Lacan – Vergogna e prestigio, servo e padrone

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Salvador Dalì – Marquise de Sade

Che cos’è la perversione? Non è semplicemente aberranza in rapporto a criteri sociali, anomalie contrarie ai buoni costumi, benché questo registro non sia assente, o atipia in rapporto a criteri naturali, cioè il fatto che deroghi più o meno alla finalità riproduttrice della congiunzione sessuale.
È altra cosa proprio nella sua struttura.

Non per nulla si è detto a proposito di un certo numero di tendenze perverse, che esse sono proprie di un desiderio che non osa dire il suo nome. La perversione si situa in effetti al limite del registro del riconoscimento, e questo la fissa, la stigmatizza come tale.
Strutturalmente, la perversione, così come ve l’ho delineata sul piano immaginario, non può sostenersi altrimenti che su di uno statuto precario, a ogni istante contestato dall’interno del soggetto. È sempre fragile, alla mercé di un rovesciamento, di una sovversione, che fa pensare a quel cambiamento di segno che si opera in certe funzioni matematiche: nel momento in cui si passa da un valore della variabile al valore immediatamente successivo, il correlativo passa da più infinito a meno infinito.

Tale incertezza fondamentale della relazione perversa, che non trova da stabilirsi entro alcuna azione soddisfacente, costituisce un aspetto del dramma dell’omosessualità. Ma tale struttura è anche quella che dà alla perversione il suo valore.
La perversione è un’esperienza che permette di approfondire quella che, nel senso pieno della parola, si può chiamare la passione umana, per usare un termine spinoziano, cioè quel punto in cui l’uomo è aperto a quella divisione con se stesso che struttura l’immaginario: ossia, tra O e O’, la relazione speculare.
In effetti, produce un approfondimento perché fa apparire in quella beanza del desiderio umano tutte le sfumature, dalla vergogna al prestigio, dalla buffoneria all’eroismo, attraverso cui il desiderio umano è interamente esposto, nel senso profondo del termine, al desiderio dell’altro.

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Bruno Pontiroli – Affetto

Ricordate la prodigiosa analisi dell’omosessualità che viene sviluppata in Proust nel mito d’Albertine. Poco importa che questo personaggio sia femminile, la struttura della relazione è eminentemente omosessuale.
L’esigenza di questo stile di desiderio non può soddisfarsi altrimenti che in una cattura inesauribile del desiderio dell’altro, perseguito fin nei suoi sogni attraverso i sogni del soggetto, e implicando a ogni istante un’abdicazione completa del desiderio proprio dell’altro.

Altalena incessante dello specchietto per allodole, che a ogni istante fa un giro completo su se stesso; il soggetto si sfinisce nel perseguire il desiderio dell’altro, che non potrà mai cogliere come suo desiderio proprio perché il suo desiderio è il desiderio dell’altro.
È se stesso che persegue.
Qui risiede il dramma di quella passione di gelosia, che è pure una forma della relazione intersoggettiva immaginaria.

La relazione intersoggettiva, che sottende il desiderio perverso, non si sostiene su altro che sull’annientamento o del desiderio dell’altro o del desiderio del soggetto. Può essere surreal-schiavitùcolta soltanto al limite, in uno di quei capovolgimenti del cui senso ci si accorge in un baleno.
Vuol dire – riflettete bene – che, nell’uno come nell’altro, questa relazione dissolve l’essere del soggetto. L’altro soggetto si riduce a non essere che lo strumento del primo, il quale resta dunque il solo soggetto come tale; ma esso stesso si riduce a non essere altro che un idolo offerto al desiderio dell’altro.

Il desiderio perverso si fa supporto dell’ideale di un oggetto inanimato. Ma non può contentarsi della realizzazione di questo ideale. Appena lo realizza, nel momento stesso in cui lo raggiunge, perde il suo oggetto.
Il suo appagamento è così, per la sua stessa struttura, condannato a realizzarsi prima della stretta o per l’estinzione del desiderio o per la scomparsa dell’oggetto. […]

Vi è qui una reciproca relazione d’annientamento, una relazione mortale strutturata da questi due abissi; o il desiderio si spegne o l’oggetto scompare.
Ecco perché in parecchi punti di svolta faccio riferimento alla dialettica del padrone e del servo, e la rispiego.

Hegel rende conto del legame interumano. Deve rispondere non solo della società, ma della storia. Non può trascurarne alcun aspetto.
Ora esiste uno dei suoi aspetti essenziali, che non è né la collaborazione tra gli uomini, né il patto, né il legame d’amore – ma la lotta e il lavoro. E su questo aspetto si concentra per strutturare in un mito originale la relazione fondamentale, sul piano che egli stesso definisce come negativo, marcato di negatività.

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La differenza tra la società animale, il termine non mi fa paura, e la società umana, è che quest’ultima non può essere fondata su di alcun legame oggettivabile. La dimensione intersoggettiva deve entrarvi come tale.
Non si tratta dunque, nel rapporto tra servo e padrone, dell’addomesticamento dell’uomo da parte dell’uomo. Non può bastare.
Allora che cosa fonda questo rapporto?
Non è il fatto che colui il quale si riconosce vinto domandi grazia e pianga, quanto il fatto che il padrone si sia impegnato in questa lotta per ragioni di puro prestigio, e che abbia rischiato la sua vita. Questo rischio stabilisce la sua superiorità ed è in nome di questo, non della sua forza, che è riconosciuto come padrone dal servo.

Questa situazione comincia con un’impasse perché il suo riconoscimento da parte del servo non vale nulla per il padrone, poiché a riconoscerlo è solo un servo, cioè qualcuno che egli non riconosce come uomo.
La struttura di partenza di questa dialettica hegeliana appare dunque senza sbocco. Vedete allora che non mancano affinità con l’impasse della situazione immaginaria.

Tuttavia questa situazione va sviluppandosi. Il suo punto di partenza è mitico, dato che è immaginario. Ma i suoi prolungamenti ci introducono sul piano simbolico.
surreal-ciclopeI prolungamenti voi li conoscete: è questo che fa sì che si parli del padrone e del servo. In effetti, a partire dalla situazione mitica, s’organizza un’azione e si stabilisce la relazione del godimento e del lavoro.
È imposta al servo una legge: soddisfare il desiderio e il godimento dell’altro. Non basta che egli chieda grazia, occorre che vada al lavoro. E quando si va al lavoro ci sono delle regole, degli orari, entriamo nel campo simbolico.

Se osservate da vicino, questo campo del simbolico non è in semplice rapporto di successione col dominio immaginario, il cui perno è la relazione intersoggettiva mortale. Non passiamo dall’uno all’altro con un salto, che andrebbe dall’anteriore al posteriore, al seguito del patto e del simbolo.
Infatti il mito stesso è concepibile solo se già circondato dal registro simbolico, per il motivo che ho sottolineato poco fa; la situazione non può essere fondata su non so quale panico biologico all’avvicinarsi della morte.

La morte – non è forse vero? – non è mai sperimentata come tale, non è mai reale. L’uomo non ha mai paura altro che di una paura immaginaria.
Ma non è tutto.
Nel mito hegeliano la morte non è neppure strutturata come timore, è strutturata come rischio e, per dirla tutta, come posta in gioco.
Ciò che dall’origine esiste tra il padrone e il servo è una regola del gioco.

Non insisto su questo per oggi. Lo dico soltanto per quelli che sono più aperti: la relazione intersoggettiva, che si sviluppa nell’immaginario, è allo stesso tempo, in quanto struttura un’azione umana, implicitamente implicata in una regola del gioco.

(Lacan, Il Seminario: 1)