Sohrawardî – L’Intelletto rosso

Una volta un amico mi chiese: «Secondo te, gli uccelli comprendono la lingua l’uno dell’altro?».
Gli risposi che sì, che gli uccelli si parlano e si capiscono.
«E come fai tu a saperlo?», mi obiettò lui.
«Lo so – gli risposi – perché in principio, quando il Pittore della Realtà volle far manifesto Sohrawardiil mio nulla, mi evocò nella forma di un falco e, nel paese in cui mi trovavo, c’erano altri falchi, e noi chiacchieravamo assieme e ci capivamo a volo l’un l’altro».
Allora l’amico soggiunse: «E com’è che adesso non sei più un uccello?».
State a sentire quale fu la mia risposta. Perché questa è una lunga storia.

Un giorno avvenne che i cacciatori del Destino e del Fato tesero le reti nella Notte della mia incoscienza adescandomi con un chicco di Desiderio, e così fu che mi fecero prigioniero. E da quella contrada che era il mio antico nido, mi trascinarono altrove, cucirono i miei occhi, di quattro lacci ostili mi legarono il corpo e dieci esseri mi misero a guardia: cinque col viso rivolto verso di me e col dorso all’esterno, e gli altri cinque col dorso contro il mio dorso e il viso rivolto all’esterno.
I cinque che avevano il volto verso di me e il dorso verso l’esterno, mi trattennero allora nel mondo dello Stupore, e tanto mi istupidirono che dimenticai il mio nido e la natia contrada, nonché tutto quello che sapevo, finché poco a poco non cominciai a pensare d’essere sempre stato quale ero ora diventato.

Passato che fu un certo tempo, mi si riaprirono un po’ gli occhi, sicché potevo guardare con quel poco d’occhio che avevo socchiuso, e rivedere le cose che non avevo più visto, e ne provavo grande meraviglia. Poi, man mano gli occhi mi si aprirono del tutto, e il mondo allora mi si mostrò così com’è.
Vedevo allora i miei lacci ostili e i custodi che mi sorvegliavano, e dicevo tra me: «Sembra che questi quattro lacci ostili non me li tolgano mai, e che mai da me si allontanino falcoquesti custodi, in modo che io possa aprire le ali e per un attimo almeno volare in aria e liberarmi di questi ceppi».

Orbene, dopo un certo tempo mi accorsi che i guardiani non erano attenti, e dissi tra me e me: «Migliore occasione di questa non mi potrebbe capitare».
Strisciai giù in un angolo e, sia pure zoppicando per via dei lacci, finii per andarmi a rifugiare nel deserto.
E là, nel deserto, mi imbattei in un uomo che veniva verso di me; mi avvicinai e lo salutai, ed egli mi rispose con estrema grazia e gentilezza. Ma ecco che, guardandolo meglio, notai che aveva il volto e la barba rossi.
Pensai perciò che fosse giovane e gli chiesi: «Giovanotto, da dove vieni?».
«Figlio mio – mi rispose – tu ti rivolgi a me in modo sbagliato: io sono il Primogenito della Creazione, e tu mi prendi per un giovane?».

Gli chiesi allora perché la sua barba non fosse diventata bianca.
Mi rispose: «Bianca è la mia barba e io sono un vecchio di luce; ma colui che ti ha catturato nella rete e che ti ha avvinto con questi lacci e che ha messo questi guardiani alle tue calcagna, da tempo ha gettato anche me nel Pozzo Nero, e questo colore mio che tu vedi, per questo è rosso. Ché io altrimenti sono bianco, e di luce …».

Allora gli chiesi: «O vegliardo, da dove vieni?».
«Di là – rispose. – Vengo da oltre il monte Qâf, ché laggiù è la mia dimora. Là era anche il tuo nido, un tempo, ma ahimé tu l’hai dimenticato».
Dissi: «E laggiù cosa facevi?».
Rispose: «Io sono un viandante e senza sosta viaggio per il mondo e ne contemplo le meraviglie».
E io a lui: «E quali cose meravigliose hai visto nel mondo?».
«Sette cose – rispose: – prima fra esse il Monte Qâf che è il mio paese, seconda la Perla surreal-montagneche illumina la Notte, terza l’Albero Tûbâ, quarta le Dodici Officine, quinta la Corazza di David, sesta la Spada indiana, settima la Fonte di Vita».
«Narrami dunque di loro», chiesi.

