazione inter-umana: il reale, il simbolico e l’immaginario.
L’amore si distingue dal desiderio, considerato come la relazione-limite che si stabilisce per ogni organismo in rapporto all’oggetto che lo soddisfa. Infatti, ciò a cui mira non è d’essere soddisfatto, ma d’essere.
Per questo motivo non si può parlare d’amore, se non là dove la relazione simbolica esiste in quanto tale.

Imparate a distinguere adesso l’amore come passione immaginaria, dal dono attivo che costituisce sul piano simbolico. L’amore, l’amore di colui che desidera essere amato, è Kush-lucchettoessenzialmente un tentativo di catturare l’altro in se stesso, in se stesso come oggetto.
La prima volta che ho parlato a lungo dell’amore narcisistico, fu, se ve ne ricordate, nel prolungamento stesso della dialettica della perversione.

Il desiderio d’essere amato è il desiderio che l’oggetto amante sia preso come tale, invischiato, asservito nella particolarità assoluta di se stessi come oggetto. Colui che aspira a essere amato è assai poco soddisfatto, è ben noto, d’essere amato per il suo bene.
La sua esigenza è d’essere amato fino al punto cui può giungere la completa sovversione del soggetto in una particolarità, addirittura in ciò che tale particolarità può avere di più opaco, di più impensabile. Si vuole essere amati per tutto, non solo per il proprio io, come dice Cartesio, ma per il colore dei propri capelli, per le proprie manie, per le proprie debolezze, per tutto.

Ma inversamente, e direi correlativamente, proprio a causa di ciò, amare è amare un essere al di là di ciò che appare essere. Il dono attivo dell’amore mira all’altro, non nella sua specificità, ma nel suo essere. […]
L’amore, non più come passione, ma come dono attivo, mira sempre, al di là della cattura immaginaria, all’essere del soggetto amato, alla sua particolarità. Per questo motivo, può accettarne fino all’ultimo le debolezze e i sotterfugi, può addirittura ammetterne gli errori, ma esiste un punto cui s’arresta, un punto che non si situa altro che nell’essere; quando l’essere amato va troppo lontano dal tradimento di se stesso e persevera nell’inganno di sé, l’amore non lo segue più.

Di questa fenomenologia reperibile nell’esperienza non vi darò tutto lo sviluppo. Mi accontento di farvi notare che l’amore, in quanto è una delle tre linee di partizione in cui s’impegna il soggetto quando si realizza simbolicamente nella parola, si dirige verso l’essere dell’altro.
Senza la parola in quanto affermante l’essere, esiste solamente Verliebtheit, fascinazione immaginaria, ma non esiste l’amore. Esiste l’amore subito, ma non il dono attivo dell’amore.

Carrington-mondo-magico

Ebbene, l’odio è la stessa cosa. Esiste una dimensione immaginaria dell’odio, in quanto la distruzione dell’altro è un polo della struttura stessa della relazione intersoggettiva. È quello che Hegel riconosce come impasse della coesistenza di due coscienze, da cui deduce il suo mito della lotta di puro prestigio.
Anche lì la dimensione immaginaria è inquadrata dalla relazione simbolica e per questo l’odio non è soddisfatto dalla scomparsa dell’avversario.
Se l’amore aspira allo sviluppo dell’essere dell’altro, l’odio vuole il contrario, il suo abbassamento, il suo sbandamento, la sua deviazione, il suo delirio, la sua negazione dettagliata, la sua sovversione. In questo l’odio, come l’amore, è una carriera senza limiti.

Questo forse è più difficile da far capire perché, per motivi che non sono così rallegranti come potremmo credere, conosciamo meno ai nostri giorni il sentimento dell’odio che all’epoca in cui l’uomo era più aperto al suo destino.
Certo, abbiamo visto non molto tempo fa le manifestazioni che in questo genere non erano male. Ciò nonostante, i soggetti ai giorni nostri non devono assumere il vissuto dell’odio in ciò che può avere di più bruciante.
faccia-odioE perché?
Perché siamo già a sufficienza una civiltà dell’odio che satura in noi l’appello alla distruzione dell’essere. Come se l’oggettivazione dell’essere umano nella nostra civiltà corrispondesse esattamente a quello che nella struttura dell’ego è il polo dell’odio.

