Vi fu un anno di grande carestia presso i Narti. Per mangiare, avevano solo la carne che riportavano dalle loro cacce.
Hæmyts si distingueva: dapprima, dalla Pianura del Larice Giallo, portò giovani caprioli. Non si limitò a questo e, dal Burrone Secco, portò daini dai fianchi nervosi. Poi, sempre servizievole, dalla cima della Montagna Nera portò carichi e carichi di tacchini neri.
Un giorno in cui era a caccia e, fino a sera, la sua freccia non aveva minacciato né uccello né quadrupede, d’un tratto, al calar della notte, che cosa vede? un intero branco di cervi bruca la verde erba di una radura e, tra quelli, un grande cervo bianco!
«È Dio che me lo manda!», disse e mirò al cervo bianco. Ma proprio mentre stava per scoccare la freccia, le gole della montagna rimbombarono per un frastuono formidabile, e i cervi si dispersero; solo il cervo bianco restò dov’era, immobile.
Hæmyts si stupì: «Non c’è una nuvola in cielo: come mai questo tuono? Dev’essere stato qualcun altro a ucciderlo, e tuttavia non vedo nessuno, non un movimento …».
Ma ecco apparire, uscendo dalla foresta, un ragazzo piccolo piccolo. Corse vicino al cervo, lo abbatté e lo scorticò. Quando gli ebbe tolta la pelle da una parte, Hæmyts si disse: «Eccoti a buon punto! Chi verrà a girartelo dall’altra parte? Se Dio vuole, alla fine il corpo del cervo toccherà a me! …».
Ma, con sua grande sorpresa, il ragazzo girò il corpo come avrebbe fatto con una farfalla …
«Creatura della disgrazia!», disse Hæmyts. Raccogliendo alcuni ramoscelli, andò verso il ragazzo e li sparse sul cadavere del cervo, secondo l’uso dei cacciatori: «Dio ti conceda buona caccia!», disse.
«Quello che mi concederà, lo conceda a entrambi! – rispose il ragazzo e, arrotolando la sua pellanda di feltro – siedi vieni a me, ospite», disse a Hæmyts.
«No, verrò ad aiutarti, sarebbe troppo faticoso per te da solo».
«Dio mi conceda solo quanto potrò portare!», disse il ragazzo e, lavorando con destrezza il cadavere del cervo, lo pulì rapidamente e l’appese a un albero.
Accese il fuoco, infilzò su quattro spiedi i pezzi migliori e li mise ad arrostire.
«Ha certo dei compagni, altrimenti perché tanto chachlyk?», si disse Hæmyts.
Ma no, il ragazzo depose due spiedi davanti a Hæmyts, due davanti a sé e, questi, li divorò così rapidamente che il Narto era ancora al primo quando l’altro li aveva già finiti.
«Perché non mangi? – chiese il giovane. – Come ti sazi presto!». E, portandogli via l’ultima schidionata, la mangiò.
Quell’appetito riempì di stupore Hæmyts: «Non è un essere come gli altri!», si disse.
Dopo il pasto, il ragazzo preparò un letto nella cavità di una caverna e, quando Hæmyts si fu coricato, lo coprì con la sua pellanda.
Hæmyts si addormentò, e di quale sonno! Il ragazzo intanto prese la pelle del cervo, la tagliò in strisce e preparò briglie, pastoie e intrecciò fruste.
Verso mezzanotte, Hæmyts si svegliò: «Sei ancora seduto? – domandò. – Perché non dormi?».
«Non ho tempo per dormire – rispose il ragazzo. – Quando nel villaggio donde vieni, ti chiederanno con chi sei stato a caccia, cosa risponderai? Bisogna pure che tu porti qualche prova del tuo racconto …».
Quando fu giorno, il ragazzo disse a Hæmyts: «Dobbiamo assolutamente fare una gara».
«Una gara di che?».
«Facciamo una partita di caccia».
«Va bene!».
Si recarono in una vasta gola in cui doveva trovarsi abbondante selvaggina.
