Eros è poeta (ποιητής) così sapiente che sa fare (ποιῆσαι) di chiunque altro un poeta: diviene dunque poeta (ποιητής), anche se prima era senza una musa (ἄμουσος), chiunque purché sia toccato da Eros. Conviene perciò che noi, forti di questo argomento, osiamo sostenere che, in quanto è lui stesso poeta, è il buon Eros che in principio genera ogni sorta di creazione poetica (πᾶσαν ποίησιν), o quantomeno la sua musicalità (μουσικήν): infatti, ciò che uno non ha o non sa, non potrebbe darlo o insegnarlo a un altro.
In quanto poi alla [pro]creazione (ποίησιν) di tutti i viventi, chi potrebbe negare che è la sapienza di Eros a generare e partorire tutti i viventi?
In quanto alla produzione artistica, non sappiamo forse che ciò di cui questo dio si fa maestro, entra nel nostro logos e ci diventa manifesto, mentre rimane oscuro ciò che Eros non tocca?
In quanto all’arte delle saette, alla medicina e alla mantica, Apollo le inventò guidato dal desiderio e dall’eros, sicché anche egli era discepolo di Eros; così ugualmente le Muse ne appresero la musica, Efesto l’arte del fabbro, Atena quella della tessitura, e Zeus quella del governo degli uomini e degli dèi.
Donde ecco spiegato l’assetto ordinato che presero i «fatti» (πράγματα) di competenza propria di ciascun dio, dal momento che vi fece la sua irruzione Eros, chiaramente perché attratto da Bellezza – ché Eros non c’entra affatto con la bruttezza.
Prima di allora, come dicevo dianzi, avvennero agli dèi molte e terribili cose, poiché, a quanto si dice, su di loro regnava Ananke; ma dal momento che spuntò questo dio, dall’attrazione per il bello avvennero molte cose buone agli dèi e agli uomini.
(Platone, Simposio, 196e-197b)
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Ci dobbiamo rassegnare: il greco Ἔρως non è né il nostro Amore, né il nostro Eros: è, magari, un po’ dell’uno e un po’ dell’altro, ma non è né l’uno né l’altro.
C’è poco da fare: tra ciò che un greco dei tempi di Platone poteva intendere per Ἔρως, e ciò che uno di noi può intendere oggi per Amore, o anche per Eros, s’apre un abisso di cui non c’è parola che possa dire qualcosa. S’apre un non-detto, un impossibile a dirsi – che è poi tutta la distanza millenaria che ci separa dalla lingua e dalla cultura di Platone.
S’apre un vuoto di parole, uno spazio popolato di «indicibili», un labirinto di corridoi muti, per cui chissà quante miriadi di storie individuali sono passate da allora ad ora, e tutte che si son dovute arrangiare a quel nome, del tutto provvisorio, che la Langue offriva loro come una sorta di boa in alto mare a cui aggrapparsi. Una volta Eros, un’altra Amore. La prossima, chissà.
Ma se questo è un vuoto – si rassegni l’inesperto macellaio. Se non ci sono ossa, se non ci sono concetti forti e inattaccabili, se non ci sono significati stabili, se qui non c’è muscolo né nervo in cui il coltello del traduttore possa sentirsi sicuro di aver tagliato «qualcosa» da mettere in pentola, altro che rassegnarsi: il cuoco di Zhuang-zi, proprio in questo vuoto, può esercitare la perfezione della sua Arte.
Nel vuoto di parole egli può lasciarsi andare a occhi chiusi, e permettersi il lusso di farsi guidare dal suo proprio ritmo, e di assecondare i suoi propri intervalli (d’insania).
Il cuoco di Zhuang-zi non traduce «pezzi di carne» dal bue alla tavola del principe. Al contrario, è lui, è la sua carne, che si lascia tradurre, sono i suoi nervi che s’infilano negli aperti di qualunque «testo» che è chiamato a smembrare.
Così non sparge sangue, e la lama del suo coltello non si scalfisce.