«Ecco: c’è in primo luogo il Monte Qâf, che s’innalza intorno al mondo e lo circonda completamente; di fatto, si compone di undici monti; e tu, quando sarai liberato dai lacci, vi andrai. Perché di là ti hanno portato via, e ogni essere, infine, alla sua forma iniziale ritorna».
«E come trovare la strada – gli chiesi – per andare in quel luogo?».
Rispose: «È difficile la via, e prima di arrivarci bisogna passare due monti, anch’essi di Qâf, uno caldo e uno freddo, e il loro calore e gelo sono infiniti».
Dissi allora: «Ma è facile! Passerò l’inverno in quello che è caldo e l’estate in quello che è freddo».
Ma disse: «Purtroppo ti sbagli. L’aria di quella contrada in nessuna stagione è propizia».
Chiesi: «E quanto da qui distano quei monti?».

Rispose: «Per quanto lungi tu vada, infine non potrai che pervenire di nuovo al Luogo Primo; come il compasso, una cui punta è sul centro e l’altra sulla circonferenza, e per quanto giri, finisce sempre per tornare al luogo da cui era partito».
Chiesi: «E non si possono perforare quei monti e uscire oltre, fuori?».
«No – rispose. – Anche perforarli è impossibile, ma in compenso colui che ne ha la capacità, può oltrepassarli senza perforarli. Si tratta di una virtù simile a quella dell’olio di balsamo: se tieni il palmo della tua mano di fronte al sole finché si riscalda e ve lo fai gocciolare, ecco che l’olio di balsamo trapassa la mano uscendo dal dorso, per una speciale qualità che possiede. Quindi, se tu attui in te stesso questa capacità naturale di oltrepassare quei monti, allora sì che li supererai in un attimo».

Kush-fiori

«E come – chiesi – si può realizzare in se stessi questa capacità?».
Disse: «Te lo lascerò intendere per allusioni. Sta a te comprenderle».
Gli chiesi: «Una volta oltrepassati quei due monti, il resto sarà facile?».
«Sì – rispose – sarà facile, ma a condizione di sapere. Alcuni rimangono infatti per sempre prigionieri tra quei due monti, altri giungono fino al terzo e lì si fermano, altri al quarto, al quinto, e così fino all’undicesimo: soltanto quell’uccello che sarà più acuto d’intelletto andrà più avanti».

Dissi allora: «Ora che mi hai descritto i monti Qâf, raccontami della Perla che illumina la Notte».
«La Perla che illumina la Notte – disse lui – si trova anch’essa nei monti Qâf. Più precisamente, si trova sul terzo monte, ed è grazie alla sua presenza che la notte tenebrosa si illumina. Essa tuttavia non risplende sempre della stessa intensità. La sua luce proviene dall’Albero Tûbâ. Ogni qualvolta si trova in opposizione all’albero Tûbâ, vista da dove sei tu, la Perla appare tutta luce, come un globo brillante rotondo. Quando una parte s’inclina un po’ oltre e si avvicina di più all’Albero, un po’ del suo cerchio pare nero, mentre il resto rimane così luminoso, e ogni volta che più si avvicina all’Albero parte della sua luce si fa nera da questa parte dove sei tu. Ma in direzione dell’Albero, una sua metà è luminosa. Quando poi tutta si trova presso l’Albero Tûbâ, tutta la parte surreal-lunavolta verso di te è nera, e quella rivolta all’Albero tutta luminosa. Poi, oltrepassato l’Albero, ridiventa ancora in parte luminosa e man mano che si allontana dall’Albero la parte volta a te diventa sempre più luminosa. Non che la luce progredisca, ma il corpo della Perla prende più luce, e minore diventa la nerezza e così, finché di nuovo viene a trovarsi in opposizione all’Albero: allora tutto il suo corpo, di nuovo, prende luce …»

Chiesi allora al Vecchio: «E l’Albero Tûbâ, allora, che cos’è, e dove si trova?».
Mi rispose: «L’Albero Tûbâ è un albero immenso, e chiunque frequenti il paradiso, vi contempla quest’albero non appena vi arriva. È su uno degli undici monti di cui ti ho parlato dianzi, che sorge quest’Albero».
«Produce frutti quest’Albero?», domandai.
«Ogni frutto che tu vedi nel mondo, è su quest’Albero, e questi frutti che stanno dinanzi a te sono tutti frutti suoi. Se non ci fosse quest’Albero, tu non ti vedresti mai dinanzi né frutta, né alberi, né erbe profumate, né piante».

