Ovidio – La cecità di Tiresia

Non il vedere per primi qualcosa di nuovo, bensì il vedere come nuovo l’antico, ciò che è già anticamente conosciuto e che è da tutti visto e trascurato, contraddistingue le menti veramente originali.
Il primo scopritore è comunemente quell’esaltato, affatto volgare e privo di spirito, che si chiama caso.
(Nietzsche, Umano troppo umano, 2: 200)

Mentre sulla terra si compivano questi eventi fatali [morte di Semele e simultanea partorizione di Dioniso], e la prima infanzia del due volte nato Bacco trascorreva tranquilla, si racconta che per caso Giove, ebbro di nettare e perciò più chiacchierone del solito, tralasciasse la cura dei suoi impegni seri per mettersi a scherzare con Giunone, Tiresia-femminaanche lei in quella circostanza senza affari da sbrigare, e che le dicesse: «Il piacere (voluptas) che provate voi è certamente più grande di quello che provano i maschi».
E siccome Giunone non era d’accordo, avrebbero deciso di sentire il parere di Tiresia che di queste cose se ne intendeva, avendo saggiato Venere sia da maschio che da femmina.

Infatti, aveva violato con un colpo di bastone l’accoppiamento di due grandi serpenti in una verde selva, e – cosa prodigiosa – da maschio era diventato femmina, e tale era rimasto per sette anni. All’ottavo ebbe la ventura di rivedere gli stessi serpenti e disse: «Se colpirvi ha un effetto così potente da mutare nel suo contrario la sorte di chi vi colpisce, farò bene adesso a colpirvi una seconda volta!».
E così, bastonati un’altra volta i serpenti, riacquistò la forma originaria, l’aspetto suo natio.

Costui, dunque, scelto come arbitro di quella scherzosa vertenza, confermò le parole di Giove; al che, la figlia di Saturno, a quanto si racconta, se l’ebbe a male più del dovuto, più di quanto meritasse una questione così leggera, e per ripicca condannò gli occhi di colui che le aveva dato torto a una notte eterna.
Ma il padre onnipotente (non essendo lecito a nessun dio annullare ciò che fatto un altro dio), in cambio della luce perduta, gli concesse di conoscere il futuro, e con quest’onore gli alleviò la pena.

(Ovidio, Metamorfosi, 3: 316-338)

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Tiresia-serpenti

Sovranità del Caso.
Per caso Giove era ubriaco, per caso lui e la sua consorte si trovavano a non avere niente da fare, per caso stavano a discutere del «sesso degli angeli» (un argomento, non c’è che dire, «volgare» e tutt’altro che «spiritoso») e sempre per caso Tiresia, l’arbitro della loro vertenza, aveva sorpreso due serpenti a fare l’amore.
Il Caso – Soggetto Sovrano. Uomini e dèi gli sono ugualmente assoggettati.

Ma che cosa ha visto per caso il nostro Tiresia? Che cosa il Caso ha fatto involontariamente «scoprire» a questo «esaltato»?
Gli ha fatto vedere un «prodigio» (un che di «mirabile», dice Ovidio), vedere qualcosa di «mostruoso» (Tiresia lo porta scritto nel nome: egli è colui che ha visto un τέρας = qualcosa di selvaggiamente «naturale», qualcosa che gli si è mostrata allo stato brado dispiegando tutta la sua potenza di metamorfosi – capace infatti di mutare l’aspetto a chi per caso si trova a esserne spettatore).
Quale che sia questo «prodigio» che ha visto e le cui conseguenze ha patito, Tiresia non è giunto a vederlo attraverso una trafila «culturale». È la Natura che gliel’ha sbattuto in faccia!

La Natura, dice qui in principio Ovidio, batte simultaneamente due strade: c’è la strada della Legge Fatale, di quella Legge che è risultata «fatale» a Semele, e c’è la strada del Raceanu-surreal-sognoCaso, quella imboccata dal padreterno quando è in stato di ebbrezza, quando cioè si concede d’essere un po’ «mefistofelico», un po’ meno serioso e un po’ più ridanciano del solito.
Semele è caduta vittima del Fato – perché sta scritto che qualunque «umano» che, come Semele, s’azzardi a vedere «nudo e crudo» (senza mediazioni, senza velo) il «divino» oggetto dei suoi aneliti e desideri, sarà folgorato.
Tiresia è stato invece vittima del Caso: il «prodigio» che ha visto, lui non se l’è cercato, non ha chiesto, non ha preteso – come Semele – di vederlo, ma gli è caduto per caso sotto gli occhi.

