Platone – Amore è poesia e parto

«Socrate – mi domandò Diotima – come mai, se tutti e sempre non fanno altro che desiderare le stesse cose, non di tutti diciamo che amano, ma di alcuni diciamo che amano e di altri no?».
«Me ne stupisco anch’io».
«Suvvia, non ti stupire! – disse lei. – Avendo prediletto una particolare forma di amore, e Diotima2attribuendole il nome del tutto, chiamiamo solo quella amore, e chiamiamo gli altri desideri con altri nomi».
«Per esempio?», chiesi io.

«Per esempio, proprio il nostro caso. Tu sai che poesia (ποίησις) si dice di molte cose: ogni atto per cui qualcosa passa dal non essere all’essere, è poetico – di modo che i prodotti di qualunque arte sono poesie, e i loro autori sono tutti poeti».
«Dici il vero».
«E tuttavia – aggiunse – sai pure che non tutti si chiamano poeti, ma hanno nomi diversi, e che di tutta la poesia solo una parte, isolata dalle altre, e accompagnata soltanto dalla musica e dalla metrica, è chiamata col nome del tutto. Solo questa parte è detta poesia, e coloro che possiedono questo particolare talento poetico son detti poeti».
«È come dici tu», dissi io.

«Lo stesso vale anche per l’amore. In generale, ogni desiderio di cose buone e di felicità è il più grande e ingannevole amore: ma di quelli che lo cercano per una delle molteplici altre trafile, come attraverso gli affari o la ginnastica o la filosofia, non si dice né che amano né che sono amati, mentre coloro che vanno appresso a una sola forma e se ne appassionano, ebbene, essi soli prendono il nome dell’intero, e solo a proposito di essi si parla di amore, di amare e di amanti».
«Mi pare proprio che stai dicendo la verità», dissi io.

«E c’è chi dice – soggiunse lei – che coloro che sono in cerca dell’altra metà di loro stessi, questi sì che amano; io invece dico che l’amore non è amore né di una metà né dell’intero, a meno che per qualche caso fortuito, caro amico, non sia effettivamente un bene, dal momento che [per amore] gli uomini sono disposti a farsi tagliare i piedi e le mani, se accusano nel loro proprio [corpo] una sofferenza. Infatti, non di ciò che gli è proprio io credo che ciascuno si innamori, a meno che per bene uno non intenda il proprio e ciò che è suo, e per male l’altrui. Di nient’altro gli uomini s’innamorano che del bene [e dunque sempre dell’Altro, non – come detto – di una metà o peggio di tutto Se Stessi]. O credi il contrario?».
«No, per quanto mi riguarda», dissi io.

Diotima-Socrate

«E dunque – mi chiese lei – possiamo semplicemente dire che gli uomini amano il bene?».
Assentii.
«E come? non si deve aggiungere – m’incalzò – che essi amano possederlo, questo bene?».
«Sì, va aggiunto».
«E anche – disse allora – che l’amore è desiderio non solo di possederlo, ma di possederlo per sempre, quel bene?».
«Sì – risposi io. – Va aggiunto anche questo».
«Si può dunque concludere che amore è desiderio di possedere per sempre il bene [amato]?»
«Dici cose verissime», dissi io.

«Se l’amore è in tutti i casi sempre questo zelo e questa tensione di quanti lo perseguono, in che modo e in quale ambito particolare lo chiameremo amore? E in che cosa consiste questo campo suo proprio? Lo sai dire?».
«Non sarei – dissi io – così ammirato della tua sapienza, o Diotima, e non verrei a farti visita, per apprenderle da te tutte queste cose [se già le sapessi]».
«Allora te lo dirò io – disse. – Questo campo consiste nel partorire in bellezza nel corpo e nell’anima».
«Ci vorrebbe un indovino – dissi io – per interpretare quel che dici. Non capisco».

(Platone, Simposio, 205b-206b)

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Vorsin-Eros
Dimitry Vorsin – Eros

In Platone il desiderio erotico, in quanto forma particolare di divina follia, di possessione da parte di una Potenza soprannaturale, di iniziazione ai Misteri, gravita intorno al tema dello specchio.
Ciò che caratterizza in effetti l’esperienza erotica è il privilegio della vista, il fatto che essa riposi interamente sullo scambio visivo, sulla comunicazione tra occhio e occhio. Tale esperienza implica, nell’incrocio degli sguardi, un faccia a faccia con l’amato, comparabile alla rivelazione del dio quando, al termine dei Misteri, nell’epoptea, manifesta la propria presenza rendendosi visibile direttamente agli occhi degli iniziati.

Il flusso erotico che circola dall’amante all’amato segue all’andata e al ritorno il percorso incrociato degli sguardi: i due compagni funzionano l’uno rispetto all’altro come uno specchio nel quale ciò che essi scorgono e inseguono con il proprio desiderio è il riflesso volti-occhiraddoppiato di se stessi.
«Nel proprio amante – si legge nel Fedro (255d) – come in uno specchio è se stesso che egli ama […] avendo in tal modo un contro-amore che è una immagine riflessa d’amore (εἴδωλον ἔρωτος ἀντέρωτα ἔχων)».

