Alcuni dicono che il corpo (σῶμα) è la tomba (σῆμα) dell’anima, quasi che l’anima vi fosse attualmente sepolta; e inoltre, poiché per mezzo del corpo l’anima significa (σημαίνει) ciò che ha da significare (σημαίνῃ), è giusto che esso sia chiamato segno (σῆμα).
(Platone, Cratilo, 400c)
… ogni lingua, disse Freud, ha la sua lingua di sogno. Ogni ricordo parla ancora, a sua insaputa, l’Oblio che crede d’aver messo a tacere.
Dacché più nessuno mi racconta cose nuove, dice dal canto suo Zarathustra, sono costretto a raccontarmi a me stesso. Perché sono «io» l’ultima novità – «io» l’estremo messaggero imperiale sperduto nell’ora del tramonto dei Segni, «io» in carne e ossa il più recente dei Corpi, «io» il Significato a cui tutti i Sogni continuano ad alludere, non fosse altro che per continuare a distrarmi nella loro policromia.
Basta! tempo scaduto! Non è più l’ora di filosofare sui sogni: se ne accorsero, quando forse era già troppo tardi, Kierkegaard e Nietzsche. Se ne accorse perfino Marx, quando sentì che era venuto il momento di trasformarlo, il mondo, invece di continuare, più o meno uggiosamente, a interpretarlo da dietro una scrivania.
Basta con le «mediazioni» della Logica! Questo è il grido di Zarathustra, questo il coraggio dell’Abramo di Kierkegaard, e questo perfino lo slogan più utopico del ’68, fosse o no ligio all’obbedienza del testo marxiano: su, muoviamo le chiappe! in piedi, ché avanza – anche se pochi lo vedono – l’Uomo che verrà! su, scuotiamoci da questo torpore sedentario, neolitico, popolare, dall’«oppio» di questa lingua che i sogni a malapena li singhiozza in un mozzicone di frase insensata, e che invece di tradurne in atti lo sproposito (perché i sogni sono sempre spropositati, oltre che sproporzionati alla «realtà») – si trattiene nelle sue abitudini «logiche», e indugia nella celebrazione delle sue «metafisiche» più astratte, in cui è di casa lo Spirito, l’Assoluto, e non questo corpo «qui e ora» destinato a pervertirsi in un mondo di «relazioni».
Muoversi! Agire! Fare! Creare! invece di sacrificare la propria vita a un’idea, fosse anche la più platonica delle Idee, la più hegeliana delle fenomenologie dello (spirito) Assoluto (assolto da ogni contaminazione carnale).
Tornare al movimento del corpo, per liberarlo dalla paralisi a cui lo vincola lo spirito obbediente a una Logica, e riconsegnarlo alle relazioni vive, restituirlo alle forme del suo immaginario primitivo – in una parola al Teatro del suo erotismo creativo, ove «inventare vibrazioni, rotazioni, vortici, gravitazioni, danze o salti che tocchino direttamente lo spirito» (Deleuze).

Perché la Parola torni direttamente al servizio del Primo Parlatore, al servizio della Scena Vuota che l’avvento [dello sguardo] di Eros, in un istante, arrogò a sé per farne lo specchio «creativo» dei suoi Pavoni, e di tante Muse quanti sono i «molteplici volti» di Bellezza.
Perché la Parola torni ad attingere acqua direttamente alla sua Fonte, al Sogno in cui sognò di parlare la Lingua degli uccelli venendo, così, ad annunciarsi a Se Stessa: ça parle, (l’es) parla, il mondo è chiacchierone, e il cielo e la terra da sempre danno voce al reciproco «movimento» della loro Relazione. A quel duetto di Tempo e Oceano che giunse una volta a musicarsi su una cetra orfica. O, più tardi, a dare il la a un primo, sia pur rozzo, concerto pitagorico.
Concerto non concetto. Movimento, danza, sobbalzo, tic nervoso, schizzo, capriola ma non catatonico stare di guardia a un’idea «morta e sepolta». Immediatezza scenica a cui la Parola ritorni, come di nuovo a svelarsi alla sua propria «mobilità» ignorante.
