Toba – L’origine della Notte

Una volta la notte non esisteva. Era sempre giorno. La notte dormiva in fondo alle acque. Non esistevano nemmeno gli animali, poiché anche le cose parlavano.
surreal-spirito-notteLa figlia del Gran Serpente aveva sposato un Indio, signore di tre servi fedeli.
Un giorno, il padrone disse loro: «Allontanatevi, perché mia moglie si rifiuta di coricarsi con me».
Ma non era la loro presenza a mettere in soggezione la donna: essa voleva far l’amore solo di notte. Spiegò allora al marito che suo padre possedeva la notte e che bisognava mandare i servi a prenderla.

Quando questi giunsero in piroga dal Gran Serpente, questi consegnò loro una noce di palma tucuman ben chiusa, e raccomandò di non aprirla per nessun motivo.
I servi risalirono sulla piroga e si meravigliarono, poco dopo, di udire un rumore proveniente dalla noce: ten, ten, ten … xi …, come fanno i grilli e i piccoli rospi che cantano di notte.

Un servo volle aprire la noce, ma gli altri si opposero. Dopo molte discussioni, e quando giunsero molto lontano dalla dimora del Gran Serpente, essi si riunirono infine nel mezzo della piroga, accesero un fuoco e fecero fondere la resina che otturava la noce.
Subito si fece buio, e tutte le cose che erano nella foresta si trasformarono in quadrupedi ed uccelli, tutte quelle che erano nel fiume in anitre e pesci. La cesta si tramutò in giaguaro, il pescatore e la sua piroga divennero un’anitra: la testa dell’uomo fu dotata di un becco, la piroga divenne il corpo, i remi le zampe …

L’oscurità che regnava fece capire alla figlia del Gran Serpente quanto era accaduto. Quando apparve la stella del mattino, essa decise di separare la notte dal giorno, e a questo scopo trasformò due gomitoli di filo in uccelli: rispettivamente cujubim e inhambù [un cracide e un tinamide, che cantano a intervalli regolari di notte o per salutare l’alba].
Per punirli, trasformò poi in scimmie i servi disobbedienti.

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Questo mito solleva problemi complessi. Quelli che concernono la triade dei servi saranno discussi un’altra volta. Per il momento, prenderemo in considerazione soprattutto la triplice opposizione che fa da ossatura al mito.
Quella fra giorno e notte è patente. Essa ne sottintende altre due: anzitutto fra congiunzione e disgiunzione dei sessi, poiché il giorno impone la seconda, mentre la notte è la condizione della prima; poi, fra comportamento linguistico e comportamento non linguistico: quando il giorno era continuo, tutto parlava, anche le bestie e le cose, ed è proprio nel momento in cui la notte fece la sua comparsa che le cose divennero mute e che gli animali non si espressero più se non con grida.

Ora, nel mito, questa prima comparsa della notte risulta dall’imprudenza che commettono i servi suonando uno strumento che è alla lettera uno strumento delle tenebre, perché le contiene e perché esse escono dal suo orifizio sturato per diffondersi surreal-gocce-lunasotto forma di animali notturni e rumorosi – insetti e batraci – che sono proprio quelli il cui nome designa gli strumenti delle tenebre nel Vecchio Mondo: rana, rospo, cicala, cavalletta, grillo.
L’ipotesi secondo la quale una categoria corrispondente dei nostri strumenti delle tenebre esisterebbe tra le rappresentazioni mitiche del Nuovo Mondo, trova una conferma decisiva nella presenza, tra queste rappresentazioni, di uno strumento che è effettivamente tale e che lo è in senso proprio, mentre, da noi, gli strumenti similari meritano questa accezione solo in modo figurato.

Ma se lo strumento delle tenebre appartiene, nel nostro mito, alla notte, e se quest’ultima appare come una condizione richiesta per l’unione dei sessi, ne consegue che lo strumento preposto alla loro disunione, il rombo, deve essere implicitamente legato al giorno, che ha la stessa funzione.
Avremmo dunque una quadruplice correlazione fra la notte, l’unione dei sessi, i comportamenti non linguistici, lo strumento delle tenebre, correlazione che si oppone termine a termine a quella del giorno, della disunione dei sessi, di un comportamento linguistico generalizzato e del rombo. Solo che il rombo, a parte il fatto che non si vede bene come esso potrebbe connotare un comportamento linguistico, è anch’esso collegato alla notte, se pure con una funzione diversa da quella degli strumenti delle tenebre.

Il nostro mito non cita il rombo, ma evoca un’era in cui la notte era custodita da un grande serpente (il cui grido, per i Toba, somiglia a quello del rombo) e in cui essa «dormiva in fondo alle acque» (come il mostro acquatico che i Bororo chiamano /aigé/, «rombo», e di cui il rombo serve a imitare il grido).
Sappiamo anche che, in quasi tutti i luoghi dove esiste, il rombo serve a disgiungere il Kukulkangenere femminile e a respingerlo dalla parte della natura, fuori del mondo sacro e socializzato.