O. MANNONI: – Il moralismo occidentale.

Esattamente. L’odio vi trova da nutrirsi d’oggetti quotidiani. Si avrebbe torto a credere tuttavia che sia assente nelle guerre dove, per dei soggetti privilegiati, è pienamente realizzato.
Capite bene che parlandovi d’amore e d’odio vi designo le vie della realizzazione dell’essere; non la realizzazione dell’essere, ma solamente le sue vie.

E tuttavia, se il soggetto s’impegna nella ricerca della verità come tale, è perché si situa nella dimensione dell’ignoranza, poco importa che lo sappia o no. Ecco uno degli elementi di ciò che gli analisti chiamano «apertura al transfert»: apertura che nel paziente esiste per il solo fatto di mettersi nella posizione di testimoniarsi nella parola […], ma è necessario considerare l’ignoranza anche nell’analista. […]

La tentazione è grande, perché è nell’atmosfera del tempo, di questo tempo dell’odio, di trasformare l’ignorantia docta in quella che ho chiamato, non da ieri, un’ignorantia docens.
Che lo psicoanalista creda di sapere qualcosa, in psicologia per esempio, è già l’inizio della sua rovina per la buona ragione che in psicologia nessuno ne sa granché, se non che la psicologia è essa stessa un errore di prospettiva sull’essere umano.

Mi occorre prendere degli esempi banali per farvi capire che cosa sia la realizzazione dell’essere umano, perché voi la mettete, vostro malgrado, in una prospettiva erronea, quella di un falso sapere.
Dovete pur rendervi conto che quando l’uomo dice io sono oppure io sarò, anzi io sarò stato o io voglio essere, esiste sempre un salto, una beanza. È tanto stravagante dire, in surreal-donna-nigredorapporto alla realtà, io sono psicoanalista quanto dire io sono re.
L’una e l’altra sono affermazioni interamente valide, che nulla tuttavia giustifica nell’ordine di ciò che si può chiamare la misura delle capacità. Le legittimazioni simboliche, in funzione delle quali un uomo assume ciò che gli è conferito da altri, sfuggono interamente al registro delle abilitazioni di capacità.

Quanto un uomo rifiuta d’essere re, non ha affatto lo stesso valore di quando l’accetta. Per il fatto stesso che lo rifiuta, non è re. È un piccolo-borghese, vedete per esempio il duca di Windsor. L’uomo che sul punto d’essere investito della dignità della corona dice: Io voglio vivere con la donna che amo, resta per ciò stesso al di qua del dominio dell’essere re.
Ma quando l’uomo dice, e dicendolo lo è, in funzione di un certo sistema di relazioni simboliche: Io sono re, non si tratta semplicemente dell’accettazione di una funzione. Cambia da un minuto all’altro il senso di tutte le sue qualificazioni psicologiche. Dà un senso del tutto differente alle sue passioni, ai suoi disegni, alla sua stessa sciocchezza.

Tutte queste funzioni diventano, per il solo fatto che egli è re, funzioni regali. Nel registro della regalità la sua intelligenza diventa tutt’altra cosa, le sue incapacità stesse cominciano a polarizzare, strutturare, tutta una serie di destini attorno a lui che si ritroveranno profondamente modificati per la ragione che l’autorità regale sarà esercitata secondo quel tal modo dal personaggio che ne è investito.
Di casi del genere, se ne incontrano a dozzine tutti i giorni: se un signore che ha qualità assai mediocri e che presenta ogni sorta d’inconvenienti in quel tale incarico inferiore, viene elevato a un’investitura in qualche modo sovrana, per quanto in un campo limitato, cambia completamente.
Non avete che da osservarlo tutti i giorni, la portata tanto delle sue forze quanto delle sue debolezze si trasforma e il loro rapporto si può trovare invertito.

(Lacan, Il Seminario: 1)