Non la Parola che dica dei fatti o delle cose, ma che sia essa il Fatto, il primo e solo fatto «erotico», essa la Cosa in sé che vuole «cosare» nello sguardo altrui: come dice Lacan – da subito essa è «per sé e per i suoi»!
Poi vengono le parole.
Le parole vengono dopo la Parola. Sicché ogni parola parla, senza saperlo, ancora un frammento di quella Parola. Ogni cosa che in coscienza dice qualcosa, è condannata a essere il sepolcro della Parola incosciente. A spegnere in un’estensione questa o quella sua tensione.
Non diceva questo già Platone, duemila e cinquecento anni fa? Non diceva che il corpo, in cui giace l’anima, è a sua volta sepolto nella Tomba del Segno «corpo»? Non voleva forse dire che, dal momento in cui lo sguardo (afrodisiaco) s’intreccia con le parole (erotiche), dal momento in cui immaginario e simbolico «confluiscono» in uno stesso Gorgo, i nostri occhi più non vedono che maschere, e dietro le maschere il Vuoto, l’assenza cioè di un «corpo» che risponda immediatamente di quel che «mostra», direttamente di quel che invece media «significando» se stesso, offrendosi in olocausto al Segno che lo maschera?
Svestirsi di significato, svuotarsi d’ogni senso – questa è la via orientale. La via dei Buddha. Una via che, forse, è impraticabile per noi occidentali che, alle tentazioni di Bellezza, abbiamo detto: «sì, tentateci!», e che alle truppe di demoni al seguito di Eros, alle Forme creative più capricciose, abbiamo non aperto, ma spalancato le porte della nostra Credenza.
Noi occidentali «crediamo» a Bellezza, e perciò, come tutti i creduloni, se mai ci viene di ricrederci, siamo diversamente tentati. Tentati d’imboccare un’altra via – la nostra via all’insignificanza dei nostri Mostri sacri.
Perciò siamo condannati a non poter sgomberare, tutta e subito, la Scena, anzi a doverne moltiplicare i «fantasmi», e a farli danzare, muovere e agitarsi in un’orgia dionisiaca, perché non abbiamo altro modo di riscoprire la beffa della nostra prima «significazione».
Per far risorgere il Corpo dai Segni che lo mascherano, per risuscitarlo dalle scritture e dai tatuaggi, per restituirlo alla visione della propria, puramente casuale, nullità, siamo tenuti a far impazzire le nostre maschere – finché esse non parlino, sia pure incidentalmente, la loro lingua infantile. La Lingua che i Corpi cantavano e danzavano prima dei Segni, prima del primo Sepolcro – il santo dei santi dei sepolcri, che la nostra immaginazione in segreto custodisce, come dice l’Andaluso, nell’intima sua dimora, a fondamento di ogni sua memoria. La lingua degli uccelli. Di quelli che «ridono», forse dello stesso riso di Zarathustra, quando vedono la goffaggine di Maui che «muore» nell’illusione di essere lui a «fottere» la Morte.
Gli uccelli «vedono» e «cantano» il nostro Teatro. I sogni «vedono» e «parlano» le nostre lingue deste, e se la ridono a vederci, illusi, che c’infiliamo tra le cosce di Thanatos – come se questo fosse Amore, l’Immortale.
Come potrebbero trattenere il riso dinanzi alla scena del Mago incantato dal suo stesso incantesimo? Così incantato, così «fuori da sé» da mettersi a recitare, lui vecchio, la parte che appartiene in proprio a una verginella, qual è Arianna?
Perché questo fa il Teatro di Nietzsche: fa «recitare» tante volte il Segno, lo «ripete» tante volte quante servono a riesumarne il «dio» o il «re» che vi è sotterrato.
Cosa c’è di più goffo di un vecchio che fa la vocina della Sposa di Dioniso, e nientemeno osa farlo, che pagliaccio!, al cospetto dell’ultimo dei suoi profeti, Zarathustra?