Il Fronte del Tempo

Van Gogh-Notte-stellata

Dicono che la chiave del nostro «portafortuna», un dio la gettò una volta tra le stelle, ma dicono – o almeno così dicevano i buoni maestri di una volta – che né la Chiave né la Fortuna è una stella!

La «cosa» si ripete: Soslan va a caccia una volta perché ha sentito dire di una Cerva Meravigliosa e vuole catturarla, e va a caccia un’altra volta, solo che stavolta è in cerca di qualunque selvaggina, ma ecco: un’altra Cerva, una cerva che Soslan stavolta non cacciava, una preda che al contrario era essa in cerca del suo predatore, gli si fa incontro per sedurlo.
Il «concetto» (di Cerva) è il tempo della Caccia a dettarlo – disse Hegel, quella volta che al bar con gli amici si lasciò andare a un bicchierino di troppo.

Il Santo, sia Egli benedetto, è il dove del mondo, ma il mondo è il suo non-dove.

Così si legge in Sefer Bahir, 11a: tra le righe del Paradosso che accosta il Santo al Mondo, ecco dov’è nascosta la chiave. Perché la chiave del Racconto non è né santa né mondana, né aperta né chiusa, né libera né prigioniera, ma paradossalmente è essa che fa insieme l’identità e la differenza tra i due.
La chiave è, come dice il Dottore, il miracoloso avvistamento di un identico là dove tutto è differente. L’apparizione di uno Stesso, il Santo, sia Egli detto una buona volta per bene, surreal-lucchettonel mondo delle differenze. Il miraggio di una rondine che ritorna a non so quale nido precedente.

La primavera di ogni significazione sorge nel Reame delle ripetizioni immaginali, e forse dalla loro tendenza innata a «nidificare».
In questo Reame supponiamo che vi siano delle «sequenze» (e … e … e …) più o meno brevi e frammentarie. E supponiamo che queste «sequenze» restino insignificanti, come i piccoli cammelli che si aggirano nell’accampamento immaginario del Poeta Andaluso, fino al giorno in cui non compare il Pavone.
Il Pavone rende «significante» una «cosa» che già «era nel mondo», solo che prima della sua comparsa era il mondo ancora a «non essere» questo mondo fatto di segni. Non era ancora un Accampamento.

Il Pavone è il Primo Segno, la Cerva il Primo Simbolo, Bellezza la Prima Musa a guidarci in questo nuovo «ordine dell’essere» che è l’Accampamento umano della Significazione.
Il Primo Simbolo è, degli Insignificanti immaginali, il Segno ( … e … ) che Ritorna in un’altra «sequenza», la Cerva che torna a giocare al gioco della seduzione con Soslan, la Isotta che si raddoppia, che si riflette e si riguarda nei nuovi come negli antichi desideri nuziali di Tristano: è Differente, eppure qualcosa a Tristano «dice» che è la Stessa.
Non sarà che Tristano, come Soslan, è vittima solo di una confusione? che di Stesso non c’è che lo Specchio di uno stesso «concepire e partorire», di uno Stesso «macchinare» desideri, predazioni e significazioni?

Il Santo, sia Egli detto, almeno qui, col suo nome latino: il Santo è il Sancito, il Primo Nome Simbolico, il dove del mondo – perciò non c’è gesto più sciocco di quello di chi va a cercarlo nel mondo dei Nomi e dei Segni.

Dalì-elefanti
Salvador Dalì – Elefanti

Forse qualcuno qui avrà bisogno di un esempio.
Troppo fumo, troppe astrazioni – apriamo una finestra!

Prendiamo un racconto qualsiasi, un mito, una leggenda, ma se vuoi anche una barzelletta. E facciamo l’esempio più facile – l’esempio che non ci capisco niente. Che vuol dire? Quel racconto, quella sequenza, quella «catena sintagmatica» (come la chiamano gli strutturalisti) non mi «dice» niente, non ci «leggo» nessun segno, la trovo insignificante.
Oppure posso percepirvi un senso, ma in questo caso come faccio a sapere se non sto prendendo lucciole per lanterne?