«E quale relazione c’è – gli domandai – tra la frutta, gli alberi, le erbe odorose [che vedo] e quest’albero [di cui mi parli]?».
«Devi sapere – mi rispose – che è sulla cima dell’Albero Tûbâ che la Sîmorgh ha il suo nido. All’alba la Sîmorgh esce da questo suo nido e apre di nuovo sul mondo le sue ali. È per effetto delle sue piume che appaiono i frutti sugli alberi e le piante germogliano dalla terra».
Dissi al Vecchio: «Ho sentito dire che fu la Sîmorgh ad allevare Zâl, e che fu con l’aiuto della Sîmorgh che Rustam uccise Esfandyâr».
Il Vecchio disse: «Sì, è vero».
Chiesi: «E come avvenne questo?».

Simorgh-paint

Rispose: «Quando Zâl nacque da sua madre aveva i capelli bianchi e il suo volto era tutto bianco. Suo padre Sâm ordinò che fosse gettato nel deserto, e perfino sua madre era molto addolorata per averlo messo al mondo. Vedendo che il figlio aveva un aspetto così ripugnante, diede il suo assenso a quell’ordine, e così abbandonò Zâl nel deserto. Era inverno e faceva freddo, e nessuno immaginava che il bambino poteva sopravvivere per molto. Passati alcuni giorni, la madre si riprese dal suo stato sconvolto. Le venne in cuore pietà per il figlio e disse: “Voglio andare nel deserto; voglio vedere come sta mio figlio”. Giunta nel deserto, lo ritrovò: il figlio era ancora vivo, la Sîmorgh l’aveva preso sotto la sua ala. Quando lo sguardo di Zâl cadde su sua madre, le sorrise. Allora la madre lo prese in grembo e l’allattò. Voleva portarselo a casa, ma poi pensò: “No, fintantoché non scopro come mai è stato possibile che Zâl sopravvivesse per tanti giorni, è meglio che io non vada a casa”. Così lasciò Zâl in quel luogo stesso, sotto l’ala della Sîmorgh, e lei si nascose nelle vicinanze. Quando scese la notte e la Sîmorgh partì da quel deserto, venne da Zâl una gazzella e gli mise in bocca la sua mammella. Quando Zâl ebbe finito di poppare il gazzella-paintlatte, la gazzella si sdraiò a dormire presso il bambino, per tenere Zâl al riparo da ogni pericolo. La madre allora si alzò, allontanò la gazzella da presso il fanciullo e se lo portò a casa».

Chiesi al Vecchio: «Qual è il senso nascosto di tutto ciò?».
Il Vecchio rispose: «Lo chiesi io stesso alla Sîmorgh ed ecco cosa la Sîmorgh mi disse: “Zâl era venuto al mondo sotto lo sguardo dell’Albero Tûbâ e noi non abbiamo permesso che perisse. La gazzella, la rimettemmo nelle mani del cacciatore, e nel suo cuore istillammo pietà per Zâl, affinché essa di notte se ne prendesse cura e l’allattasse, mentre di giorno ero io a tenerlo sotto la mia ala”».

«E come fu – chiesi al Vecchio Saggio – il caso di Rustam e Esfandyâr?».
«Ecco come andò. Rustam non era forte abbastanza per vincere Esfandyâr, e stanco batteva in ritirata. Suo padre Zâl si rivolse allora, supplice, alla Sîmorgh. La Sîmorgh ha questa qualità naturale che, se le si mette di fronte uno specchio o un qualsiasi corpo riflettente, ogni occhio che guardi in quello specchio viene accecato. Zâl fece costruire pertanto una corazza di ferro perfettamente lucida, e la fece indossare a Rustam, gli pose in testa un elmo anch’esso lucidissimo e al suo cavallo fissò frantumi di specchi. Poi mandò Rustam a disporsi sul campo di battaglia di fronte alla Sîmorgh. Esfandyâr doveva di necessità avanzare di contro a Rustam: sicché, quando gli fu vicino, il raggio della Sîmorgh cadde sulla corazza e sugli specchi e un loro riflesso giunse agli occhi di Esfandyâr, che ne furono accecati. Esfandyâr non vedeva più niente. Si immaginò di essere stato ferito ad entrambi gli occhi, perché gli era parso di vedere due punte acuminate. Cadde da cavallo e perì per mano di Rustam. È da credere che quelle due punte di freccia di gâz di cui parlano i racconti, fossero le due ali della Sîmorgh».

