Lacan – Lo sguardo e la parola

Chagall-guerra
Chagall – Guerra

Siamo in guerra. Avanzo nella pianura e suppongo di essere sotto lo sguardo che mi spia. Se lo suppongo non è tanto perché tema qualche manifestazione del mio nemico, qualche attacco, perché in quel caso la situazione si allenterebbe immediatamente e io saprei con chi ho a che fare.
Quel che m’importa di più è sapere quel che l’altro immagina, scopre delle mie intenzioni in me che avanzo, dato che mi è necessario nascondergli i miei movimenti. Si tratta di astuzia.

La dialettica dello sguardo si mantiene su questo piano. Quel che conta non è che l’altro veda dove io sono, ma che veda dove io vado, cioè più esattamente, che veda dove io non sono. In ogni analisi della relazione intersoggettiva, l’essenziale non è quello che c’è, quello che si vede. Ciò che la struttura è proprio ciò che non è lì.
La cosiddetta teoria dei giochi è una modalità di studio fondamentale di questa relazione. Per il solo fatto che è una teoria matematica, siamo già nel piano simbolico. molti-segniPer quanto semplice voi definiate il campo di una intersoggettività, la sua analisi suppone sempre un certo numero di dati numerici, come tali simbolici.

Se leggete il libro di Sartre [L’Essere e il nulla] al quale facevo allusione l’altro giorno, vedrete che egli fa apparire qualcosa d’estremamente conturbante.
Dopo aver così ben definito la relazione d’intersoggettività, sembra implicare che se in questo modo esiste una pluralità di interrelazioni immaginarie, tale pluralità non è numerabile, in quanto ciascun soggetto è per definizione l’unico centro dei riferimenti.

Ciò si regge se si rimane sul piano fenomenologico dell’analisi dell’«in sé» e del «per sé». Ma ne consegue che Sartre non s’accorge che il campo intersoggettivo non può non sboccare in una strutturazione numerica, sul tre, sul quattro, che sono i nostri punti di riferimento nell’esperienza analitica.
Questo simbolismo, per quanto primitivo sia, ci mette subito sul piano del linguaggio in quanto, in mancanza di esso, nessuna numerazione è possibile.

Ancora una piccola parentesi.
Leggevo, non più tardi di tre giorni fa, una vecchia opera dell’inizio del secolo, La storia del nuovo mondo chiamato America. Si trattava dell’origine del linguaggio, problema che ha attirato l’attenzione, anzi provocato la perplessità, di non pochi linguisti.

Ogni discussione sull’origine del linguaggio è affetta da un’irrimediabile puerilità e anche da un indubbio cretinismo. Ogni volta si cerca di far uscire il linguaggio da non so quale progresso del pensiero. È evidentemente un circolo chiuso.
Il pensiero si metterebbe a isolare nella situazione il dettaglio, a circondare la particolarità, l’elemento combinatorio. Il pensiero supererebbe da solo lo stadio del sotterfugio, che caratterizza l’intelligenza animale, per passare a quello del simbolo.
Ma come, se inizialmente non esiste il simbolo, il quale è la struttura stessa del pensiero umano?

surreal-elefante-fili

Pensare è sostituire agli elefanti la parola elefante e al sole un tondo.
Vi rendete ben conto che tra quella cosa che fenomenologicamente è il sole, centro di ciò che gira per il mondo delle apparenze, unità della luce, e un tondo vi è un abisso. E anche se lo si supera, quale progresso c’è rispetto all’intelligenza animale?
Nessuno.
Infatti il sole in quanto è designato da un tondo non vale niente. Non vale se non in quanto questo tondo è messo in relazione con altre formalizzazioni, che insieme a quella costituiscono la totalità simbolica, in cui ha il suo posto, al centro del mondo per esempio, o alla periferia, poco importa. Il simbolo vale solo se lo si organizza in un mondo di simboli.

Coloro che speculano sull’origine del linguaggio e tentano di realizzare dei compromessi tra l’apprezzamento della situazione totale e la frammentazione simbolica sono sempre stati colpiti dalle cosiddette olofrasi.
Nell’uso di certi popoli, e non dovreste aver bisogno di cercar lontano per trovarne un uso comune, esistono delle frasi, delle espressioni che non sono decomponibili e che si surreal-cieloriferiscono a una situazione presa nel suo insieme; sono le olofrasi. Si crede di cogliere a questo punto la congiunzione tra l’animale che passa senza strutturare le situazioni, e l’uomo che abita invece un mondo simbolico.

