Eliade – La Chiara Luce dei tibetani

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Nel buddhismo mahâyâna, la Chiara Luce simboleggia sia la realtà suprema che la coscienza di cui si gode nel nirvana. Tutti gli uomini sperimentano questa Chiara Luce al momento della morte; gli yogin la sperimentano durante il samâdhi e i Buddha senza interruzione.
La morte rappresenta un processo di riassorbimento cosmico, non nel senso che la carne torni alla terra, ma nel senso che gli elementi cosmici si dissolvono man mano l’uno nell’altro: la «terra» si scioglie nell’«acqua», e a sua volta l’«acqua» brucia nel «fuoco», e così di seguito.

Il Cosmo che è l’uomo da vivo finisce così per essere annientato, proprio come vengono annientati gli universi alla fine dei Grandi Cicli.
Ciascuna fase di questo processo è vissuta fisiologicamente dal moribondo durante la sua agonia: quando l’elemento «terra» si dissolve nell’elemento «acqua», per esempio, il surreal-luce-celestecorpo perde il suo sostegno (letteralmente il suo «puntello»), cioè la coesione: diviene disarticolato, come una marionetta.

Quando il processo di riassorbimento cosmico è terminato, il moribondo percepisce una luce simile a quella della Luna, poi a quella del Sole, per quindi affondare nella Luce Nera.
Egli è allora bruscamente svegliato da una luce accecante: è l’incontro col proprio Sé che, conformemente alla dottrina pan-indiana, è anche la realtà ultima, l’Essere.

Il Libro tibetano dei morti chiama questa Luce la «Pura Verità» e la descrive come qualcosa di «sottile, scintillante, abbagliante, glorioso e terrificante nel suo splendore».
Il testo esorta così il morto: «Non intimidirti, non impaurirti, è lo splendore della tua vera natura. Riconosciti in essa!».
A questo punto, dal centro di questa radianza si sprigiona un suono paragonabile a mille tuoni uditi simultaneamente: «È la natura del tuo Sé reale – dice il testo. – Non devi terrificarti! […] Dato che tu non hai più un corpo materiale di carne e sangue, qualsiasi cosa avvenga, suoni, luci o raggi, sono nell’impossibilità di nuocerti. Tu non puoi morire. Basta che tu riconosca che tutte queste apparizioni sono forme del tuo stesso pensiero. Riconosci tutto questo come il Bardo».

Ma, come accade alla maggior parte degli uomini, il morto non sa mettere in pratica questi consigli. Condizionato dal suo karma, si lascia trascinare nel cielo delle manifestazioni caratteristiche dello stato bardo.
Il defunto è avvertito che, il quarto giorno dopo la morte, vedrà radianze e divinità: «Tutto il Cielo gli apparirà come color turchino scuro». Vedrà il Bhagavân Vairocana, bianco; poi, dal suo cuore si manifesterà la sapienza del Dharmadhâtu, sempre di colore Vairocanabianco, brillante, trasparente, risplendente di una luce così intensa da non potersi fissare. «Nello stesso tempo una luce bianca e opaca emanata dai Deva ti colpirà in fronte».

A causa della potenza del cattivo karma, l’anima avrà paura della luce brillante del Dharmadhâtu, e amerà invece la luce bianca e opaca dei Deva.
Ma il testo esorta il defunto a non avvicinarsi alla luce dei Deva, per non essere attirato nel turbinio dei sei Loka, ma a concentrare invece il suo pensiero su Vairocana.
In tal guisa finirà per fondersi, in un meraviglioso arcobaleno, nel cuore di Vairocana, e otterrà la condizione di Buddha nel centro del sambhoga-kâya.

Per altri sei giorni al morto sarà dato di scegliere tra le Luci pure – che rappresentano la liberazione, l’identificazione con l’essenza del Buddha – e le Luci impure, simboleggianti una qualche forma di nuova esistenza, ovvero il ritorno sulla terra. Dopo le Luci bianca e blu, vedrà le Luci gialla, rossa e verde, e infine tutte le Luci insieme. […]

Come abbiamo detto, ogni uomo ha la possibilità di raggiungere la liberazione al momento della morte: è sufficiente, per questo, riconoscersi nella Chiara Luce che sperimenta in quel momento.
A tutta prima, ciò può sembrare paradossale, data l’importanza attribuita al karma da tutto il pensiero indù, che vuole che l’uomo colga i frutti delle proprie azioni. Gli atti di un individuo che ha vissuto nell’ignoranza costituiscono un retaggio del suo karma, che è impossibile da annientare al momento della morte.

