
L’ipotesi, pertanto, sarebbe questa: che una grammatica è possibile solo a partire da una ripetizione dell’«identico nella differenza», solo cioè a partire da una ridondanza in cui un elemento morfologico, un tag, un sintagma o tutta una catena narrativa, tutto un mito o racconto, ne «richiami» un altro che (si tratti d’un «segmento», d’una «sequenza» più o meno breve, o anche di tutta una trama) gli «si opponga», ovvero che confermandolo lo trasformi, che con esso in qualche modo sia in «contrasto», che ne «dissenta» o che addirittura ne «inverta» la posizione o la funzione «semantica».
Lo «stesso» deve dunque sì ripetersi ma nella differenza – ritornare ma in modo tale che la differenza lo renda finalmente «significativo».
Idem et diversum, si diceva una volta.
Va da sé che lo stesso che ripetesse identicamente sempre se stesso e che replicasse sempre la stessa funzione semantica, o che stesse sempre lì al solito posto nel Racconto, sarebbe per ciò stesso insignificante, indiscernibile nella sua «monotonia».
Quello «stesso» (il concetto) dovrebbe essere, a detta dei nostri «grammatici», il Significato Vero Autentico e Sovrano, l’Originario, il Sottostante, di cui tutti i singoli casi di applicazione sarebbero solo varianti sovrascritte. E invece, il loro Maestro, chi è più maestro di logica di Hegel?, dice tutt’altro. Dice che il concetto è il tempo della cosa. Dice che è il Tempo a «dettare» il senso della «cosa concepita». Dice che il Tempo «conta» (la sua propria gestazione) sulle dita delle nostre mani, e che qui sta l’Inganno!
A buon intenditor … (a chi è bravo cioè a ingannare) poche parole bastano, per farsi almeno una mezza idea di tutta la Grammatica Umana.
In quanto alla testé detta grammatica, ora ce l’abbiamo sotto gli occhi un esercizio con cui collaudarla.
L’esercizio ci chiede questo: di dare un senso al «mignolo luminoso» della Sorella dei sette fratelli Ayerg, a partire dal suo contrasto col gemello, diciamo così, «tenebroso» che compare nei riti di iniziazione e nelle favole del «dito amputato».
Solo a questa condizione – sempreché l’ipotesi è corretta – il mito della Sposa di Sasreqoa dovrebbe cominciare a divenire per noi significativo. Solo se lo proviamo a «leggere» sullo sfondo «sadico» dei riti di iniziazione (come ci suggerisce Propp), esso può far brillare un po’ della sua (nascosta) «luce di grazia».
D’altronde, di che altro stiamo parlando, quando parliamo di grammatica, se non del nostro «sadismo», e dei due opposti «modi», dei due distinti «umori» con cui lo possiamo scrivere sull’Altro, o viceversa dall’Altro vedercelo scritto addosso?
In grammatica sono detti: forma attiva e passiva …
Però intanto, mamma mia, quanta (gratuita?) crudeltà è omessa in questo agire e patire della forma! Mutilazioni, castrazioni, squartamenti, amputazioni: è tutto un armeggiare di ferri, piuttosto, sul corpo del neofita – maschio e femmina (a turno: sole e luna, cielo e terra, circoncisione a lui ed escissione a lei)!
Di «stesso» qui non c’è che la crudeltà del Carnefice: di «differente» non c’è che il «genere» dei nostri «genitali», così come Natura ce li ha fatti. Il sadico, il Carnefice, a nome della «cultura», è incaricato di «socializzarli», il che di fatto vuol dire differenziarli ancora di più, accentuare, marcare e tatuare la loro differenza di genere: in altre parole, mascolinizzare i maschi e femminilizzare le femmine, in modo da rendere significativo solo il loro «contrasto», sensato solo ciò che dal loro «conflitto» emerge fino a divenire segno o parola di gruppo.
È sottinteso (ma proprio qui sta il peggior sadismo) che tutte le sfumature, tutte le ambiguità, tutte le tonalità intermedie – sono esse a essere «castrate», taciute e costrette a vergognarsi di sé. Costrette a rimanere «anonime». Perché, se parlano, arrivano addirittura a chiedere d’essere «punite» in nome di una Morale!
Si dà il caso che la vita non sia un’escogitazione della morale: essa vuole l’inganno, vive dell’inganno
(Nietzsche, Umano troppo umano)
La crudeltà del Carnefice non ha una morale, è inutile volercela «leggere» a ogni costo: è solo il modo di marchiarci della prima lettera di fuoco dell’alfabeto con cui una Tribù s’inganna a proposito del suo concetto di Uomo.
