Platone – Ora tocca a Socrate parlare di Amore

Come potrei, mio caro – disse Socrate – non trovarmi in difficoltà, io come chiunque altro, nell’accingermi a parlare dopo un discorso così ben fatto e variopinto? E anche se non tutto ciò che hai detto è meraviglioso, chi non sarebbe sbigottito nel sentire, sul Tibertelli-Socratefinale, quella sfilza di nomi e di belle parole che hai usato? Tanto che io, pensando tra me e me che non sarei stato capace di dire niente che potesse anche solo sfiorarne la bellezza, poco c’è mancato che per la vergogna non me ne sono andato via […]

E ho pensato che sono stato davvero ridicolo, per aver concordato con voi di tessere, quando fosse stato il mio turno, l’elogio di Amore, e per aver detto di essere bravo nelle questioni d’amore (ἐρωτικά), quando poi non so nulla in pratica di come si deve fare un elogio qualsiasi.
Nella mia ingenuità infatti credevo che, quale che fosse il soggetto da elogiare, non si dovesse dire altro che ciò che di quel soggetto a ciascuno s’è svelato, e che questo fosse il punto di partenza: da qui poi, una volta scelte le parole più belle, che le si dovesse disporre nella maniera più acconcia [farne cioè un bel «sistema» ordinato]. Ed ero quanto mai presuntuoso a pensare che, per parlare bene di un soggetto, basta aver fatto esperienza di un suo svelamento (ἀληθῆ).

E invece, a quanto pare, non era questo il modo di elogiarlo degnamente, ma si trattava solo in pratica di accocchiare le parole più belle e pompose, a prescindere se le cose stiano poi davvero così; e se pure fossero state false, che c’era di grave?
È stato proposto, mi pare, che ciascuno di noi passasse per uno che elogia Amore, non che lo elogiasse per davvero. Perciò credo che, in virtù di questa confusione, voi affibbiate ad Amore ogni genere di discorso, e dite che egli è così e così, e che è il movente di tanti atti, in modo da farlo apparire quanto più bello e grande possibile, beninteso a chi non lo conosce – non certo a chi ne ha fatto esperienza – e così l’elogio sarebbe ben fatto. Quasi un encomio solenne.

Ma io che queste strofette encomiastiche non le sapevo e non le so cantare, proprio perché non ne avevo e non ne ho la minima idea, mi sono accordato con voi di tessere anch’io, quando fosse stato il mio turno, un elogio.
Ahimé, la lingua (γλῶσσα) ha promesso, la mente (φρήν) no. Addio, cari amici: non sono intonato al coro dei vostri salmi, non è nelle mie corde. Ma, se volete, sono disposto a parlarvi di ciò che Amore ha svelato propriamente a me, non in gara però coi vostri discorsi, altrimenti risulterei ai vostri occhi solo ridicolo. […]

Socrate-Simposio

Se permettete, avrei solo due o tre domandine da rivolgere ad Agatone, così giusto per capirci prima che cominci a parlare.
«Amore è amore di niente o di qualcosa?»
«Di qualcosa, senza dubbio».
«Bene. Questo dunque – disse Socrate – tienilo bene a mente, ricordalo! E dimmi: ciò di cui è amore, Amore lo desidera o no?».
«Senza dubbio», rispose.
«E lo desidera e ama, avendolo, o invece lo desidera e ama quando non lo possiede?».
«Quando non lo possiede, è evidente!», rispose.

«Considera allora – continuò Socrate – se anziché evidente non sia piuttosto necessario desiderare ciò di cui si manca, e viceversa non desiderare ciò di cui non si manca. A me, o Agatone, pare proprio così. E a te?».
«Anche a me», rispose.
«Dici bene. Come potrebbe chi è grande voler essere grande, e chi è forte essere forte?».
«È impossibile in base a ciò che abbiamo convenuto».
surreal-occhio«Infatti, chi è grande e forte non potrebbe mancare di grandezza e forza».
«Dici il vero».