Rustam-Esfandyar

Chiesi al Vecchio: «Vuoi dunque farmi credere che in tutto il mondo non sia esistita che una sola Sîmorgh?».
«No – s’affrettò a rispondermi. – Solo uno che non sa, la pensa così. E invece in ogni tempo una nuova Sîmorgh scende dall’Albero Tûbâ sulla terra, e quella precedente immediatamente sparisce. Se così non fosse, niente di ciò che esiste, esisterebbe. E mentre una nuova viene sulla terra, l’altra Sîmorgh se ne va dall’Albero Tûbâ alle Dodici Officine».

Chiesi: «Che cosa sono le Dodici Officine?».
«Sappi anzitutto – rispose – che il nostro Re, quando volle organizzare il suo regno, popolò dapprima la nostra contrada; poi ci mise all’opera e ordinò di costruirgli le Dodici Officine, ponendo in ciascuna di esse un certo numero di apprendisti. Poi mise al lavoro questi apprendisti, finché sotto queste Dodici Officine non comparve un’altra Officina, a cui il nostro Re prepose un Maestro. Poi mise all’opera questo Maestro, finché sotto a quella Prima Officina non ne comparve una Seconda; poi mise all’opera un secondo Maestro, così che sotto alla Seconda comparvero una Terza Officina e un Terzo Maestro, dodici-officinee così via fino a Sette Officine, per ognuna delle quali fu designato un Maestro. Poi a ciascuno di quegli apprendisti che si trovavano nelle Dodici Case, diede una veste d’onore. Quindi ne diede una anche al Primo Maestro, a cui affidò due delle Dodici Officine superiori; anche al Secondo Maestro diede una veste d’onore affidandogli altre due Officine superiori. Così fece anche col Terzo. Al Quarto Maestro diede poi per veste d’onore un abito più bello di tutti gli altri, e gli affidò una delle Officine Superiori, ma gli ordinò di sorvegliarle tutt’e Dodici. Al Quinto e al Sesto diede lo stesso che aveva dato al Primo, al Secondo e al Terzo. Quando fu la volta del Settimo, delle Dodici Officine non ne era rimasta che una, e l’affidò a lui, senza dargli però nessuna veste d’onore. Allora il Settimo Maestro gridò: “Ogni Maestro ha sotto di sé due Officine e io ne ho una sola, tutti hanno una veste d’onore e io non ce l’ho!”. Allora il Re ordinò che si costruissero sotto la sua Officina altre due Officine e che ne fosse posta la direzione nelle sue mani. Sotto tutte le Officine pose, per base, un campo da seminare, la cui cura fu affidata al Settimo Maestro, e fu deciso che, della splendida tela dell’abito del Quarto Maestro, sempre se ne traesse una veste usata per il Settimo, e che così in ogni momento il Quarto ne avesse sempre una nuova, secondo quel rinnovamento di cui già ti dicemmo a proposito della Sîmorgh».

Chiesi: «O Vegliardo, che cosa si tesse in queste Officine?».
Rispose: «Perlopiù si tesse broccato e ogni sorta di cose che non sono ancora venute in mente a nessuno. È qui che si tesse la Corazza di David».
«Che cos’è?, o Saggio, questa corazza di David», chiesi.
Rispose: «In ciascuna delle tre Officine, delle Dodici più alte, costruiscono un anello e, in tutto, nelle Dodici Officine fanno quattro anelli incompleti, che poi vengono presentati al anelli-catenaSettimo Maestro perché li lavori. Quando arrivano in mano al Settimo Maestro, vengono da lui inviati nel Campo Coltivato e per molto tempo rimangono incompleti. Poi i quattro anelli vengono inseriti in un anello e vengono infilati tutti l’uno nell’altro. Poi fanno prigioniero un Falco come te e quella Corazza gli viene messa al collo, e là gliela si stringe una volta per tutte».

