L’avevamo detto. Se l’ascolti, se gli presti la tua immaginazione, il Racconto stesso, vedrai, ti ricondurrà per le sue vie traverse, di nuovo, alla Porta per cui entrasti nel labirinto «simbolico». Prima o poi ti metterà di fronte alla curiosità di sapere quando dove e come mai il nostro «simbolismo» si staccò, o come si dice: si emancipò, dalla Madrelingua di Natura. Perché ognuno di noi è entrato per quella «strettoia».
E allora sta’ a sentire. Se don Chisciotte ha dato ascolto alla leggenda dei Paladini, e se questa è stata la prima «mossa» della sua follia – immaginarsi lui stesso Paladino, non si capisce di quale Reame – non sarà murandogli la Porta della biblioteca che il Curato e il Barbiere verranno a capo della sua cocciuta mitologia.
Perché proprio questo è il punto: è il Racconto a infettarci delle sue enfasi leggendarie? eravamo puri e innocenti, e poi è venuto il Racconto a mandarci fuori di testa, costringendoci ad arrancare per stare al passo delle sue figure retoriche? o è il nucleo mitologico, l’auto-idolatria narcisistica che ciascuno nutre di sé fin da quando balbetta, a diffondere il suo μύ come la peste nel Racconto?
Questione aperta: di chi è la paranoia? chi è che vi si annida? È Lilith nel «legno» di Inanna? è un diavolo che seduce la Ruota di Balsæg a spergiurare la parola data a Soslan? dobbiamo dunque chiamare in fretta l’Esorcista, o più modestamente si tratta, per puro caso, di un Umore, per dirla alla Talete, antico quanto l’Antenato dell’Umanità? Solo di un’«acqua» che diviene troppo pesante, per rimanere Vapore lassù, sopra le nuvole, e perciò ci piove addosso?
Ti ricordi di Yurugu, la «Volpe Pallida», il fratello turbolento, imperfetto e sciagurato del «Dio d’acqua» dogon? il «maledetto», o forse il «maldicente» che ancora «parla» la sua «arida lingua» dal fondo (inconscio) delle nostre dicerie, te lo ricordi?
Era il figlio «dispari» di Madre Terra, l’incestuoso Sciacallo che tentò di penetrare nel Termitaio Materno (toh, chi si rivede? la Casa delle termiti!), che cercò di avventurarsi nella Vagina di Nonna dell’Universo (guarda un po’: Maui alle prese con la Morte! ah, se gli uccelli non fossero scappati a ridere!).
È Lui, per i Dogon, in principio il Perverso, l’Infame … insomma, la monnezza della monnezza della monnezza dell’essere «divino», lo Scarto … ma sì, la Pietra d’angolo del Racconto Umano, la più bassa delle bassezze «celesti», e di tutti i linguaggi l’infima «latitudine» linguistica, quella Nuvola che non sa trattenere le sue «acque» lassù, quell’Umore che non si contiene in se stesso, che sta e sta e poi si getta, a sua insaputa, all’insaputa della sua deiezione, si getta giù a fecondare il nostro mondo, a darci questa nostra vita.
Così raccontano i Dogon, a proposito dell’Antenato.
Raccontano che questa nostra vita sarà sempre assetata, sempre minacciata dalla «secchezza» e dall’«aridità», e che perciò avrà sempre bisogno che la Nuvola piova. E con essa altra Immaginazione discenda dal cielo a vivificare la nostra Parola, a sanarla dalle sue «aridità», a trarla via dai suoi «deserti».
Dicevano, a modo loro, che la nostra umanità, per rifarsi, per riprodursi, avrà sempre bisogno di un don Chisciotte che, cadendo dalle nuvole, s’azzardi a parlare la «maldicenza», a parlare quell’Umore Ancestrale, Oceanico, che «irriga» tutti i Campi della Parola: anche quando la nostra Parola «pensa» di parlare d’altro, anzi proprio allora più che mai essa infatti «si inganna». E ingannandosi compie la sua missione, più s’inganna e più si sente missionaria – Paladina se preferisci – di una certa «audacia menzognera» che farebbe capo, nientemeno, al Principio dei Tempi!
Eppure, è solo nell’ardore di questa «audacia», di questa «pazziella» a gettarsi nella Finzione di un Altro Mondo, è solo in questa entusiastica simulazione – dice ovunque il Racconto – che qualcuno di noi torna a «incarnare» sulla scena il Buffone, lo Stolto, l’Idiota, l’Epimeteo che ha messo al mondo questa «cosa» che chiamiamo Umanità.
Qualcuno che sia disposto a «fare la parte» dello Scemo, qualcuno che sia così scimunito da illudersi di poterci riportare per mano, a uno a uno, dinanzi alla Porta della Somma Biblioteca, sulla soglia delle Lingue di Babele. Al confine tra l’«immaginare perverso» del bruco che fummo, e questo costruire frasi e proposizioni, a cui ci siamo votati per venire a sfarfallare in un’altra lingua, alla latitudine «simbolica» della nostra Specie.
Perché questo è successo.
È successo che abbiamo lasciato le termiti e tutti gli altri animali a parlare la «lingua di natura», per avventurarci noi donchisciottescamente sulla via aperta da Yurugu.