Che fare?
Non ho altra scelta: posso fare a pezzi il racconto, il mito, quale che sia insomma la sequenza, posso dividerne la trama in tanti «segmenti», ciascuno dei quali potrebbe essere una delle tante possibili «variazioni» sceniche, uno dei tanti sentieri narrativi che la trama potrebbe a un certo «incrocio di vie» imboccare.
Oppure posso sovrapporre la trama considerata nella sua totalità, cioè l’intero racconto, tutto il mito, la storia dal principio alla fine, ad altri racconti, ad altre sequenze, o anche surreal-luna-cittàsoltanto a dei loro «spezzoni», «situazioni» o, come detto, «segmenti».
(So che qui Kant preferirebbe, per ragioni di estetica trascendentale, parlare di «modi», non solo e non tanto «musicali», quanto più semplicemente «umorali»: Kant parlerebbe di «variazioni percettive», non di «segmenti narrativi» poiché questi implicano già l’uso di segni).

Insomma, è possibile rintracciare in un mito un altro mito, in un dire un altro voler dire, o solo frammenti di esso. Ma è possibile anche che frammenti di un certo dire o voler dire siano rintracciabili altrove come miti interi.
E può essere che vi siano detti più o meno esplicitamente, ma soprattutto può essere che vi siano tacitamente «interdetti».
Non per caso la chiave, come recita il Cabalista, è tra le righe del Racconto – la chiave è tra due – sempre. Tra quello che senti adesso e quello che hai già sentito dire al Racconto. Tra il Santo e il Mondo.

Due catene sintagmatiche (due miti) o frammenti di una stessa catena (di una stessa sequenza) che, presi isolatamente, non offrivano nessun senso, o nessun senso certo, ne acquisiscono uno solo per il fatto di opporsi.
Solo per il fatto che si «richiamano» l’un l’altro.
Solo se le loro «differenze» (perché saranno sempre almeno in qualcosa differenti) si «fronteggiano».
Il «fronte», non c’è bisogno di continuare a ubriacare Hegel, perché questo Hegel l’ha detto in piena lucidità: il Fronte sorge col tempo.

E poiché la significazione emerge a partire dal momento in cui è stata costituita la coppia [Demetra – Core ::: Matrice – Figlia], ciò vuol dire che essa non esisteva anteriormente, dissimulata ma presente alla maniera di un residuo inerte, in ogni mito o frammento di mito considerato isolatamente. La significazione è per intero nel rapporto dinamico che fonda simultaneamente vari miti o parti di uno stesso mito, e per effetto del quale questi miti, e queste parti, sono promossi all’esistenza razionale e giungono insieme a compimento come le coppie opponibili di uno stesso gruppo di trasformazioni.
(Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto)

La Cerva «torna»: è sempre (detta) Cerva, anche se quando «riappare» non è per essere «cacciata», ma in funzione lei di Cacciatrice.
Eccola la differenza nell’Uguale Cerva, eccola l’opposizione in cui le due «avventure surreal-chiavenuziali» di Soslan si fronteggiano, e ci diventano così – o cominciano a diventarci – significative.
Esse si richiamano, si sovrappongono, si sovrascrivono e si anagrammano secondo la ben nota formula: Eros è Thanatos. O se preferisci: Arianna è il Minotauro. Perché l’una ha bisogno dell’altro per «significare» qualcosa.

Arianna non ci significa niente finché non ci giunge all’orecchio il muggito del Minotauro. E lo stesso Minotauro non ci fa paura, non ci significa niente, nessun Mostro, nessun Drago significa niente, finché in scena non appare il Miraggio della Figlia del Re che dovrebbe sfamarlo.
Dicono che la chiave della Significazione, un dio ce la nascose una volta tra le stelle, ma dicono – o almeno così dicevano i buoni maestri di una volta – che né la Chiave né la Fortuna è una stella!
Dicono – gli antichi come i più recenti maestri – che è il Tempo a stringerla in un oscuro nodo del suo fazzoletto.
Non sarà perciò un concetto a scioglierlo, non sarà né un’immagine né un simbolo, e non sarà tanto meno un segno – neanche il Segno dei Segni, perché pur esso avrà bisogno di un segno «opposto» per significare qualcosa.