È merito di Lacan l’aver scoperto questo ricco campo di un codice dell’inconscio, che ingloba la e le catene significanti, e l’aver così trasformato l’analisi (il testo base resta, a tal proposito, La lettera rubata).
Ma com’è strano questo campo in virtù della sua molteplicità, al punto che non si può quasi parlare di una catena o anche di un codice desiderante. Le catene sono dette significanti perché sono fatte di segni, ma questi segni non sono significanti per se stessi.
Il codice [dell’inconscio] somiglia meno a un linguaggio che a un gergo, formazione aperta e polivoca. I segni vi appaiono di natura qualunque, indifferenti al loro supporto (o non è forse il supporto che è loro indifferente? il supporto è il corpo senz’organi). Non hanno programma, lavorano a tutti i piani e in tutte le connessioni; ognuno parla la sua propria lingua, e stabilisce con altre delle sintesi tanto più dirette in trasversale quanto più rimangono indirette nella dimensione degli elementi.
Le disgiunzioni proprie a tali catene non implicano ancora alcuna esclusione, le esclusioni non potendo sorgere che per un gioco di inibitori e di repressori che determinano il supporto e fissano un oggetto specifico e personale.
Nessuna catena è omogenea, ma assomiglia a una sfilata di lettere di alfabeti diversi, ove sorgono d’un tratto un ideogramma, un pittogramma, la figurina d’un elefante che passa o d’un sole che si leva.
D’un tratto, nella catena che mescola (senza comporli) dei fonemi, dei morfemi, ecc., appaiono i baffi di papà, il braccio alzato della mamma, un nastro, una ragazzina, un poliziotto, una scarpa.
Ogni catena cattura frammenti d’altre catene da cui trae un plusvalore, come il codice dell’orchidea «trae» la figura di una vespa: fenomeno di plusvalore di codice.
È tutto un sistema di spostamenti e di estrazioni a sorte che formano fenomeni aleatori parzialmente dipendenti, analoghi a una catena di Markov.
Le registrazioni e trasmissioni venute da codici interni, dall’ambiente esterno, da una regione all’altra dell’organismo, si incrociano secondo le vie perpetuamente ramificate della grande sintesi disgiuntiva.
Se vi è qui una scrittura, è una scrittura a fior del Reale, stranamente polivoca e mai bi-univocizzata, linearizzata, una scrittura trans-corsiva, e mai discorsiva: tutto il campo dell’«in-organizzazione reale» delle sintesi passive, ove si cercherebbe invano qualcosa che si possa chiamare il Significante, e che non cessa di comporre e di scomporre le catene in segni che non hanno alcuna vocazione a essere significanti.
Produrre del desiderio, questa è la sola vocazione del segno, in tutti i sensi in cui l'(es) si macchina.
(Deleuze-Guattari, L’anti-Edipo)
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Ecco in quale labirinto si va a cacciare ogni Coyote!
A furia di fare lo spavaldo e di ficcare il caso dappertutto, ecco che senza neanche accorgersene deve alla fine rassegnarsi: è finito, pure lui, come tutti i viandanti in quella gola di ghùl, nel gozzo di quel vulcano che è il Campo del linguaggio inconscio.
Se un merito va dunque ascritto a Lacan, è quello di essersi vestito dei panni di un qualsiasi coyote che, a furia di sfidare «miticamente» il senso del suo proprio Mito immaginario, si trova a dover «curare» i suoi compagni di sventura, agonizzanti e moribondi. Si trova a dovergli dare quella mano che invece Soslan riserva solo alla più bella del Reame. Si trova a doversi prendere cura degli «appesi» al filo d’una pazzia, o di quanti nevrotici «marciscono» nella fogna di una loro, non meno mitica, fissazione.
Come Pinocchio nel ventre del Pescecane, o come Giona in quello della Balena, o ancora: come l’orfico Väinämöinen, alla ricerca delle tre «paroline magiche» di un certo incantesimo, prigioniero nella pancia di Antero Vipunen – ecco dove precipita ogni Coyote troppo curioso. Precipita nelle viscere del «proprietario» di tutte le parole e di tutti i segni del mondo.
