L’uomo «agisce» con la mano, giacché la mano è assieme alla parola il contrassegno essenziale dell’uomo. Soltanto l’ente che, come l’uomo, «ha» la parola (μῦθος; λόγος), può e deve «avere» anche la «mano».
Per mezzo della mano avvengono al tempo stesso la preghiera e l’assassinio, il saluto e il ringraziamento, il giuramento e il cenno, ma anche l’«opera» della mano, il «manufatto» e l’utensile. La stretta di mano fonda il patto vincolante. La mano causa l’«opera» della devastazione.
Solo là dove c’è svelamento e velamento la mano è essenzialmente presente in quanto mano.
Nessun animale ha una mano, e mai da una zampa, uno zoccolo o un artiglio può nascere una mano. Anche la mano disperata non è mai, anzi, essa meno che mai, un «artiglio» con cui l’uomo si «aggrappa» a qualcosa.
Unicamente dalla parola e con la parola è nata la mano.
Non è l’uomo che «ha» le mani, è invece la mano che custodisce in sé l’essenza dell’uomo, poiché la parola, in quanto ambito essenziale della mano, è il fondamento essenziale dell’uomo.
La parola, in quanto tracciata e quindi tale che si mostra allo sguardo, è la parola scritta, la scrittura. Ma la parola in quanto scritto è Handschrift, scrittura manuale, grafia.
L’uomo moderno, non a caso, scrive «con» la macchina per scrivere e «detta» («diktiert», la stessa parola di «dichten», «poetare») «nella» macchina.
La «storia» del modo di scrivere è una delle ragioni principali della crescente distruzione della parola, la quale va e viene non più tramite la mano che scrive e propriamente agisce, bensì tramite la sua impressione meccanica.
La macchina per scrivere strappa la scrittura all’ambito essenziale della mano, cioè della parola, che diviene essa stessa qualcosa di «battuto a macchina».
Quando invece la scrittura a macchina è solo una copia e serve alla conservazione della scrittura, oppure sostituisce la scrittura al posto della «stampa», allora essa ha il suo significato peculiare e definito.
Al tempo del primo imporsi della macchina per scrivere, una lettera dattiloscritta veniva ancora considerata un’offesa alla decenza. Oggi una lettera scritta a mano disturba la lettura veloce e risulta quindi sorpassata e indesiderata.
La scrittura a macchina destituisce la mano dal suo rango nell’ambito della parola scritta e degrada la parola a mero veicolo di trasporto. Inoltre, la scrittura a macchina offre il vantaggio di nascondere la grafia e con essa il carattere. Nella scrittura a macchina tutti gli uomini sembrano uguali.
(Heidegger, Parmenide)
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Solo là dove «svelamento e velamento», conscio e inconscio, «cooperano» (nel solo modo «collaborativo» che conoscono, e cioè il «conflitto»), e dunque solo là dove questo «conflitto» produce una sua propria manipolazione, e solo là fin dove esso giunge a manomettere il Velo – solo là la Mano partecipa all’«illuminazione» della Parola: è cioè, insieme, la sua «esecutrice» manuale, ma anche Colei che la guida nell’arduo attraversamento del Ponte.
Il Racconto dice che l’Eroe o è un «ladro» o un «derubato». Ora è lui che va a rubare i cavalli a un suo «vicino», ora invece qualcuno glieli ha rubati e lui se li va a riprendere. Nell’un caso come nell’altro, il momento decisivo è sempre quello: l’Eroe ha da attraversare nell’oscurità della notte, come a dire in pieno regime di Velamento, il Ponte tra le due Montagne.
Tra svelamento e velamento, tra conscio e inconscio, non c’è che quel ponte sottile, quanto o forse più di un capello. La Parola, dice il Racconto, da sola non ce la fa a passare: non basta che di un cavallo io dica «è mio», bisogna che la mia mano cooperi al «possesso» di cui si vanta la parola.
Perché la «cosa»-cavallo sia effettivamente «mia», bisogna che io ce l’abbia in mano.
La mano è dunque al servizio della parola. Il suo «fare» (πράσσειν) obbedisce al «fare» (ποιεῖν) della Parola. Lo mette «in pratica».
Perciò la Mano non nasce né da una zampa, né da un artiglio. È la Parola che di una zampa o di un artiglio «fa» la Mano. L’«ente dotato di Parola» è il solo che può «avere» la Mano. La Mano è nata dal bisogno della Parola di scrivere le sue volontà.
Ma proprio qui è il punto: se la Mano è l’«erede» della Parola, la Parola non può fare a meno di passarle in consegna il suo «conflitto». La Parola non può non coinvolgerla nel proprio destino, ma, insieme, non può non rimettere se stessa e il proprio destino nelle mani della Mano.
Si perderà, se la Mano a cui si è rimessa non le «illuminerà» più l’arduo passaggio del Ponte. Si perderà, se non farà alla Mano il dovuto omaggio: se per orgoglio continuerà ad arroccarsi nella pretesa di poter bastare a se stessa.
Finché l’Eroe non riconoscerà di dipendere dall’aiuto del dito mignolo della sua Sposa, finché il Mito, il Logos, la Parola, non abdicherà alla sua «eroica» presunzione, alla sua smania «poetica» di bastare a se stessa, si ripeterà – dice il Racconto – la solita tragedia.
Nel buio della Notte, la «refurtiva» più o meno ermetica del Poeta, tanto più se consiste in un branco di cavalli selvaggi, non passerà il Ponte.