Ora, il nostro mito proviene dai Tupi settentrionali, ossia da una cultura e da una regione in cui i miti descrivono il grande serpente come un essere fallico che riuniva in sé tutti gli attributi della virilità, in un’epoca in cui gli uomini stessi ne erano sprovvisti. Essi non potevano quindi copulare con le mogli, ridotte a sollecitare le prestazioni del serpente. Questa situazione ebbe termine quando il demiurgo tagliò il corpo del serpente in molti pezzi, che utilizzò per dotare ogni uomo del membro che gli mancava.
Pertanto, la mitologia Tupi fa del serpente un pene (socialmente) disgiuntore, concetto che la funzione e il simbolismo del rombo ricoprono. Ed è proprio questa la funzione che il Grande Serpente assume qui, a titolo di padre abusivo e non di seduttore dissoluto: ha ceduto la figlia, ma ha conservato la notte, in mancanza della quale il matrimonio non può essere consumato.

Sotto questa prospettiva, il nostro mito si collega a un gruppo di miti, in cui un altro mostro acquatico consegna all’uomo che egli accetta come genero – e che, in certe versioni, è proprio il sole, ossia la luce del giorno – una sposa incompleta, quindi impossibile da penetrare: ragazza senza vagina, simmetrica agli uomini senza pene, e inversa rispetto all’eroina dalla vagina troppo grande (simbolicamente parlando) del ciclo del tapiro seduttore, animale dal pene grosso che è una variante combinatoria del grande serpente «tutto pene», il quale ci riconduce al punto di partenza. […]

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William Blake – Eva e il Serpente

Poniamo dunque il rombo dalla parte della notte, della quale, sotto le sembianze del serpente, esso è il signore; e riconosciamo che anche lo strumento delle tenebre si trova da questa parte. Non si tratta però, in tutti i casi, della stessa notte, poiché, simili nell’eccesso, la notte del rombo sfugge al giorno, mentre quella dello strumento delle tenebre lo invade.
Pertanto, propriamente parlando, nessuna delle due si oppone al giorno, ma a quell’alternanza accertata empiricamente nella quale, anziché escludersi, il giorno e la notte sono uniti da un rapporto di mediazione reciproca: il giorno media il passaggio dalla notte alla notte, e la notte il passaggio dal giorno al giorno.

Se da questa catena periodica dotata di una realtà oggettiva vengono tolti i termini «notte», rimarrà solo il giorno, il quale culturalizza, se così si può dire, la natura, sotto la forma di un’estensione abusiva dei comportamenti linguistici agli animali e alle cose.
surreal-luna-portaViceversa, se i termini «giorno» sono espulsi dalla catena, rimarrà solo la notte, la quale naturalizza la cultura grazie alla trasformazione dei prodotti dell’industria umana in animali.

Il problema trova la sua soluzione non appena riconosciamo il valore operativo di un sistema a tre termini: giorno da solo, notte da sola e alternanza regolare dei due.
Questo sistema comprende due termini semplici più uno complesso, che consiste in una relazione armoniosa fra di loro. Esso fornisce una cornice all’interno della quale i miti d’origine, sia del giorno che della notte, si distribuiscono in due specie distinte, a seconda che pongano il giorno o la notte all’inizio dell’alternanza attuale.
Il nostro mito appartiene alla seconda categoria.

Ora, la scelta iniziale determina una importante conseguenza, poiché concede necessariamente la precedenza a uno dei due termini.
Nel caso – che è l’unico a interessarci qui – dei miti con premessa diurna, in un primo tempo c’era soltanto il giorno, e se la notte esisteva, era disgiunta dal giorno e, per così dire, dietro le quinte.
Conseguentemente, l’altra eventualità non può più realizzarsi in una forma esattamente simmetrica. Una volta il giorno era là dove non esisteva la notte; e quando la notte lo sostituirà (prima che s’instauri la loro alternanza regolare), lo potrà fare solo regnando dove il giorno era prima di lei.
Possiamo ben comprendere quindi perché, in questa ipotesi, il «lungo giorno» risulta da uno stato iniziale di disgiunzione, la «lunga notte» da un atto sussidiario di congiunzione.

(Lévi-Strauss, Dal miele alle ceneri)

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Michelangelo – La Notte e il Giorno

Notte > Natura (comportamenti naturali)
Giorno > Cultura (comportamenti culturali)

Notte senza Giorno > abuso dei comportamenti naturali: unione dei sessi (o meglio: vige solo la comunicazione sessuale)
Giorno senza Notte > abuso dei comportamenti culturali: tutti i viventi (non solo gli animali, ma anche le cose parlano la stessa lingua: vige dunque solo la comunicazione verbale)

Notte e Giorno, e di conseguenza: Natura e Cultura, Sesso e Parola, sono però concepiti nei miti sudamericani come termini ai quali il carattere di estremi non è inerente: essi solitamente «comunicano», di regola si mediano reciprocamente, sicché l’unico rischio a cui di fatto siamo esposti è quello di un’alterazione del rapporto che li unisce, un suo sbandamento o dalla parte della Notte o da quella del Giorno, nel qual caso soltanto succede la catastrofe che ne fa due «estremi» tra loro irriducibili.
surreal-conchiglia-tonniNon c’è nient’altro da temere, stando alla filosofia degli indios sudamericani, nient’altro che questa «irregolarità» che assolutizzerebbe o l’uno o l’altro dei due termini, e che strappandoli alla «regola» quotidiana della loro alternanza, condannerebbe il mondo intero o a un Giorno senza fine, ossia a un mondo di soli scambi «culturali», o a una Notte Eterna, ossia a un mondo che praticasse solo scambi «sessuali» e solo nelle modalità «selvagge» di una sessualità «naturale».