Ora, il punto è che Ovidio «usa» Tiresia come pendant tra il racconto della doppia nascita di Dioniso e quello della tragedia di Narciso. Lo «usa», di fatto, per saltare dall’una all’altra strada – dal Fato al Caso. Per marcarne la differenza: Semele «muore», Tiresia è solo trasformato (andata e ritorno) da maschio a femmina, e da femmina a maschio.
Semele non ritorna. Semele, come dice il suo nome, è Quella che una sola volta … ha osato avventurarsi nell’altoforno della sua passione d’amore, e quella sola volta è bastata ad annientarla. Tiresia invece torna a essere quello che era prima dell’incontro casuale coi due serpenti. A lui Giove può alleviare la pena, mentre nel caso di Semele perfino il suo Amato Padreterno è del tutto impotente.

Uomini e dèi sottostanno al Fato. In quanto al Caso, invece, gli dèi hanno potere di mitigarne gli effetti. Di compensare cioè un «danno» con un «beneficio».
Il danno è evidente: Tiresia sarà per sempre cieco.
Il beneficio, di cui in compenso godrà, è la casuale scoperta che ha fatto: questa non solo non gli sarà tolta, ma sarà nientemeno il «fondamento» della sua arte divinatoria.
Potrà dunque, grazie a quella scoperta, aggirarsi in territori «divini», venire perfino a Tiresia-ciecodirimere controversie tra gli dèi. Perché il Caso ha voluto fare di lui un «originale», l’apripista di una sapienza «nuova». Di un modo nuovo di sapere l’«antico». Di un modo insolito di guardare il solito.

Tiresia non ha scoperto il Sesso. Il Sesso è l’Antico.
Tiresia, in questo Antico, nel Sesso ha visto per caso qualcosa di Nuovo. L’ha visto nel momento in cui, a colpi di bastone, ha «rotto» l’Ermafrodito nuziale spezzandolo in maschio e femmina. Di una coppia ha fatto due: un celibe e una nubile.
Anche per questo il suo è un caso inverso a quello di Semele – perché là dove la donna innamorata non aspira che ad annientarsi nell’unità congiungendosi col suo «amato», Tiresia non fa altro che disgiungere l’Uno in due.
Semele si accoppia e, accoppiandosi, si annienta nel suo amore. Tiresia scoppia in due «amanti» l’Androgino.

Tiresia non ha visto niente di nuovo. L’Androgino è l’Antico. La novità, è il suo sguardo a introdurla. È il suo occhio a distinguere e sdoppiare l’Uno.
Tragica novità. Origine di quella sapienza nuova che si fonda sulla casualità d’un miraggio.
Quale che sia questo Miraggio, questo «mirabile», e lo Stupore indotto dalla sua casuale «visione», esso – dirà poco più avanti Tiresia – esalta il Narciso che è in tutti gli sguardi «umani», ma solo a condizione e fintanto che Narciso non saprà nulla di se stesso. Finché non accuserà la sua distanza dall’Altro, perché in tal caso il suo destino non differirà da quello di Semele che per un dettaglio: Semele brucia, Narciso annega; Semele si estingue nel fuoco della presenza all’Altro, Narciso sprofonda nelle acque di quella sua propria immagine in cui crede di vedere l’Altro.

Conoscere se stessi! hai detto niente.
I devoti di Apollo scolpirono sul fronte del tempio di Delfi il dogma primo della loro fede: conosci te stesso!
Tiresia, a quanto pare, lo sconsiglia.
Che dici? un «dionisiaco» come Nietzsche da che parte poteva schierarsi? Da quella di chi s’illude di poter addomesticare il Miraggio, la folgorazione dello sguardo di Semele e di Narciso, a quel poco più di niente che le sue parole riescono ad «acculturare», o da quella di chi invece è costretto a contenere in un ambiguo aforisma o in una dubbia sentenza «oracolare» l’infinita varietà dei casi «naturali»?
Di chi pretenziosamente trionfa sulla propria Natura, o di chi invece ha avuto la ventura di dover sbrogliare i dogmi della sua Cultura – per far respirare un poco, appena un poco all’aria aperta, l’enigma del suo essere?