Da parecchio tempo il nome di Acyrûxs «figlia del Sole» ha attirato l’attenzione dei linguisti, se non degli studiosi di folklore. È sicuramente antico e attesta la sopravvivenza di una tradizione mitica.
Il secondo termine, rûxs, significa infatti «luce», e il primo non è altro che l’elemento ac(y)-, modificazione di wac(y), che appare in un piccolo numero di parole inerenti alla religione, e innanzitutto nei nomi dei due Geni più importanti della mitologia popolare degli Osseti.
Acyrûxs (o Wacrûxs) è di conseguenza se non «la luce santa», almeno «la luce meravigliosa, soprannaturale».
Questa denominazione, applicata nell’epopea a una figlia del Sole il cui corpo risplende, probabilmente è stata all’origine l’epiteto di una figura divina dei tempi pagani, altrimenti chiamata. Ma quale figura?
A fianco dello stesso Sole, che cosa poteva rappresentare o proteggere questa donna celeste, il cui destino – sembra – non era affatto restare in cielo, ma scendere nel nostro mondo e operarvi come sposa di un uomo famoso?
Per rispondere a questo quesito, bisogna considerare più da presso il posto occupato dal Sole nel folklore non narrativo, ma operativo degli Osseti, nelle loro liturgie. Pure il Sole è impegnato nel mondo degli uomini: però, più che come illuminatore del cielo, interessa loro come prototipo, padre di tutti i fuochi, specialmente del fuoco del focolare.
Il focolare domestico degli Osseti è cosa religiosamente complessa. Uno dei suoi elementi più carichi di significato, è certo la catena appesa al di sopra del fuoco. Questa catena, ræxys, ha il proprio Spirito, il proprio protettore particolare, maschile, Safa, che compare sovente nei racconti e che Vsevolod Miller ha caratterizzato in questo modo:
«Safa è lo spirito protettore della catena del focolare. Lui ne ha fornito agli uomini il modello e continua a fabbricarne in cielo. Ancora in pieno XIX secolo, al momento di mettere a letto i bambini, i genitori li affidano a Safa accarezzando loro la testa con una mano e tenendo con l’altra la catena del focolare. Si appendevano anche al collo dei bambini amuleti che assicuravano loro la benedizione di Safa: il terzo giorno di Quaresima, si portavano alla fucina pezzi di ferro che il fabbro faceva arrossare al fuoco; raffreddati, si mettevano in un sacchetto con seta, ovatta e sterco di passero, e si attaccava il sacchetto al collo del bambino. Se si toccava la catena con le mani sporche, si rischiava di attirare una malattia della pelle su un bambino. Safa era invocato nei giuramenti, che si prestavano stringendo la catena del focolare. Durante la celebrazione del matrimonio, nel lasciare la casa del padre, l’accompagnatore d’onore faceva girare tre volte la fidanzata intorno al focolare e le faceva toccare la sua catena in segno d’addio; poi, nella casa del fidanzato, con lo stesso rito la poneva nuovamente sotto la protezione di Safa».
Safa è perciò, in senso stretto, il Genio della principale parte in metallo del focolare, e questa specializzazione spiega il suo rapporto con il fabbro, rapporto rituale ma anche mitico, dato che alcuni informatori di Vs. Miller facevano di lui anche il dio della spada e, in generale, delle armi, a rischio di contrapporlo al fabbro celeste, Kurdalægon, così importante nelle leggende.
Ma al di fuori della catena e del metallo, il focolare è anzitutto il fuoco che vi brucia e che, come ogni fuoco, appartiene alla giurisdizione del Sole.
Il nome corrente, laico, del fuoco è art (avestico âtar), mentre il suo nome cultuale – e si tratta allora del fuoco del focolare – è Ært-xuron, ovvero «Fuoco, della famiglia del Sole» o, meglio ancora, «Fuoco, figlio del Sole», il cui nome compare in una liturgia arcaica.
Come i Romani terminavano con Vesta ogni preghiera dove più dèi erano invocati in successione, come l’Avesta nomina volentieri Âtar alla fine della lista delle Entità che lo zoroastrismo ha sostituito agli dèi, analogamente avviene che gli Osseti concludessero le loro invocazioni collettive col Genio del fuoco domestico. […]

Ærtxuron, il «Fuoco», figlio o compagno del Sole, è dunque il Genio del fuoco terrestre, lo Spirito del fuoco del focolare, disceso in terra a personificare l’altro fuoco, il fuoco celeste, di suo «Padre».
In queste condizioni, è probabile che anche lei, la luminosa Figlia del Sole, discesa dal cielo sulla terra, data in sposa a un eroe umano, avesse, in epoche più antiche, un rapporto diretto con la cosa essenziale rappresentata ancora, in una famiglia osseta, dal focolare, esso stesso d’altra parte strettamente associato alla Signora della Casa.
La donna – dice un proverbio osseto – è il piccolo sole della casa, colei che riscalda lo spazio attorno a sé.

In fin dei conti, Acyrûxs, figlia del Sole e sposa dell’eroe più grande, Soslan, deve essere, una volta uscita dal culto e ridotta a personaggio della leggenda, l’erede di quella «Hestia» che Erodoto colloca in cima al pantheon degli Sciti (Storie, 4: 59), e che fa chiamare «regina degli Sciti» dal re Idantirse nella nobile risposta che questi oppone all’ultimatum di Dario (4: 127).
Ora, nella lista dei nomi indigeni dei principali dèi da lui offerta (4: 7), Erodoto non ha omesso quello che gli Sciti davano a questa «Hestia»: ella si chiama Ταβιτί, ossia «la Riscaldante», vale a dire all’incirca lo stesso nome della luminosa Tapatî indiana, figlia del Sole.
Erodoto non dice che Tabiti sia la figlia di un dio, del Sole o di un altro, né la sposa di chicchessia; per nessuna delle divinità che nomina, d’altra parte, egli indica una parentela, o precisa qualche caratteristica pittoresca; egli annota unicamente, attraverso gli equivalenti greci che gli sembrano più vicini, le loro funzioni; in breve, registra la teologia, non la mitologia.
Si può tuttavia supporre che Tabiti rivestisse un ruolo mitico in una delle prime generazioni della genealogia dei re o, meglio, di quegli Antenati che, in epoche assai remote, a detta degli stessi Sciti, videro cadere dal cielo certi talismani d’oro incandescente. E se Tabiti è davvero il prototipo di Acyrûxs, figlia del Sole, il dono dell’oro incandescente che giunge dal cielo a suo figlio si intende pienamente.
Come l’indiana Tapatî, a dispetto del significato originario del suo nome, è luminosa più che riscaldante, abbaglia e non brucia, così analogamente si può pensare che nei suoi rapporti con gli uomini se non nella sua funzione di «Hestia», Tabiti si distinguesse perlomeno nella stessa misura con uno splendore brillante e con una temperatura elevata: Acyrûxs dev’essere stato l’epiteto che metteva il risalto questa caratteristica, prima di diventare un nome proprio nella fase ultima, oggetto dei racconti, della sua esistenza.
(Dumézil, Storie degli Sciti)