Nell’opera che citavo poco fa ho letto che gli abitanti delle Figi pronunciano in un certo numero di situazioni la frase seguente, che non è una frase del loro linguaggio e che non è riducibile a nulla: Ma mi la pa ni pa ta pa. La fonetizzazione è indicata nel testo e posso dirvela solo così.
Qual è la situazione in cui si pronuncia l’olofrase in questione?
Il nostro etnografo scrive in piena innocenza: situazione di due persone in cui ciascuna osserva l’altra, sperando ciascuna dall’altra che si offra per fare qualcosa che le due parti desiderano ma che non sono disposte a fare.

Troviamo qui definito con precisione esemplare uno stato di sguardo reciproco in cui ciascuno attende dall’altro che si decida in merito a qualcosa che bisogna fare in due, che è tra i due, ma cui nessuno vuol metter mano.
E contemporaneamente vedete bene che l’olofrase non è intermediaria tra un’assunzione primitiva della situazione come totale, che sarebbe del registro dell’azione animale, e la simbolizzazione. Essa non è non so quale primitivo invischiamento della situazione in una modalità verbale. Si tratta al contrario di qualcosa in cui quanto appartiene al registro della composizione simbolica è definito al limite, alla periferia. […]

È la parola a instaurare nella realtà la menzogna. Ed è proprio perché introduce quello che non c’è, che può produrre anche quello che c’è.
Prima della parola nulla è, né non è. Tutto è già lì indubbiamente, ma solo con la parola esistono cose che sono – che sono vere o false, cioè che sono – e delle cose che non sono. È con la dimensione della parola che la verità si scava nel reale. Non esiste né vero né falso prima della parola. Con essa si introduce la verità, e così pure la menzogna e altri registri ancora.

nuvole-draw

Poniamoli, prima di lasciarci per oggi, in una specie di triangolo a tre vertici. Là la menzogna. Qui l’equivoco e non l’errore, vi ritornerò sopra. E poi che altro? L’ambiguità a cui per sua natura la parola è votata.
Infatti l’atto stesso della parola, che fonda la dimensione della verità, resta sempre per questo fatto, dietro, al di là. La parola è essenzialmente ambigua.
Simmetricamente si scava nel reale il buco, la beanza dell’essere in quanto tale. La nozione di essere, dal momento in cui cerchiamo di coglierla, si dimostra altrettanto inafferrabile quanto la parola.
La parola introduce il vuoto dell’essere nella tessitura del reale, l’uno e l’altra si sostengono e si bilanciano, sono esattamente correlativi. […]

Possiamo fermarci un attimo a meditare sul fatto che anche il bambino ha una parola. Non è parola vuota. È tanto piena di senso quanto la parola dell’adulto. È talmente piena di senso che gli adulti passano il loro tempo a meravigliarsene. Com’è intelligente il caro piccino! Ha visto quel che ha detto l’altro giorno?
È proprio tutto qui.
Esiste in effetti quell’elemento di idolatrizzazione, che interviene nella percezione Olbinski-bestiaimmaginaria. La parola ammirevole del bambino è forse parola trascendente, rivelazione del cielo, oracolo del piccolo dio, ma è evidente che non l’impegna in nulla.

E si fanno tutti gli sforzi, quando non funziona, per strappargli delle parole che l’impegnino. Sa Dio se la dialettica dell’adulto non sbanda! Si tratta di legare il soggetto alle sue contraddizioni, fargli firmare quel che dice e impegnare così la sua parola in una dialettica.
Si tratta del valore della parola, non più questa volta in quanto crea l’ambiguità fondamentale, ma in quanto è funzione del simbolico, del patto che lega i soggetti gli uni agli altri in un’azione. L’azione umana per eccellenza è fondata originalmente sull’esistenza del mondo del simbolico, cioè sulle leggi e sui contratti. […]

Ecco dunque su quale piano viene a giocare la relazione: gioca attorno alla relazione simbolica, sia che si tratti della sua istituzione, del suo prolungamento o del suo mantenimento. E questo piano comporta delle incidenze, delle proiezioni delle articolazioni immaginarie, ma si situa interamente nella relazione simbolica.
Questo che cosa implica?

La parola ha sempre i suoi secondi piani ambigui, che arrivano fino al momento dell’ineffabile, dove non può più dirsi, fondarsi su se stessa in quanto parola. Ma questo aldilà non è quello che la psicologia cerca nel soggetto e trova in non so quale sua mimica, nei suoi crampi, nelle sue agitazioni, tutti i correlati emozionali della parola.
Il cosiddetto aldilà psicologico è infatti dall’altra parte, è un aldiquà. L’aldilà di cui si tratta è nella dimensione stessa della parola. Per essere del soggetto non intendiamo le sue proprietà psicologiche, ma ciò che si scava nell’esperienza della parola, in cui l’esperienza analitica consiste.

(Lacan, Il Seminario: 1)