Rilke – O voi tenere

Vedder-pleiadi

o voi tenere, che a volte entrate
nel respiro che di voi non dice,
lasciatelo dividersi sulle vostre guance,
e dietro a voi vibrare, di nuovo unito

o voi beate, voi intatte, voi che
il c’era una volta dei cuori apparite,
archi di frecce e di frecce mete, più eterno
brilla se piange il vostro sorriso

non temete il dolore, ogni peso
rendetelo alla pesantezza della terra,
pesanti sono i monti, pesanti i mari

anche gli alberi piantati nell’infanzia
si sono fatti ormai troppo pesanti:
non li reggete, … l’aria invece … e gli spazi …

(Rilke, Sonetti a Orfeo: 4)

***

Chi saranno mai queste «tenere», queste «beate e intatte» a cui il nostro Orfeo chiede qui l’ultima grazia? La grazia di lasciarlo «respirare», di lasciare che il suo respiro a stento le sfiori, e che sulle loro guance s’apra come nel più impalpabile degli abbracci perché, una volta passato di là, possa concedersi di «vibrare», appena un «fremito», solo quel «tremore» che è tutto ciò che ha da respirare?
Orfeo-Euridice-nudaPerché quel respiro, dice il qui presente Orfeo, di esse non ha nulla da dire. Quel respiro non ha niente da «significare», non ha nessuna voglia di andarsi a perdere nei segni o nelle parole. Non ha niente da conquistare al servizio di un Significato. Ha solo da andare a compiersi «dietro di loro», di là, dove un sussulto è forse tutto ciò che c’è da «fare». Ha solo da andare là a respirare una sua frenetica «infermità».

Ora che Euridice è morta, a queste «altre» cosa più ha da chiedere Orfeo?
Ha da chiedere quest’ultima grazia. Lasciatelo passare, non lo trattenete più, questo mio respiro! Non provate più a sedurlo col vostro gaio sorriso! E, di grazia, concedetegli d’essere vuoto – non istigatelo a forzare la sua insignificanza. Non ha nulla più da dire, dacché Euridice, la sua Musa, più non lo «inspira».

Perché di voi Euridice fu la più «tenera», la più bella, la più beata e intatta, la più luminosa e attraente delle lucciole che mi richiamavano lo sguardo. Fu la Forma, il Pavone del mio primo Desiderio. Fu la Desiderata in cui il mio Desiderio una volta si specchiò e, ahimé, si riconobbe. Fu la Meraviglia, fu lo Stupore della Figlia del Sole, della fulgente Tapatî che mi abbagliò gli occhi e, insieme, mi scaldò il cuore. Fu la Ninfa la cui Bellezza «spiccò» e mi fu miraggio. Fu la Fanciulla sorta in un getto d’acqua dal profondo della Notte. Fu Afrodite, fu Arianna – fu l’alma Venere, fu la Nutrice di tutte le mie immaginazioni, quando le immagini mie, ancora, non avevano nulla da dire o da significare.

Voi, Forme, ne appariste – da dove, se non dalla Notte della mia beata insignificanza? – voi veniste a iniziarmi il cuore, a segnarlo dei «luoghi» e dei «colori» dei nostri incontri. Voi foste l’Inizio, e siete la Fine – il Primo e l’Ultimo Giorno del mio cuore. Non avrò più tempo dopo di voi. Perché voi siete «archi di frecce» e, insieme, «frecce giunte alla meta».
Voi siete prima e dopo Euridice. Eravate già all’accampamento, quando Lei, la più bella di voi, vi oscurò al mio sguardo.
Eravate prima che lo splendore di Euridice vi oscurasse, e ora riapparite – ché la sua luce è spenta.

Chagall-Orfeo-Euridice
Chagall – Orfeo ed Euridice

Era quella la sola luce che mi eccitava fino a «dire» i colori del mondo. Era la luce di un diamante incastonato in una corona di gemme.
Voi tenere, voi intatte, voi spensierate perle – Forme che la Forma di Euridice mi oscurava – ora vi vedo, siete ancora là. Ancora pronte a scoccare la freccia, la freccia che già è giunta a trafiggermi il cuore.
Ora che la luce di Euridice è «morta» a questo cuore trafitto, ora che il mio cuore sa d’essere impotente a risuscitarla, è morta insieme anche la mia lingua, perché la mia lingua sa e vuole e può dire solo se dice di Lei.

Ma dopo di Lei, voi siete ancora là. Tenere, beate e intatte ne apparite, piccole stelle ignare d’ogni lutto, brillate nel cielo dove Lei, adesso, è Notte. Vi vedo nel Vuoto della sua assenza.
Siete sempre là – Inizio e Fine della mia iniziazione all’amore.
Voi siete il «c’era una volta» della stessa Favola di cui Euridice è «la promessa sposa». Fresche aurore, voi – Ore del Mattino – ne apparite come «intatte» nel crepuscolo di Orfeo-Euridice-mortaquesto mio Tramonto. Ignare di tutto, innocenti, e seducenti come allora. Perché voi siete ancora là. Ancora all’Inizio.
E allora credetemi: se eterno è il vostro sorriso, più eterno ancora lo renderà questo pianto se con me lo piangerete su Euridice.

Non temete il dolore, non vi spaventate se la Favola s’è rotta, il peso della sua morte, il peso che appesantisce il mio dire, non io posso, ma voi potete, per quest’ultima grazia che vi chiedo, restituirlo alla pesantezza della terra.
Sarebbe pesante dire – quando tutto è solo da lasciar vibrare.
Pesa il mare di tutti quelli che ci hanno pianto la loro Core. Pesano le montagne d’attese e d’illusioni, per tutti quelli che le hanno scalate.
Anche gli alberi piantati nell’infanzia – anche quelli sono diventati pesanti. E voi che ne foste le radici, più non li reggete a meno che …

A meno che non vi strappiate alla terra e, rovesciando gli alberi, non vi leviate libere nell’aria.
Perciò quest’ultima pazzia vi chiedo: di sradicarvi dalla Terra della vostra seduzione, e di venire allo scoperto a realizzare quest’altro «sorriso» che si sorride dopo Euridice, dopo il dolore, all’Ultimo Giorno sorridendo ancora (è questa la pazzia) lo stesso sorriso del Primo Giorno – solo che vi chiedo di sorriderlo piangendo, ché voglio vedervelo brillare nelle lacrime per la morte di Euridice, di una di voi – malgrado fosse la più bella.

Vi chiedo di disincarnarvi da ogni «detto», di venir via da ogni «senso», e di avventurarvi oltre il dolore, oltre l’addio … negli spazi ancora liberi, nei vuoti di dire di questi punti sospensivi …