Warrau – Ape diventa genero

C’era una volta un Indio. E quest’Indio un giorno andò a caccia.
Non ci andò da solo, ma portò con sé tre dei suoi cinque figli: i due maschietti e una delle tre femmine. Le altre due rimasero al villaggio a fare compagnia alla madre.
amazzoniaQuando si furono inoltrati nella foresta, il cacciatore e i figli costruirono un rifugio per accamparsi.

La ragazza, il giorno dopo, era mestruata, e avvisò il padre che non avrebbe potuto accompagnarlo per preparare la graticola e cucinare, poiché le era vietato toccare utensili.
Sicché, i tre uomini andarono a caccia senza di lei, ma non furono fortunati e tornarono la sera a mani vuote. E poiché l’insuccesso si ripeté anche il giorno successivo, cominciarono a pensare che la loro sfortuna dipendeva dallo stato della ragazza.
Il terzo giorno, però, di buon mattino andarono lo stesso a caccia.

La ragazza intanto, rimasta nell’accampamento, si distese a riposare sulla sua amaca, quand’ecco a sorpresa vide un uomo avvicinarsi ed entrare nel suo giaciglio, nonostante la sollecitudine con la quale l’avvertiva della sua condizione e la resistenza che gli opponeva.
Il giovane ebbe l’ultima parola, e le si distese accanto proclamando la purezza delle sue intenzioni. Disse che l’amava da molto tempo, ma che per il momento voleva solo riposarsi, e che avrebbe atteso il ritorno del padre della fanciulla per chiederla in matrimonio nel debito modo.

Rimasero quindi coricati a fianco, e passarono tutto il giorno a chiacchierare e a fare progetti per il futuro.
Il giovane le rivelò di essere un «simoahawara», un membro cioè della Tribù delle Api. Era dunque un Simo, e per questo – come tutti quelli della sua Gente – era dotato di preveggenza.
Infatti, come aveva previsto e annunciato, il padre, di ritorno dalla caccia, non manifestò nessuna sorpresa alla vista di un uomo coricato nell’amaca con la figlia: finse anzi di non notare nulla.

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Il matrimonio ebbe luogo il mattino successivo, e Simo disse ai tre uomini che potevano rimanere a riposarsi, e che si sarebbe occupato lui di procurare da mangiare.
In un istante uccise una quantità prodigiosa di selvaggina che i tre indios non furono capaci di trasportare, ma che egli trasportò da solo senza sforzo.
C’era di che nutrire la famiglia per mesi.

Dopo aver fatto essiccare tutta questa carne, presero la strada del ritorno: ognuno portava tutta la carne che poteva, e il carico di Simo era cinque volte superiore a quello dei tre uomini messi assieme, tale era la forza che egli possedeva. Il che non gli impediva di camminare più speditamente.
La comitiva fece quindi ritorno al villaggio, e Simo si stabilì, secondo l’usanza, nella capanna del suocero. Quando ebbe terminato di dissodare e di piantare, sua moglie diede alla luce un bel bambino.

Ma proprio allora cominciarono i guai: le due cognate divennero per Simo motivo di preoccupazione. Esse si erano infatti innamorate di lui e tentavano continuamente di due-tentatricientrare nella sua amaca, dalla quale però egli subito le scacciava.
Non le desiderava, non provava nemmeno simpatia per loro, e si lamentava con la moglie della condotta delle sue sorelle.

Ogni volta che le tre donne facevano il bagno, mentre Simo badava al bambino sulla riva, le cognate tentavano di spruzzarlo, gesto tanto più perverso in quanto Simo le aveva avvertite che ogni goccia che avesse toccato il suo corpo l’avrebbe bruciato come il fuoco: prima l’avrebbe rammollito, poi consumato.
Ed effettivamente nessuno l’aveva mai visto fare il bagno: si lavava col miele alla maniera delle api, ma la moglie era l’unica a conoscerne il motivo, poiché non aveva rivelato a nessuno la sua identità.

Un giorno che stava sulla riva col bambino in braccio, mentre le tre donne facevano il bagno, le cognate riuscirono a bagnarlo.
Egli lanciò subito un grido: «Brucio! Brucio!», e volò come un’ape a rifugiarsi nella cavità di un albero, dove si sciolse in miele, mentre il bambino che aveva in braccio si tramutò in Wau-uta: la rana arboricola.

[fonte: Lévi-Strauss, Dal miele alle ceneri]

***

Carestia – caccia infruttuosa – cacciatori inetti che la sera tornano a casa a mani vuote (all’incirca come Orfeo alla fine d’ogni canto).
Un giorno, due giorni e poi … il terzo giorno sulla scena irrompe, provvidenziale, uno Sconosciuto. Dice di provenire dalla Tribù delle Api. E Ape (= Simo) è il suo nome, benché abbia (ancora) sembianze umane.
Il Racconto non lo dice, ma questo Simo dev’essere piccolo come un nostro elfo, se il Padre della ragazza neanche si accorge della sua presenza. Come? lui amoreggia con sua figlia, e il Padre «finge» di non vederlo? Avrà per caso già intuito che quel «piccoletto» farà la sua fortuna?