Bisognerebbe dunque dedurne che Platone fa sua la tesi sostenuta da Alcibiade nel Simposio? Secondo il mito raccontato con brio dal poeta comico, il desiderio d’amore traduce lo stato di incompletezza nel quale ci troviamo dopo essere stati tagliati in due, per ordine di Zeus. Eros è allora la nostalgia dell’unità perduta. Ciascuno cerca quest’altro se stesso, quella simmetrica metà, quel doppio esatto di sé che, incollato di nuovo a quella mezza parte che si è divenuti, potrebbe restituirci la completezza, quella totalità piena conosciuta all’origine, come se lo spettatore dinanzi allo specchio riuscisse finalmente a coincidere con esso.

Al contrario, la posizione di Platone, esposta da Diotima al Socrate del Simposio, si oppone punto per punto a quella di cui Aristofane si fa interprete.
Dire che amore è una follia divina, un’iniziazione, uno stato di possessione, significa riconoscere che, allo specchio dell’amato, quello che appare non è il nostro viso di uomo, ma il volto del dio da cui siamo abitati, di cui portiamo la maschera e che, trasfigurando al tempo stesso il nostro volto e quello del partner, li illumina entrambi di uno splendore venuto da altrove, da un altro mondo.

Sul volto dell’amato in cui vedo me stesso, ciò che scorgo, ciò che mi affascina e mi trasporta è l’immagine della Bellezza.
Nel gioco di specchi al quale presiede, Eros non opera in posizione orizzontale come immaginava Aristofane; non unisce, rasoterra, due individui mutilati per rincollarne, ombelico contro ombelico, i frammenti sparsi.
Egli punta verso l’alto, in direzione del cielo; raddrizza l’amante e l’amato in posizione verticale, nella direzione di ciò che costituisce per entrambi, al sommo del cranio, là dove le ossa e la pelle si suturano, il solo autentico ombelico, e li riallaccia non l’uno all’altro, ma alla loro patria comune, a quel luogo originario dal quale sono stati tolti, alla maniera di una «pianta celeste» strappata alla sua matrice per essere gettata quaggiù.

Chagall-amanti-tetto
Chagall – Amanti sul tetto

Il punto di vista di Aristofane potrebbe essere riassunto dicendo che, per lui, decifrare Eros significa porre: ½ + ½ = 1.
Dato che ogni uomo è soltanto la metà di un essere, se gli accade d’incontrare l’altra metà, allora può dirsi pienamente appagato; non gli resta più nulla da desiderare: divenuto un intero perfetto, egli può competere, nella sua felicità, con la beatitudine degli dèi.
Così l’amore è tanto migliore quanto più arriva a riunire due metà perfettamente analoghe, completamente simili, simmetriche l’una rispetto all’altra quanto può esserlo il riflesso che raddoppia un personaggio sulla superficie di uno specchio.

L’autoerotismo soggiacente al tema dello specchio nel racconto mitico di Aristofane si compie nell’omosessualità.
L’amore più bello è quello che così si enuncia: la metà di un maschio più l’altra metà di un maschio fanno un uomo interamente se stesso nella sua virilità.
Il punto di vista di Platone si esprime, al contrario, in una formula tipo: 1 + 1 = 3, valida ai due livelli in cui opera Eros.

Sul piano della vita fisica, l’amore consiste, per due esseri, nel generarne un terzo, diverso e tuttavia parte di ciascuno di essi. L’erotismo mira a produrre per il corpo, nell’ambito stesso di questa esistenza terrestre, passeggera e peritura, un sostituto d’immortalità.
Così, il più bell’amore o, piuttosto, il solo amore giustificato per il corpo è quello che unisce un uomo e una donna «per generare nella bellezza». L’eros omosessuale, squalificato dal punto di vista della carne poiché manca dello slancio verso l’immortalità dal quale dovrebbe essere traversato, trova la sua giustificazione soltanto trasposto, spostato sul piano spirituale, dove recupera la sua finalità, cioè la sua trascendenza.

Tra uomo e uomo, Eros cerca di generare nell’anima altrui bei discorsi e belle virtù: tutti valori, questi, che sfuggono all’ordine della mortalità.
Questo eros maschile prende a prestito la maschera di Socrate: Sileno dal volto bestiale, dal naso camuso, partoriente, come sua madre, di ciò che ciascuno porta in sé, ma che può essere portato a termine soltanto in quella corrente di scambio, in quel faccia a faccia con l’altro, in quella reciprocità del flusso amoroso che, come nel corso dell’iniziazione, strappa dal mondo sensibile, dal divenire, e trasporta altrove restituendo la vostra vera persona simile al divino, in e attraverso lo scambio con l’altro.
Grazie allo slancio che con tutta l’anima lo trascina verso i bei giovani, Socrate, figura di Eros, si fa specchio (per loro), uno specchio in cui, guardandosi, gli amati si vedono con gli occhi di colui che li ama, raggiante di un’altra luce, una luce lontana, quella della Vera Bellezza.

(Vernant, Figure, idoli, maschere)