Perciò, quando entra in scena, il Carnefice ha solo da fare il suo mestiere, che è quello di «ingannare» i neofiti. Ed ecco, con l’accetta in mano, ai maschietti dice: su, chi di voi vuol essere più maschio, più eroe, più coraggioso? Su, si faccia avanti!
Così il Carnefice li sfida (ad affrontare la Morte).
E lo Scemo che fa? … si fa tagliare tutt’e due le mani. Ha preso alla lettera le parole del Carnefice. Il quale, rivolto alle bambine, intanto dice: suvvia, belle mie, venite a truccarvi! quando uscirete di qui, sarete voi a moltiplicare i desideri dei maschi più «eroici»! Su, cominciamo dalla più bella! Vieni avanti, Psiche! Ho comprato apposta per te questa spada di Damocle!
Ora però, c’è che l’Altro, il Carnefice, il Demiurgo quando il Demiurgo non è stato ancora platonicamente alleggerito della sua antica «mostruosità», insomma l'(Es) Ingannatore, il Bugiardo «divino», la Bestia più Falsa venuta al mondo, c’è che non ci può iniziare (indifferentemente maschi e femmine) che alla Parola che inganna.
Alla Parola che reciprocamente inganni i nostri «generi», riducendoli a dover concettualizzare solo i loro «genitali».
Ebbene, poiché da Lui gli iniziati sono tutti iniziati a «ingannare», e a moraleggiare solo dopo che si sono piegati all’Inganno, a volte succede che qualcuno di loro, casomai un furbetto della razza di Ulisse di Coyote o di Volpe Pallida, riesce a «ingannare» finanche il suo Carnefice. Sicché, invece di dare a Lui in olocausto tutto se stesso, in pegno gli dà solo un «pezzo» di sé, appena un dito, un dito mignolo (ma che goccioli di quell’autentico «sangue di san Gennaro» che a tempo debito saprà «sciogliersi» in un miracolo).
Il miracolo, l’attesa del miracolo, è tutto ciò che l’Eroe iniziato ha da opporre allo spietato Galateo sociale.
Al dito che gli è stato portato via, al «pezzo» che gli è stato sacrificato, e al sadismo gratuito con cui il suo corpo è stato «battezzato» (ora puoi capire a cosa Giovanni diceva basta! – quando introdusse il battesimo d’acqua), egli può dare senso solo opponendogli una grazia, altrettanto incredibilmente gratuita, illogica e imprevedibile.
La grazia di un dono, sia pure soltanto immaginario, grazie a cui lo «stesso» mignolo ora tagliato, amputato e sacrificato, lo «stesso» venuto a mancare alla sua mano nell’iniziazione alla scrittura di un alfabeto, rientri nel gioco delle compensazioni nella forma di un mignolo luminoso, di un meraviglioso dito «di luce», di un ditino prodigioso, che aggiungendosi alla mano di un Eroe degno, come Sasreqoa, di portare questo nome, ne accresca ancor di più la potenza. Che renda cioè l’Eroe sempre più vicino a sfidare la Morte.
Capisci? non verremmo mai a capo delle Mani Bianche di Isotta, se queste sue «mani» altrove non venissero amputate – e viceversa, nulla capiremmo della mitologia di un Muzio Scevola, se da qualche parte non persistesse il mito della Divina a cui ogni Eroe degno di questo nome immola la sua destra «assassina», il mito di Colei che lo risarcisce della mutilazione. Di Colei che nientemeno lo «rafforza» proprio là dove è stato «mutilato» o «castrato».
E non capiremmo un accidenti neanche del «dito di sapienza» che l’Eroe, è il caso per esempio di Finn, basta che l’intinga in una certa «pentola», che ecco: acquisisce la scienza del salmone, e come il salmone apprende a risalire a ritroso nel tempo la corrente del suo concetto di Uomo.
Nientemeno era Lei che stava sognando Me, e io non lo sapevo! – pensò Sasreqoa allorché, sfiorando i capelli della Bella Addormentata, la svegliò dai suoi cent’anni di solitudine.
Lei mi ha sempre sognato, e io invece credevo di non poter contare più sul più piccolo dei miei sogni! Lei per cent’anni ha sognato che io venissi a svegliarla! Che fossi io, proprio io, solo io, a poterla svegliare!
Che superbo inganno è mai questo?
La mia vita è da sempre nelle sue mani, e io non lo sapevo!?
Non sapevo d’essermi aggrappato a Lei, per resistere alla crudeltà del mio Carnefice. E che giocavo a fare l’Eroe, solo per dare un senso al suo sadismo.
Ahimé, sono condannato a parlare a vanvera, se Lei non mi illumina la via.