Carestia – Hæmyts va a caccia di cervi, quand’ecco un ragazzino, un essere «piccolo piccolo» (non doveva avere più di un anno e mezzo, secondo Lacan), lo precede nel tiro a bersaglio: ha già «ucciso» il Cervo Meraviglioso mentre Hæmyts ancora si accinge a elfo-foglieprendere la mira.
È più «rapido». E non solo nel cacciare. È più «rapido» anche nel consumare ciò che ha cacciato. È più lesto a procurarsi un Tag, ma anche a farne «usa e getta». È più lesto a «rimuovere», a «far sparire» dalla scena della caccia la selvaggina che ha catturato. È più generoso nella spartizione del bottino: a Hæmyts ne concede addirittura i «due terzi».
Ed è pure più forte: talmente forte da farsi carico, e mettersi in spalla (piccolo com’è) il peso di centinaia se non di migliaia di «significanti», per trasportarli a destinazione.

Anche del nostro Simo il Racconto sudamericano dice che, da solo, è capace, oltre che di cacciare una prodigiosa quantità di selvaggina, anche e soprattutto, meraviglia delle meraviglie!, di trasportarla fino al Villaggio.
È curioso, non trovi?, che da un continente all’altro il Racconto metta l’accento su questo suo Trasporto?
Insomma: se c’è qualcosa che il «piccolo» sa fare meglio del «grande» è la traslazione (da un «posto» all’altro, ma anche da un «senso» all’altro) di un certo «materiale significante» di cui a beneficiare sarà il Cacciatore e, con lui, la sua Gente afflitta dalla Carestia.

Ma c’è dell’altro.
In questo rimbalzare del Racconto dal Caucaso al Brasile risuonano, gli uni nell’eco degli altri, certi «resti erranti», frammenti di un Racconto forse più antico dell’Età della Pietra. Resti (o Tagesreste, come li chiama Freud), residui, avanzi svuotati della loro antica significazione, e messi al servizio della nuova.
Resti che hanno trapassato millenni, e solcato mari e montagne – e sono ancora là, e ancora si richiamano.

Carestia – traslatore magico – Provvidenza.
Mediazione di un «elfo»: in Sudamerica Ape, sul Caucaso Formica (è infatti lui stesso a bacio-ranadire che abita in un mondo a cui si accede passando per il Formicaio). Mediazione, dunque, di un «piccolo piccolo».
Ma per quanto piccolo egli sia, ogni freccia che scocca dal suo arco produce quel rimbombo, quel boato, che si sente alla Confluenza di due mondi, di due Genti, di due Fiumi o Mari linguistici, le cui onde si «anagrammano» l’una nei flutti dell’altra.
Con-fusione di lingue, sposalizio di sensi propri e sensi figurati, di segni «morti» che passano a significare dei «neonati»: la confluenza di carestia e provvidenza ha, dunque, un «prezzo». Comporta il prezzo di una preziosa, feconda, ma insieme pericolosa, «contaminazione».

Perciò, dal Sudamerica al Caucaso il Racconto ribadisce che, dove si pativa Carestia, tornerà sì l’Abbondanza, ma a condizione di stringere un’alleanza tra i «due» mondi.
E quale alleanza, quale congiunzione migliore potrebbe esserci di quella che si celebra con le Nozze?
Che sia il «piccoletto» stesso a fare la parte dello Sposo (Warrau), o che egli si limiti a concedere la mano di sua sorella al Cacciatore (Caucaso) – persistono comunque, pur nella difformità dei loro nuovi contesti, due «resti» forti.

C’è in primis che, in entrambi i racconti, il «piccoletto» (questa è una informazione che nessuno di noi dovrebbe trascurare) è suscettibile, irritabile, se la prende per niente, è uno schizzinoso, e come vedi basta appena uno schizzo d’acqua a metterlo in fuga e, letteralmente, a dissolverlo.
Fa’ dunque attenzione a non deriderlo, e soprattutto a non sputarci sopra!

E in secundis c’è che, alla fine del Racconto, in Brasile come sulle montagne del Caucaso, guarda un po’ in entrambi i casi chi ti compare: una Rana.
Sì, proprio quel brutto ranocchio che ripugna ai nostri baci. Perfino Soslan ne è disgustato. Solo uno come Hæmyts ha il fegato di portarsela in casa!
Eppure non c’è magia, non c’è follia, non c’è incantesimo che nella Fanciulla in cui agli occhi di Hæmyts la rana si trasforma la notte.
Perciò, non fare la fesseria di esporla sulla Pubblica Piazza – perché gli altri, se pure hanno gli occhi come te, non vedranno mai altro che una schifosa rana qualsiasi.