Chiesi al Vecchio: «Ogni corazza quanti anelli ha?».
Rispose: «Si potrebbero contare solo se si potesse dire quante gocce ha il mare di Oman».
Chiesi: «Ma in che modo ci si può liberare di questa Corazza?».
«Con la Spada indiana», rispose.
«E dove si trova codesta Spada?», insistei.
«Nella nostra contrada c’è un carnefice e quella Spada è nelle sue mani, ed è stabilito che alla Corazza che abbia durato un certo tempo, quando il tempo è compiuto, quel Carnefice dia un colpo tale con la Spada indiana che tutti i suoi anelli si spezzano».

Chiesi: «Per chi indossa la Corazza, c’è differenza nel ricevere il colpo?».
Rispose: «Sì che c’è differenza. Ad alcuni infatti lo choc è tale che, se pure hanno campato cent’anni e hanno passato tutta la vita a meditare su quale sia il dolore più terribile, qualunque dolore abbiano immaginato, mai sono arrivati a concepire la violenza del colpo inferto da questa Spada. Ad altri invece il colpo è più sopportabile».
«Che devo fare, o Saggio – gli chiesi – perché quel dolore mi sia leggero?».
Rispose: «Raggiungi la Fonte di Vita e da quella Fonte versati acqua sul capo, finché la Corazza non diventi un semplice vestito che leggero svolazza attorno alla tua persona. Allora soltanto sarai invulnerabile al colpo inferto dalla Spada. Quell’acqua, infatti, ammorbidisce la Corazza, e quando la Corazza s’è ammorbidita, lo choc della Spada non fa più soffrire».

Chiesi: «O Vecchio, dimmi allora: dov’è la Fonte della Vita?».
Rispose: «Nelle Tenebre. Se vuoi metterti in cerca di questa Fonte, non hai che da calzare surreal-paese-tenebrei sandali del profeta Khezr, e imboccare la via dell’abbandono fiducioso finché non giungerai al Paese delle Tenebre».
Domandai: «Da dove passa la strada?».
Rispose: «Da qualsiasi parte tu vada, se davvero sei un Viandante, troverai la via».

Chiesi: «E da quale segno si riconosce il Paese delle Tenebre?».
Rispose: «Dall’oscurità di cui si prende coscienza. Tu stesso sei nelle Tenebre, ma non ne hai coscienza. Colui che percorre questa via, è allorché vede se stesso avvolto dalle tenebre, è solo allora che capisce d’essere vissuto sempre immerso nella Notte, e che mai la luce del Giorno è ancora giunta al suo sguardo. È dunque questo il primo passo dei viandanti, e da qui soltanto è possibile avanzare ancora. Chi cerca la Fonte della Vita nelle Tenebre dovrà passare per ogni sorta di stupori e di angosce: ma se è degno di trovarla, alla fine, dopo le Tenebre, vedrà la Luce. È necessario però che egli non fugga dinanzi a quella Luce, perché è una Luce che si riversa dal cielo sopra la Fonte di Vita. Se sarà giunto alla fine del viaggio, e si laverà in quella Fonte, diverrà invulnerabile al colpo della Spada indiana. È così che recitano questi versi (di Sanâ’î):

Lasciati uccidere dalla Spada d’Amore
per trovare la Vita Eterna,
perché alla Spada dell’angelo della morte
non una sola traccia di vita sopravvive.

Chiunque si lavi in quella Fonte non sarà più contaminato. Chiunque abbia trovato il senso della Realtà, è giunto a quella Fonte. E quando sarà uscito da quella Fonte otterrà l’attitudine che lo rende simile all’olio di balsamo: se tieni il palmo della mano al sole e vi fai gocciolare sopra un po’ di quell’olio, esso penetra fino al dorso della mano. Se sei Khezr, potrai anche tu facilmente oltrepassare la Montagna di Qâf».

… Quando ebbi narrato questa lunga storia al mio caro amico, egli si mise a gridare: «Ho capito che tipo sei. Sei un falco che è caduto nella rete, e che adesso va a caccia di selvaggina; eccomi, legami alla tua sella, che non son preda cattiva!».

Io sono quel Falco di cui i cacciatori del mondo
in ogni momento hanno bisogno.
Preda mia sono le gazzelle dagli occhi neri,
ché la Sapienza somiglia alle lacrime che stillano da quegli occhi.
Dinanzi a me, è in fuga il senso letterale delle parole,
al mio seguito si apprende a raccoglierne il senso nascosto.

(Sohrawardî, ‘Aql-e sorkh)