Lo Sciacallo ci ha aperto la Via. La sua «astuzia» ha tracciato la Via alla nostra Parola: quel Tratto di strada, «Volpe Pallida», furbescamente, l’ha «staccato» dallo Spazio della Lingua Animale, ne ha fatto una «regione separata», quella stessa «area distaccata» che nel Timeo Platone chiama χῶρα. Quel pezzo di «placenta creativa», il nostro Antenato-Sciacallo l’ha scippato alla sua Madrelingua di Natura durante le incestuose nozze primordiali.
E ora, il Demiurgo platonico è chiamato a «musicarlo». È chiamato a dare una metrica a questo nuovo «spazio linguistico», a questa nuova sensibilità ai richiami di una Piega dello spazio a cui gli altri animali non si piegano.
No, gli altri animali non gli danno ascolto, perché quello «aperto» dallo Sciacallo dogon è lo Spazio «cantato e danzato» solo, separatamente (χωρίς), dalla nostra Specie.
È lo Spazio «aperto» da un (Antenato) separato, solitario, celibe, dispari nel novero di un pantheon che l’ha bandito, in principio. L’ha scartato, per poter fare di «tutto il resto» un Tempio, una Totalità.
Ma tu, ascolta il Poeta: Tuo è il puro essere, il visibilio … di tutte le nostre estasi, di tutte le nostre Figure retoriche tu, Coyote, hai gettato il germe ululando la tua astuzia. Tuo è infatti questo «spazio», le cui eccitazioni solo noi uomini captiamo e interpretiamo. Tua la parte che noi replichiamo in questa goffa commedia umana. Tu, Coyote, sei la Persona che lasciammo sul confine del nostro immaginario. Tu, il Confine – il Termine, e l’Inizio – lingua da lingua, tua la Grande Astuzia, la Furberia, l’Inganno con cui tenere a bada la Bestia, rinchiusa dentro la «mostruosità» della nostra Incontinenza «naturale».
Niente di serio, mi pare evidente: anzi, ha tutta l’aria d’essere un gioco da ragazzi. L’elegia che Borges dedica al Coyote, un qualunque poeta sudanese dei nostri giorni potrebbe, cambiando solo qualche virgola, volgerla in un madrigale alla sua Volpe Pallida, allo Sciacallo che ancora «ulula» dal fondo dei racconti della sua Gente.
Ma da laggiù, dagli strati più antichi del Racconto, nel sommovimento delle grandi faglie sommerse, non è solo l’Eroico, il Glorioso, il Mitico, che riaffiora: a volte infatti succede che viene a galla lo Scemo, e a volte è così scemo da seguire alla lettera le «istruzioni» che riceve dai libri, e cioè dalla Cultura, e non più da Madre Natura.
È solo lo Scemo però che può permettersi il lusso, al pari di don Chisciotte, di rispecchiare, pur nel suo essere inverso, le simmetrie dello spazio «celibe» dello Sciacallo africano o del Coyote nordamericano. Solo lui può andare a Casa del Diavolo, e rimanere così incosciente da non capire che quello a lui di fronte è il Diavolo.
Ce l’ha di fronte, ma lo Scemo – come Perseo – lo vede solo di traverso. Lo vede attraverso lo specchio della sua «pazzia». Proprio di questa pazziella a sfidare i mulini, a vivere letteralmente la propria immaginazione, a credere di essere ciò che immagina, il Paladino che imita al servizio del suo μύ.
Dategli solo qualcuno da imitare, e don Chisciotte lo diventerà. Se la Bestia «latra», don Chisciotte troverà i segni e le parole per addomesticarla a una chanson de geste. Dategli un ululato, un guaito, e Borges vi risentirà le voci della sua Notte – di quella Notte di nessuno di cui dice che «fu mia», egli ne farà un’elegia non più lunga e arbitraria della «separazione» linguistica che distanzia lui dal Coyote, come noialtri dal Demiurgo di Platone.
Siamo tragicamente separati dal pantheon del nostro idolatrarci immaginario. Non siamo dèi. Non siamo immortali. È questa la tragedia che ci tormenta, questa la sete che non riusciamo a dissetare, questa la pena che ci inaridisce, questa la Terra silente che ci marcisce dentro … a meno che – che dici? – un altro don Chisciotte, cadendo dalle nuvole, venga a mettere in scena una goffa caricatura del Mito che imita, e tanto più goffa, quanto più lo imita alla lettera.
È grazie alla sua scemenza, grazie cioè al modo in cui l’ardore di un’illusione scema nei suoi stessi epigoni, è solo grazie ad essa che riusciamo, per un po’, a prendere coscienza delle nostre «diavolerie» immaginarie.
Perché, se la guardi allo specchio, e non direttamente in faccia, la Medusa non ti pietrifica. Se la imiti, senza identificarti in Lei, Volpe Pallida ti diverrà meno estranea, meno diabolica, meno nemica, meno paranoica.
Se a Casa del Diavolo, ti scappa da ridere – allora sì che non può farti male.
La Porta dell’inferno è aperta, perché non passi?
Conosci un’altra via al paradiso?