Ma, in realtà, non tutto avviene in conformità alla legge del karma: infatti, l’anima di chi non ha la «conoscenza» respinge il richiamo della Luce Pura e si lascia attirare dalle luci impure, simboleggianti i modi inferiori dell’esistenza.
Invece, coloro che in vita hanno praticato lo yoga, sono capaci di riconoscersi nella Chiara Luce, e così di fondersi nell’essenza del Buddha.

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La luce che folgora al momento della morte è dunque la stessa luce interiore che le Upanisad identificano con l’âtman: durante la vita terrena, essa rimane accessibile solo a coloro che vi sono preparati spiritualmente attraverso le pratiche yoga o la gnosi. In fondo, la stessa condizione si ripete al momento della morte: la Luce si mostra sì a tutti, ma non è accolta – e fatta propria – che dagli iniziati.
È vero che, durante l’agonia e i primi giorni che seguono alla morte, il Libro dei morti viene letto da un lama a beneficio del defunto, e questa lettura ad alta voce costituisce un ultimo appello; ma è pur sempre il morto a decidere della sua sorte.

Egli deve avere il potere di scegliere la Chiara Luce e di resistere alle tentazioni di nuove esistenze. In altri termini, la morte offre ancora una possibilità di essere iniziati, ma questa iniziazione comporta, come qualsiasi altra, una serie di prove che il neofita è tenuto ad affrontare e vincere.
L’esperienza della Luce nel post-morte costituisce l’ultima prova iniziatica, e forse la più difficile.

(Eliade, Mefistofele e l’Androgino)

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Ma questa benedetta Luce che i moribondi avvistano in extremis, è Bianca o Nera – è Chiara o Oscura?
surreal-alberi-fuocoInsomma, questa Sapienza è dotta o è ignorante?
Questo sapere di Sé, di cui si viene a sapere quantomeno in punto di morte, come può essere saputo? per mezzo di un Libro fuori di noi, scritto e letto da altri – o perché è già tutto stampato nella Mente così come Mamma Natura a ciascuno di noi l’ha data?

Ci sono tante bellezze, e c’è pure la Grande Bellezza.
Platone, l’abbiamo visto, dice che in fondo alla strada percorsa dall’Amante c’è l’Inizio del suo proprio «erotismo»: punto e a capo, eccolo di fronte a ciò che è «bello di natura», al cospetto di ciò che la sua «natura» trova «bello».
Alla fine del viaggio il Viandante non può trovare altro che ciò che ha perduto lungo la via della «cultura»: l’ha perduto, incredibile a dirsi, in una ambigua voce del «dire», l’ha rimesso a un «anagramma» del tipo καλεῖν καλόν.
A questo «pasticcio» linguistico egli ha rimesso l’insolubile enigma della sua Luce, ovvero del suo Bello, del suo Possibile. Se c’è dunque un nodo da cui ha da sciogliersi, è quello che lo stringe ancora nella «logica» di un Discorso, e che ancora lo trattiene nel miraggio di una Realtà «culturale», imprigionato tra le contraddizioni e gli aut-aut dei Segni «culturali»: Segni della Cultura – non di Mamma Natura.

Segni a cui Mamma Natura s’è dovuta piegare. Mamma Natura, ahimé, è stata «iniziata» alla Cultura – e questa fu tutta la Crudeltà.
Fu questa la sola, e perciò dispari, crudele violenza.
Mi dispiace per Eliade e compagni, ma mi pare l’ora di deporre tutta questa enfasi a proposito dell’«iniziazione», per poi non dire la sola cosa che forse il lamaismo si surreal-bambini-lampadinapropone, e cioè, almeno in punto di morte, di «terminare» ciò che in illo tempore fu «iniziato».
Di restituire al morto la vita (naturale) che gli è stata tolta (con l’iniziazione a una cultura e ai suoi segni artificiosi). Di restituire il morto al Possibile della sua propria Luce, a quel Possibile a cui dovette abdicare per venire a credere alla Realtà così come i Segni, da cultura a cultura, la «realizzano».

La Notte non è obbligata all’aut-aut. Non più, al «termine» della Via.
La Notte sarà Chiara e Oscura, sarà bianca e nera, sarà l’una e l’altra: così almeno ci lasciò per iscritto Nerval.
Quel «pizzino» fu tutto il suo cocciuto testamento. Morire nella Luce del proprio Possibile, dovette sembrargli già futuro. Non essendoci al suo capezzale un lama che gli leggesse la formula della liberazione, se lo scrisse da sé, il Libro Altrui.