Perciò neanche si cura di definire dove finisce Eros e comincia Amore, o viceversa, ma fa del vuoto che trova tra loro la Terra di Nessuno, la vasta Terra dove può liberamente danzare su e giù, e sentire, anzi essere certo di sentire che sta tagliando Se Stesso, e scandendo il suo tempo. Finalmente.

E dunque – chiamalo come vuoi, Eros o Amore, non fa differenza: è il Nume Sconosciuto, di cui nessun Nome riesce a darci piena conoscenza. Di lui a malapena si può dire solo questo: che è colui che fa, e che ci fa fare se solo ci tocca. È colui che ci fa la prima volta, e poi ci lascia liberi di fare tutti i nostri fatti (πράγματα). Li lascia «fare» a noi, e perfino agli dèi – perché, umani o divini che siano, tutti i «fatti» hanno avuto inizio dal primo «fare» indotto da questo Sconosciuto.
Da questo Nume che, a quanto pare, è il creatore di tutte le nostre creatività: in senso proprio (la riproduzione della Specie) e in senso figurato (le creazioni artistiche, le scoperte, le scienze, ecc.).
Se lo frequenti, se lo pratichi, se lo conosci o se, addirittura, lo padroneggi – non è Lui. È magari un dio, ma non è Lui.
Lui «fa» solo la nostra prima volta. E solo nelle ripetizioni inconsce di quel suo primo «fare», è possibile il suo (Eterno) Ritorno – sempre giovane, sempre iniziale, sempre fresco «ritorno del Rimosso». Sempre dunque presente, e da questo presente sempre in fuga.
Questo Nume, dicevano gli orfici, è figlio della Notte. Tutto ciò che lui en passant non tocca, rimane avvolto nelle tenebre dell’Oblio. Tutto ciò che avviene prima della sua prima apparizione, è Notte a noi «indicibile», è l’ἄρρητον dei misteri eleusini, è l’incoscienza letargica dei nostri primissimi giorni – pappa, cacca e nonna, come recita l’Atellana: è la Stagione muta del nostro più acerbo immaginario. Non dicemmo niente allora, e niente ne possiamo dire ora. Possiamo solo abbozzare parole tra i cui vuoti incamminarci in cerca dello spazio che il Suo avvento, in un istante, ci schiuse e ci richiuse nel suo arcaico sigillo.
Possiamo «fare» qualunque cosa poi – praticare qualunque devozione poi, e perfino qualunque ateismo – è Lui che ci ha «fatti» così prima.
Ci ha fatti più o meno aperti a uscire dall’ἄρρητον – più o meno esposti alla fascinazione della Notte, più o meno tentati di sconfinare nei vuoti dell’Oltre. E tuttavia, nessuno di noi, neanche un dio, può varcare il confine che ai suoi «fatti» il Nume tracciò quando, la prima volta, lo «fece» a immagine e somiglianza di un misero «pezzo di placenta» strappato alla Matrice della sua immaginazione, e messo al sicuro (si fa per dire) sotto un Nome.
Lo stesso Freud, faccio per dire, dovette rassegnarsi a chiamare la Grande X questo «mistero» dei tempi precedenti alle prime manifestazioni di libido o di narcisismo.
Ho detto libido? Niente paura, è solo un altro Nome alla moda con cui cerchiamo di addomesticare la selvaggia imperiosità del Nume in questione.
Non c’è un Nome, santo finché vuoi, nessun termine che possa «terminare» la potenza di questo Primogenito della Notte. Eppure, è questo il paradosso: che, se abbiamo preso a nominare, a musicare e poetare, lo dobbiamo solo alla sua irruzione nell’innominabile oscurità della nostra Notte.
Ecco, Lui viene e, a chi una Musa ancora non ce l’ha, gliela fa apparire perché la luce di quell’apparizione gli veli per sempre la Notte del suo Destino. A chi un sogno non sa ancora d’averlo sognato, Eros viene a suonargli la sveglia: è l’ora, gli dice, la tua ora di «fare» la mia realtà.
Diventa, gli dice, quello che io ti sto facendo scoprire d’essere. Io sono il tuo Mattino, gli dice, sono il tuo Primo Giorno – sono l’Inizio, in cui è già deciso il grado di perfezione artistica del tuo coltello, mio fedele macellaio.