«Vuoi ribattere o stare alla posta?», chiese il ragazzo.
«Non posso più ribattere granché. È meglio che stia io alla posta».
Il ragazzo corse su una delle creste che incorniciavano la gola, poi andò sull’altra, con richiami di falco e grida di aquila. Tutta la selvaggina che c’era rifluì in massa verso Hæmyts, ma Hæmyts si confuse e se la lasciò sfuggire.
Il ragazzo tornò: «Da dove sono passate le mie bestie?», domandò.
«Nessuna bestia è venuta dalla mia parte», rispose Hæmyts.
Se quella menzogna lo irritò, il ragazzo non lo lasciò capire: «Allora, resta tranquillamente seduto e lascia fare a me», disse, e ripartì.
Questa volta non gettò grida, ma colpì. Uccise bestie a centinaia, a migliaia. Riunì tutti i corpi e ne fece tre parti.
«Siamo solo due – si stupì Hæmyts – e allora perché fa tre parti? Evidentemente vuol prenderne due per sé. Come potrei sopportarlo? Già molto lunga è la mia vita, ho fatto molte scorrerie e spedizioni, tuttavia mai ho ricevuto un simile affronto …».
Compiuta la spartizione, il ragazzo disse: «Vieni, e prendi la parte che spetta al più anziano!».
Hæmyts prese la parte del più anziano.
«E adesso – continuò il ragazzo – prendi la parte che spetta al compagno!».
Hæmyts prese la parte del compagno. Poi il ragazzo lo salutò, si buttò sulle spalle la sua parte come se fosse un fascio di luppolo, e partì.
Hæmyts era tutto contento: «Il mio viaggio finisce bene!», pensò. E a gran voce chiamò i Narti: «Chi ha un carro venga col carro! Col cavallo chi ha un cavallo! A piedi chi non ha né l’uno né l’altro! Venite a servirvi di selvaggina!».
I Narti accorsero in massa e si presero le bestie uccise.
Hæmyts non aveva fatto molta strada quando un pensiero gli attraversò la mente: «Se i Narti mi chiedono chi era il mio compagno, cosa risponderò?».
Girò le briglie e si lanciò dietro al ragazzo. Questi si fermò, depose il suo carico e lo lasciò avvicinare.
«Cos’è? cos’hai dimenticato?».
«Perdonami – disse Hæmyts – di non averti chiesto chi sei e di quale famiglia!».
«Sono della razza dei Donbettyrtæ e della famiglia dei Bytsentæ. Noi viviamo sottoterra».
«Allora voglio dirti una cosa. Sono piccoli, certo, ma sono così valorosi gli uomini della tua famiglia, che io desidero stringere un’alleanza con loro».
«Benissimo, noi pure desideriamo un’alleanza coi Narti. Ma ecco la difficoltà: siamo suscettibili, irascibili. Nonostante la nostra piccola corporatura, due spanne in altezza e meno ancora in larghezza, la nostra forza e il nostro coraggio non hanno bisogno di prove. Io ho una sorella e, beninteso, te la daremmo volentieri, ma voi siete facili all’offesa. Ora, un’offesa ci fa ammalare, un rimprovero ci uccide, e temo che tu non abbia la forza di proteggerla».
«Datemela! Proteggerla è affar mio», disse Hæmyts.
Il ragazzo accettò e fissò un termine.
«Scaduto quel termine – disse – presentati da noi».
«Dove vi troverò? Dove vivete?», chiese Hæmyts.
«Non avrai che da seguire le mie tracce. Tra poco, quando attraverserò il folto del bosco, tenderò la spada alla mia destra e aprirò una via larga come una strada di villaggio. Quando arriverò alla pianura, trascinerò un piede per terra e vi traccerò un solco. Ti condurrà a un formicaio. Là, sottoterra, si trova la nostra casa».
Si salutarono. Il giovane Bytsen riprese il suo carico di selvaggina, e tornò a casa lasciando le tracce che aveva detto. Hæmyts tornò tra i Narti e raccontò loro la sua avventura.
