Solo comparando fenomeni religiosi simili, si può afferrare la loro struttura generale e al tempo stesso i loro specifici significati particolari.
Quello della «luce mistica» è uno di questi fenomeni: esperienze e ideologie «visionarie» sono attestate in diverse religioni, non solo arcaiche e orientali, ma anche dentro le tre tradizioni monoteistiche: ebraica, cristiana e islamica.
Inoltre, cosa ancor più significativa, esiste una ricca documentazione relativa a esperienze spontanee o «naturali» di luce interiore, esperienze cioè fatte da individui senza alcuna preparazione ascetica o mistica e, apparentemente, addirittura privi di interessi religiosi.
Come c’era da aspettarsi, le somiglianze e le differenze morfologiche tra esperienze di questo tipo mostrano significati religiosi o teologici distinti, e tuttavia comparabili.
Tutti i tipi di esperienza di luce costringono di fatto l’uomo a uscire dal suo universo profano o dalla sua situazione storica e lo proiettano in un universo qualitativamente differente, in un mondo del tutto diverso, trascendente e sacro.
La struttura di questo mondo sacro e trascendente – sia detto per evitare ogni confusione – varia da una cultura all’altra, da una religione all’altra. Esiste tuttavia un elemento comune: l’universo che si manifesta all’incontro con la Luce si contrappone all’Universo profano, o lo trascende, per il fatto che ha un’essenza spirituale, per cui è accessibile soltanto a coloro per i quali lo Spirito esiste.
L’esperienza della Luce cambia radicalmente lo stato ontologico del soggetto, aprendolo al mondo dello Spirito.
Ma, non appena viene concettualizzato, questo mondo dello Spirito si trova irrimediabilmente condizionato dal linguaggio, quindi dalla cultura e dalla storia. Si potrebbe dire che il senso della Luce sovrannaturale è dato senza mediazioni, direttamente, all’anima di chi la sperimenta – e tuttavia questo senso non giunge pienamente alla coscienza se non integrato in un’ideologia preesistente.
Il paradosso consiste nel fatto che il significato della Luce è, in fondo, una scoperta personale e che, d’altra parte, ciascuno scopre ciò che era spiritualmente e culturalmente preparato a scoprire.
Resta però un punto che ci sembra fondamentale: quale che sia l’integrazione ideologica successiva, l’incontro con la Luce provoca una rottura nell’esistenza del soggetto, essa gli rivela – o gli svela più chiaramente che in precedenza – il mondo dello Spirito, del sacro, della libertà; in una parola, gli fa vedere l’esistenza come un’opera divina o il mondo santificato dalla presenza di Dio.
Le diverse esperienze di luce da me esaminate, comprese quelle spontanee, possono essere valorizzate come esperienze religiose perché la Luce, nei sistemi mitologici o teologici esistenti, è espressione della divinità, dello spirito, o di una vita santificata.
Certo, una ben articolata teologia o metafisica della Luce, paragonabile, ad es., a quella del sistema indiano, iranico o gnostico, non si trova ovunque. Ma del carattere esperienziale della maggioranza delle mitologie, teologie e gnosi basate sull’equivalenza «luce – divinità – spirito – vita», è impossibile dubitare.
In altre termini: dopo aver passato in rassegna, sia pure parzialmente, la ricca e suggestiva documentazione relativa alle esperienze di «luce mistica», è difficile non ravvisare in tali esperienze, nell’ambito delle religioni e delle sette in cui la luce era valorizzata in sommo grado, la fonte, il presupposto o la conferma della corrispondente teologia della luce. […]
La connaturalità di natura divina, sole, luce e spirito (âtman) o energia creativa operante a tutti i livelli cosmici, pare essere stata concepita fin dal periodo vedico. In Rig Veda, X: 121. 1, Prajâpati, il Creatore, è presentato come Hiranyagarbha, «l’embrione aureo», vale a dire il seme solare. I Brâhmana considerano esplicitamente il seme virile un’epifania solare: «Quando il padre umano lo emette come seme nel grembo materno, è realmente il Sole a emetterlo come seme nel grembo materno» (Jaiminîya Upanisad Brâhmana, III: 10. 4-5). La luce è, infatti, la «potenza procreativa».
Nella Brhadâranyaka Upanisad, invece, il seme virile è solo veicolo dell’Immortale (cioè l’âtman – Brâhman): «Colui che è presente nel seme, colui che il seme non conosce, colui il cui corpo (veicolo) è il seme, sei tu stesso (âtman), il controllore interiore, l’Immortale» (III: 7. 23).