«Se infatti chi è forte volesse essere forte – riprese Socrate – e chi è veloce essere veloce, e sano chi è sano – lo dico per non farci trarre in inganno, casomai qualcuno pensasse che tutte queste cose le possa desiderare chi già le possiede – ebbene, o Agatone, se ci pensi bene, è necessario sin d’ora che essi abbiano ciascuna di queste cose che hanno già, che lo vogliano o no, ma di questo chi mai potrebbe aver desiderio? Ma se uno dicesse che io che sono sano voglio essere appunto sano, e ricco voglio proprio essere ricco, e dunque che desidero le cose che ho, noi gli risponderemmo che tu, uomo, che possiedi ricchezza e salute e forza, in realtà vuoi possederle anche per il futuro, dal momento che nel presente ce l’hai già, vuoi o non vuoi. Considera allora, quando dici che desidero le cose presenti, se non dici altro che questo, e cioè che desidero che le cose presenti mi siano presenti anche per il futuro. Come potrebbe non essere d’accordo?».
Agatone disse di concordare.

E a lui Socrate: «Amare ciò di cui non si dispone e che non si possiede, non equivale a desiderare che siano intatte e presenti anche in avvenire le cose che si possiedono già?».
«Certamente», rispose.
«E dimmi: costui o chiunque altro desideri ciò di cui non dispone, non desidera proprio ciò che non è presente, e ciò che non possiede e che egli stesso non è, e di cui sente la mancanza, non è proprio questo ciò di cui ha desiderio e amore?».
«Certamente», rispose.

«E allora – disse Socrate – riepiloghiamo quel che abbiamo detto. Amore è in primo luogo amore di qualcosa, e poi amore di quelle cose di cui al presente senti la mancanza?».
«Sì», rispose.
«Ricordati allora di che cosa dicesti, nel tuo discorso, essere Amore; se vuoi, te lo surreal-manichini-loverammenterò io. Mi pare suppergiù che hai detto così: che agli dèi avvenne quel che avvenne per amore del bello; infatti, non potrebbe esserci amore del brutto. Non dicesti così?».
«È quel che dicevo», rispose Agatone.
«E dicesti bene, amico mio – soggiunse Socrate – e se le cose stanno così, che altro potrebbe essere Amore se non amore del bello piuttosto che del brutto?».
Quello acconsentì.

«E non abbiamo convenuto che si ama ciò di cui si ha mancanza e che non si ha?».
«Sì», rispose.
«Amore è dunque mancante e non ha bellezza?».
«È inevitabile», osservò.
«E che? Ciò che è mancante di bellezza e non la possiede affatto, tu questo lo chiami bello?».
«No, davvero».
«E sei ancora convinto che Amore è bello, se le cose stanno così?».
E Agatone disse: «Rischio, o Socrate, di non capirci niente di ciò che prima dicevo».

«Eppure hai parlato bene, o Agatone. Ma dimmi solo questo: non credi che le cose buone siano anche belle?».
«Lo credo».
«Se dunque Amore è mancante del bello, e il buono è bello, dovrebbe mancare anche delle cose buone».
«Io – disse Agatone – non saprei che cosa obiettarti; sia dunque come dici tu».
«Non è a me che non sei in grado di controbattere, mio caro Agatone, ché con Socrate non avresti problemi a spuntarla, ma è a come succede nei fatti che si svela Amore che non hai argomenti da opporre»…

(Platone, Simposio, 198b-199b; 199e-201c)

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amore-scritta-murale

Che bel modo elegante di dire, come sta qui dicendo Socrate, che Amore, Eros o Desiderio che sia, non è né bello né buono.
Perché, anche se lo fosse, continuerebbe a patire la mancanza di quella bellezza e di quella bontà di cui ancora non dispone. Se fosse bello, vorrebbe essere ancora più bello. Se fosse buono, avrebbe desiderio solo di migliorare ancora.