Solo da questo ci dobbiamo guardare, secondo gli antichi filosofi brasiliani: solo dal lasciare che uno dei due «linguaggi», il Sesso o la Parola, sopraffaccia l’altro fino a metterlo a tacere e a cacciarlo via dal nostro mondo.
Il nostro mito parte, come detto, da una premessa diurna: immagina cioè un «a priori» (apollineo) di pura luce, immagina un sole sempre allo zenit, senza nessun’ombra, una sorta di solstizio eterno, dove tutto è alla luce del sole, tutto chiaro ed evidente, tutto in piena luce di coscienza, niente di nascosto, nessun segreto da custodire, e nessun «inconscio» dunque in circolazione, ma neanche nessun confine tra uomini, animali e cose.
E, ahimé, soprattutto – niente Sesso!

Mi pare che basti e avanzi per dedurne che, senza la Notte, saremmo persi. Senza la Notte si dissolverebbe l’ombra, tutto sarebbe indifferentemente manifesto, tutto fuso in una stessa intensità di luce. Senza la Notte, non ci sarebbe né una culla né una tana per la nostra «individualità». Di più: tutte le Specie si scioglierebbero nell’Indiscernibile, in quanto sparirebbe tra loro ogni differenza «naturale», e tutto sarebbe «culturalmente» scambiabile con qualunque altra cosa, animale o uomo. Non ci sarebbero che «cose» in questo magro trionfo (apollineo).
Ma, viceversa, se proviamo a immaginare l’«a priori» (dionisiaco) di una Notte che non fa mai giorno, di una Notte nera come il carbone, di una Notte eternamente fedele ai soli surreal-conflittovincoli «sessuali», di una Notte che dà ascolto solo alle molteplici voci della Natura e della Sessualità, e sorda invece a qualunque richiamo della Parola, di una Notte, insomma, senza pudore, di una Notte che non ha mai visto spuntare l’alba di una qualunque coscienza – ciò che ci si prospetta non è certo meno catastrofico.

Noi abbiamo bisogno del «conflitto» [di Apollo e Dioniso] per essere quelli che siamo: per individuarci nella nostra singolarità, e insieme per non farci divorare dalla tentazione di idolatrare il mito su cui la fondiamo. Per aprirci e chiuderci, ininterrottamente, per tutta la vita, alle «comunicazioni» che ci giungono da tutt’e due i Contendenti.
Noi siamo nati, cresciuti e pasciuti in questa conflittualità permanente. Noi non possiamo fare a meno di questo conflitto. Guai anzi a darla vinta a questo o a quello dei Due. In entrambi i casi, ecco: questa sarebbe una di quelle credulità a cui rischiamo di arrenderci.

Il conflitto è il padre di tutte le cose (Eraclito)

Perché credulone è chi impone un aut-aut alla propria Credenza. È chi la riduce a identificarsi nella devozione a Uno solo, quale che sia, dei Due. A chi alla propria Credenza vuole risparmiare la fatica del Conflitto, senza sapere che, come suggeriscono i nostri «filosofi selvaggi», così essa si condanna al rogo, alla siccità, al deserto (il Trionfo della Luce), o alla putrefazione, al fango e alle bassezze (a tutto il marcio che c’è in Danimarca: nell’oscurità della nostra Notte di Natura c’è dello sporco, sia pure incosciente, c’è del cannibalismo, c’è del sadismo, c’è del perverso che si ostinano nella loro asocialità).
È credulone chi non combatte (più) per l’Angelo della propria Credenza. Non so se c’entra con Lévi-Strauss, ma va bene lo stesso.

Perché lo stesso sarebbe un non-senso, dice Teseo, tanto dovermi misurare col Minotauro se fuori dal labirinto non mi aspettasse Arianna, quanto sposare Arianna una volta che il Minotauro morto non m’incutesse più paura. Ho bisogno di tutt’e due. Devo dibattermi tra le loro due «lingue».
Tra la Lingua del Giorno e quella della Notte – devo far tesoro di quel che mi succede nei confini della loro alternanza, nella luce crepuscolare delle loro reciproche albe e tramonti, là dove le lingue si fondono, dove immaginario e simbolico si fecondano a vicenda.
Perché, dice Sohrawardî, solo là mi è dato incontrare il Rosso, solo là mi accade che a intelligere è finalmente la mia rubedo, dice dal canto suo l’Alchimista. Solo là mi parla il Vecchio-Bambino. La mostruosa saggezza che Natura mi diede solo là si sposa con la Parola delle più antiche immaginazioni umane.