La Chândogya Upanisad (III: 17. 7) connette, comunque, il «seme primitivo» con la luce, «luce suprema» e, in definitiva, col sole.
È noto che la concezione del sole come progenitore è estremamente diffusa. In molti miti e racconti folclorici americani, la nozione di verginità è espressa con vocaboli che significano «non toccata dal sole».
Nell’antico Egitto la vita fluisce come luce dal sole o come seme dal fallo di un dio creatore.
Ma tornando alle Upanisad, va detto che per la mentalità indiana c’è una sola verifica concreta (basata sull’esperienza) di ciò che si può chiamare la «realizzazione del Sé» (âtman), e cioè l’esperienza di «luce interiore».
Si tratta di una realizzazione subitanea, «come il balenare del lampo» (Kena Upanisad, IV: 4). La comprensione istantanea, luminosa, dell’essere è al tempo stesso la rivelazione della verità metafisica: «nella verità illuminante» (Kausîtakî Brâhmana Upanisad, IV: 2).
Analogamente, luci di vario colore – chiamate «forme preliminari» di Brâhman nella Švetâšvatara Upanisad (II: 11), sono sperimentate dagli asceti e dagli yogin durante le loro meditazioni.
Non c’è da stupirsi che gli dèi siano «più radiosi del Sole e della Luna». In ogni sua manifestazione Brahmâ si rivela con «la luce che sorge e la gloria che splende». E da una profusione di luce soprannaturale è annunciata la nascita o l’illuminazione dei grandi salvatori e saggi.
Così, la notte in cui nacque Mahâvîrâ, «c’era un grande, divino, religioso splendore» (Akârânga Sûtra, II: 5. 7).
Ma è soprattutto nei testi e nell’iconografia buddhista che abbondano le epifanie di luce.
Alla nascita di un Buddha brillano cinque luci cosmiche e ogni Buddha può illuminare l’universo intero col solo ciuffetto di peli che gli cresce tra le sopracciglia. Gautama dichiara, alla fine di un discorso, di esser «diventato una fiamma».
Quando Buddha è in samâdhi, «un raggio chiamato Ornamento della Luce della gnosi esce dall’apertura della protuberanza cranica e gioca sulla sua testa» (Lalita-Vistara, I). Gli esempi potrebbero moltiplicarsi.
Immediatamente dopo aver raggiunto il nirvana, delle fiamme cominciano ad affiorare nel corpo di Gavampâti, che viene così ad auto-cremarsi. In modo analogo, anche Ananda entra in combustione spontanea e raggiunge il nirvana.
Stiamo naturalmente parlando di una concezione pan-indiana. Dalla testa di famosi yogin e contemplativi indù scaturisce sempre una fiamma, e dai loro corpi si irradia un’energia ignea.
Negando l’esistenza dell’âtman come entità spirituale ultima, irriducibile, i buddhisti spiegano l’esperienza di un’interiore auto-luminosità con la natura specifica del pensiero puro. «Luminoso è questo pensiero – scrive Gonda – ma talvolta è macchiato da passioni accidentali».
Sviluppando questo passo, alcune scuole Hînayâna asseriscono che il pensiero è originariamente e naturalmente luminoso, ma può essere corrotto dalle passioni, o liberato dalle passioni. Le passioni non appartengono però alla natura originale del pensiero, e sono perciò qualificate come accidentali.
Certi autori Yogâcâra identificano il «pensiero luminoso» con l’«embrione del Tathâgata». Così un sûtra citato nel Lankâvatâra descrive il Tathâgatagarbha come «naturalmente luminoso, puro, nascosto nel corpo di tutti gli esseri». Discutendo della natura del Sé (âtman), il Mahaparinirvâna Sûtra asserisce che «l’âtman è il Tathâgatagarbha: tutti gli esseri possiedono la natura di Buddha: questa è âtman. Ma fin dall’inizio, questo âtman è sempre coperto da innumerevoli passioni; è per questo motivo che gli esseri non riescono a vederlo».
Si può dunque dire che, secondo questa teoria, la natura originale dell’uomo è quella di un essere spirituale auto-luminoso (= pensiero, âtman), identico all’embrione di un Buddha.
La natura della «realtà», del pensiero e della buddhità è luce. E la concezione dell’embrione del Tathâgata nascosto in tutti i corpi, può essere comparata con l’antica serie indiana di omologie: «natura divina – spirito – luce – seme».
(Eliade, Spirito, luce e seme)