Ma non è qui proprio il caso di metterci a giocare con le parole. Non è questione di attributi, più o meno confacenti ad Amore. Non è intenzione di Socrate avviarsi alla ricerca della parola più «poetica» da dare al Poeta. Non va a caccia di superlativi, il nostro buon Socrate. Sta solo provando a darci un indizio. Sta provando ad annotare una cosa già nota a tutti.
La mancanza, la privazione, il vuoto di qualcuno o di qualcosa – eccolo l’indizio, ecco la nota «erotica» del suo ragionamento. La mancanza, la privazione – come modo «erotico» di stare nel tempo. Come il «colore» che si vorrebbe dare al domani. Come lo slancio a «creare» ciò che ancora non è presente. A creare l’aldilà del presente.

Eros, ci sta dicendo il buon Socrate, è Colui che ci getta in questa mancanza. Che ci appende a un «non ancora». E poiché ha insistito tanto e ci ha tenuto a dire che lui è lì a dire solo quel che gli si è svelato, solo la sua propria ἀλήθεια, è un gioco da ragazzi scoprire a quale mancanza o privazione egli alluda.
Socrate allude alla privazione di λήθη, alla perdita d’incoscienza, alla fine della Notte – di cui, non a caso, Eros è figlio primogenito, secondo gli orfici. Socrate allude a quel «non Zawadzki-tempopiù» inconscio che viene a prendere coscienza di sé, capovolgendosi in un «ancora non».
Socrate ci sta dicendo che Eros ci getta nella coscienza, ci obbliga a una memoria. Basta un semplice suo contatto. Basta appena essere sfiorati da una delle sue frecce, per destarsi a un altro tempo, a un’altra, a una nuova, percezione del Tempo.

Nel Tempo ci siamo già prima dell’avvento di Eros. Solo che, quando Eros viene (e sarà bene ricordarcelo: viene nei primissimi tempi della nostra infanzia), quello stesso Tempo si altera – si colora, fino a diventare un arcobaleno.
Se dunque Eros è Poeta, lo è in questo senso: che «fa», «inventa», «crea» un nuovo Tempo, e lo crea, lo fa «aprendo» un vuoto (diciamocelo subito: incolmabile). Un abisso senza fondo.
Come si fa a dire che è bello, anzi il più bello, la Bellezza in persona?

Agatone dice che è nientemeno il Poeta di tutti i poeti! Agatone dice che è il Creatore di tutte le nostre creazioni, figli e opere d’arte. E che è il Nume a cui pure gli dèi si devono piegare, per porre fine alle loro discordie.
Ma quante belle parole ha detto Agatone! Com’è bravo a parlare Agatone! Ma quant’è scemo Agatone! Parla di Amore, come se bastasse riservargli un posto d’onore nelle parole, come se le nostre più «poetiche» parole potessero tenerlo al guinzaglio di una definizione, magari di un encomio solenne.
Si scorda un piccolo dettaglio Agatone. Si scorda che tutto ciò che lo riguarda è necessariamente fuori luogo (ἄτοπον): che è fuori luogo Amore, e chiunque sia da lui «visitato». Si scorda che Amore, Eros o Desiderio (chiamalo come ti pare) è l’Instabile, l’Inquieto, l’Oscillante e, insieme, paradossalmente, non è niente di tutto questo.

No, non lo possiamo costringere a un domicilio coatto, anche la più bella «poesia» gli va stretta, perché Egli è sempre altrove. Altrove, mai qui, e tanto meno nelle solite parole, nei soliti posti (i «concetti») dove a parole l’andiamo a rinchiudere.
Altrove è Lui, e assieme a lui ogni innamorato. È a spasso nell’Insolito – sicché, non se ne può dire se non quel poco (di vago, d’incerto, d’indecidibile) che a ciascuno di noi «svela».
Quel «domani» a cui ci indirizza, quel «rinvio» con cui ci adesca, quella meravigliosa «pentola» in cui sguazzano i colori di Narciso. Tutti gli uccelli vengono a cucinarci il loro «erotismo», e così ciascuno riceve il suo proprio «linguaggio». È la pentola universale, eppure è il luogo in cui ciascuno scopre la propria singolarità, il suo proprio ritmo individuale, il suo proprio modo di andare e venire nel Tempo.