L’Es macchina, anzi meglio ancora: si macchina, ordina la sua propria macchinazione. L’Es non parla, ma più precisamente: si parla. Parla sopra le sue stesse parole.
D’accordo, abbiamo detto che laggiù – nel profondo Paese del nostro Morto Passato Immaginario – non ci sono ancora all’opera parole, e che se ci sono dei segni, sono segni insignificanti, segni che in sé non significano niente, e che servono solo a «connettersi» in una relazione, segni dunque che significano solo nelle connessioni con altri segni, e solo per il tempo della loro durata: se questo è un «significato» essi, per così dire, lo «bruciano» sul posto, lo consumano all’istante, senza registrare ancora niente che possa dirsi «sensato», niente che abbia a che vedere con ciò che intendiamo noi per Significato.
Quindi l’Es si parla nelle connessioni, negli incontri in cui s’imbatte – tanto più a caso, quanto più non obbedisce ancora a una Legge, sul cui fondamento escludere questo o quel rendez-vous.
Perciò, la Vecchia ha voglia a dirgli: sta’ attento. Coyote non ha ancora «visto» un gigante, non ha ancora incontrato la Paura nel Campo del suo Immaginario, e perciò non ha nessuna ragione per escludere dal suo viaggio la via che finirà per portarlo dritto in bocca al gigante.
L’Es si macchina negli intrecci più casuali e illogici, nelle associazioni più disparate, nelle combinazioni – agli occhi della nostra Sintassi cosciente – più scombinate.
Non serve farne una questione di principio: che si tratti di linguaggio, di gergo o di pura e semplice pazziella, poco importa.
Importa invece la sua «perversione», il suo andare a caccia nel molteplice, il suo prestarsi a sentire assonanze negli stridori più contrastanti, il suo essere proteiforme e polivoco – equivoco cioè a trecentosessanta gradi.
Importa, per dirla alla greca, il suo essere «polifemico».
L’Es sa incrociarsi in tutte le lingue, sa intendersi e tradursi a volo – perché non ha nessun «programma» da attuare, nessuna «meta» a cui andare. L’Es ha solo da continuare a macchinare desiderio, per produrre e riprodurre nient’altro che la macchinazione «mitologica» del suo Essere. Così che l’orchidea «estrae» dalla vespa che la tormenta, la «forma» con cui ingannarla.
Coyote diventerà «qualcuno», sarà il Demiurgo di più genti, o soltanto il loro medico curante – a condizione di uscire dal guaio in cui s’è cacciato, e di venir via dai pascoli dell’Es, magari dandoci in pasto ciò che dell’Es, ciò che del Continuo Inconscio, Senza Nomi né Segni, avrà saputo fare a pezzi, scandendoli uno per uno con gli intervalli della sua propria «insania».
Pezzi disordinati, tessere che si presumono buone per ogni mosaico, i baffi di papà, le tendine della finestra d’un dormitorio, il solito sottotetto dove pure questa primavera le rondini sono tornate a nidificare, nonché l’erba di montagna, e le anguille circostanti, ma sì – anche le lucciole, tutto fa brodo nella pazziella perversa dell’Es che ci macchina.
Che macchina anche quanti s’illudono di sfuggire alla sua macchinazione.
Beati coloro a cui basta appendersi a un Nome Sacro – o magari solo alla coda di un Coyote sconosciuto – per continuare a nutrire quest’illusione.
Solo noi, anonimi Nasi Forati, dalla spartizione del Mostro Cannibale (è sempre la stessa intorno a cui Lévi-Strauss raccoglie i miti sull’Arcobaleno) – solo noi, da questa distribuzione di «santini» e di «sacre reliquie», siamo stati esclusi.
Eppure, fu qui da noi che il Fatto avvenne.
Se ci chiudono in manicomio, è solo per questo: solo perché non rinunciamo a dire al mondo che il Mostro Cannibale fu fatto a pezzi qui, dentro la nostra mente. No, non rinunceremo a dire che noi siamo il «posto» dove fu fatto scempio del Continuo. E ciò nonostante, o forse proprio per ciò, essendo noi i soli rimasti a mani vuote, senza un nome, senza un popolo di appartenenza, nessuno più ci dà ascolto.