Quando fu scaduto il termine, Hæmyts riunì i più rispettati dei Narti e partì con loro per andare a prendere moglie presso i Bytsentæ.
Si recarono dapprima nel luogo dove il giovane Bytsen si era congedato da Hæmyts, poi seguirono, nel bosco, la via aperta dalla sua spada. Infine, nella pianura, il solco tracciato dal suo piede. Questo li condusse fino al formicaio. Lì si fermarono e misero piede a terra.
Proprio in quel momento la gioventù dei Bytsentæ emerse da sotto il formicaio, tolse loro armi e pellande, li condusse sottoterra, aprì una porta e li fece entrare, insieme ai loro cavalli.
Quale festa attendeva i visitatori e quale la gioia dei Bytsentæ!
Soslan era il paggio d’onore di Hæmyts. In tale qualità, chiese di vedere colei che stava per diventare sua sorella. Lo condussero in una stanza dove erano disposte in fila molte fanciulle, una più bella dell’altra.
Soslan le salutò e domandò loro: «Quale di voi è mia sorella?».
«Nessuna di noi. Tua sorella è qui che dorme».
«Non scherzate. Tra le fanciulle che vedo, ditemi, qual è la moglie di mio fratello?».
«Eccola», dissero, e dalla lettiera trassero una rana.
Dapprima Soslan pensò che scherzassero, ma quando si convinse che era proprio la sposa quella che pelle di rana copriva, si precipitò fuori e gridò ai compagni: «Hæmyts è rimasto celibe fino adesso e capisco il perché: chiunque si prende gioco di lui! Questa volta, ha messo in ridicolo tutti insieme i più rispettati dei Narti. Montiamo tutti a cavallo e torniamocene a casa!».
Il corteggio di Hæmyts se ne andò. Quanto a lui, rimase per ultimo. I Bytsentæ posero discretamente la rana tra le coperte della sua sella, ed egli s’incamminò, tutto triste, verso il villaggio dei Narti.
Arrivato a casa, tolse la sella. Con la testa bassa tra le spalle alzate, la portò in camera sua, la gettò in un angolo e, pieno di collera e di disappunto, si coricò nel suo letto.
Quando fu addormentato, la rana uscì dalla sella e si trasformò in una fanciulla, e quale fanciulla: la luce del cielo e la bellezza della terra! Le trecce le ondeggiavano sulle spalle e le scendevano fino alle caviglie, illuminando la stanza come se il sole sorgesse sul soffitto.
Hæmyts si svegliò: «Quale Genio sei, o quale Spirito?».
«Non sono un Genio né uno Spirito, sono la moglie che sei andato a prendere tra i Bytsentæ. Di giorno mi è impossibile uscire da questa pelle di rana e di notte mi è impossibile restarci».
«Se è così, coricati nel mio letto».
«No, non mi coricherò – rispose. – Mostrami piuttosto tutte le stoffe che hai preparato per il giorno in cui avresti preso moglie, dalla tua giovinezza fino alla tua vecchiaia e che hai ancora qui».
Hæmyts si alzò, aprì uno scrigno, ed ecco apparire i migliori tessuti, le lane più belle, accumulate dalla sua giovinezza fino ai giorni della sua vecchiaia. La donna prese le forbici e cominciò a tagliare. Prima dell’alba, aveva tagliato e cucito quanto occorreva per vestire cento uomini dalla testa ai piedi.
La notte seguente fece altrettanto. E quando i duecento abiti furono pronti, disse a Hæmyts: «Va’ presto a distribuire questa roba ai Narti, e i capi migliori agli uomini più miserabili. Non aver paura di vuotare le nostre riserve: quello che tocco io non si esaurisce».
Hæmyts fece come lei aveva detto e i Narti si chiesero con meraviglia da dove avesse tirato fuori un tal numero di vesti.
(Fonte: Dumézil, Il libro degli Eroi)