Amore è poeta così sapiente che sa fare di chiunque altro un poeta: diviene dunque poeta, anche se prima non aveva nessuna musa, chiunque purché sia toccato da Amore.
(Platone, Simposio, 196e)
Amore è, dunque, un poeta «contagioso»: ti tocca appena, ed ecco da lungi venire a te la Musa (si chiama così perché non «dice» parole, ma vagamente mormora «suoni»: la Musa fa solo «musica» o, come si dice in napoletano, «musichéa», senza compromettersi con le parole e senza caricarsi dunque del fardello di nessun «significato»).
La frase è bella, non c’è dubbio. È una frase «poetica», questa che Platone mette sulla bocca di Agatone: Amore è poeta che fa poetare gli innamorati.
Ci viene da tradurla così, oggi – a noialtri che siamo fatti, nel bene e nel male, di pregiudizi e sentimenti romantici e post-romantici (una stessa frittata). Ma in questo modo abbiamo tradotto Platone qui, e l’abbiamo costretto a parlare la nostra lingua, invece di tradurci noi nella sua Atene. Abbiamo cioè perso un’altra occasione per andare a respirare un po’ d’aria fresca. Un po’ di quella che Nietzsche dice essere indispensabile come il pane per il Viandante: un po’ di «filosofia del mattino».
E allora sia, diamoci il buongiorno con una bella professione d’ignoranza, e punto e a capo domandiamoci: cosa poteva voler dire Platone, che noi romanticamente più non udiamo nelle sue parole? Voleva forse dire Amore, il nostro modo d’intendere Amore, quando diceva Eros? E com’è che suonerebbe stridente dire oggi che Eros è poeta che fa poetare l’erotismo? E poi quel ποιητής, che noi ci affrettiamo a tradurre «poeta», non è «colui che fa», il Fattore, il Fabbro, l’Artefice, l’Artista, e solo in ultima istanza il Poeta? e quella che noi chiamiamo ποίησις – poesia – non è innanzitutto una «fattura», e poi in particolare quella «fatta» di parole?
maghi affatturati siamo:
siamo fatti di pensieri le cui parole
non ci appartengonosiamo fatti e rifatti
sempre a partire da un’antica disfatta
della nostra immaginazione
Ora, fare per la prima volta una cosa (quando ancora non si ha nessuna musa) non è lo stesso che fare quella stessa cosa per abitudine, avendoci fatto il callo ed essendone divenuti esperti o, per dirla alla latina, periti – morti e sepolti nell’illusione di saper rifare e perfino «musicare» l’Uguale. Questa distinzione il latino l’aveva già persa: in latino non c’è che il verbo facere, laddove il greco ne ha due.
… poetare è fare (ποιεῖν), nel senso di facere ex novo, inventare, creare – mentre il fare meccanico, il facere sempre la stessa routine, il facere a memoria senza bisogno di alcuna creatività è πράσσειν – ovvero fare prassi, praticare, essere pratico di: il che implica abitudine e conformismo alle regole del mestiere che si pratica
… poetare è fare novità (ποιεῖν), e della novità è fare un’arte (ποίησις): di mattina e sera fare una stessa arte – del Primo fare l’Ultimo Giorno della creazione, dacché solo l’Inizio, solo l’Iniziale, pone termine all’Interminabile.
Quelli che fanno l’arte dei pazzi, e che dalla mattina alla sera della loro vita sono tentati di fare della loro pazzia un’arte – quelli forse sono i soli poeti nel senso greco, nel senso «erotico» della parola: quelli che non sanno nemmeno di essere poeti, ma che proprio così, ignorandolo, fanno poesia e si eccitano a creare il nuovo.
Lo creano attraversando i «vuoti», i «non-detti», gli interstizi della Parola che hanno ereditato. La Parola non appartiene a nessuno. A nessuno appartiene altro che il suo anagramma, la sua riscrittura «originale» delle altrui parole apprese intorno all’Origine.
… creare ex novo, essere originali, fare poesia (ποίησιν ποιεῖν) è sempre una pazzia: i fatti che il fattore fa (complemento oggetto interno: ecco perché è una pazzia), le poesie che il poeta poetifica, violano le leggi gli usi e i costumi del passato – e questa è, a detta di Anassimandro, una violazione necessaria, il cui senso è visibile solo a chi la guarda «secondo l’ordine del tempo»: dalla mattina alla sera, e dunque: solo a chi la riguarda, la propria «poesia mattutina», ora che è sera.
Dice Anassimandro: è Ananke (necesse est) che gli esistenti si facciano l’un l’altro «ingiustizia» (ἀδικία) fermo restando solo quel «privilegio d’anagrafe» per cui il nuovo, il giovane, quello che viene dopo, ha facoltà, e quasi obbligo, di smentire le vecchie menzogne, per dire la sua «novità».
Il fatto poetico, in quanto poetifica del nuovo sul vecchio, e in quanto riscrive e trascrive sopra il vecchio, è sempre trasgressione, violenza e forzatura del già fatto, e perciò non può ridursi alla prassi di un mestiere, se non abdicando alla sua vocazione al nuovo.
Nessuno è poeta per mestiere, o peggio ancora per tutta la vita, ma solo in quei rari momenti in cui crea qualcosa di nuovo nella sua mente – solo in quegli empiti di entusiasmo, di coraggio e di pazzia che danno una svolta radicale ai suoi pensieri e li spingono in un folle volo alla volta del non ancora poetato, più o meno alla sorgente della parola.

È quello che cerca di dire Agatone, quando dice che Eros eccita «poesia» in chi ancora non ha una Musa, in chi non ha ancora poetato, in chi ancora non si è mai arrovellato nella formula di un incantesimo. È Eros che l’«inizia» alla sua propria creatività – perché la parola in lui risorga a dire quello che non è stato ancora detto, venendo a smentire, a fare ἀδικία, a disdire quel che precedentemente si diceva per abitudine essere giusto (ius dicere – δίκη)… o si taceva in quanto bollato di «infamia», escluso cioè dalla Fama.
È Eros il trasgressore di tutte le trasgressioni poetiche, e perciò solo a Lui il poeta ha da chiedere che lo liberi dagli «oggetti», dai «feticci» dei corpi, ma soprattutto dai fantasmi che la Parola «giusta» continua a tramandare, a sua insaputa. Solo Eros è capace di quella «novità», di quel richiamo all’Originale, che disdice tutte le teologie e, insieme, tutte le patologie del nostro pudico romanticismo.
Solo la parola poetica, la parola nuova, la parola mentre sorge alla sorgente, sa della menzogna dei suoi stessi paradossi: sa che Ananke non si vincola alle sue forme di apparizione che nell’abbaglio d’un momento; e sa anche che il suo necesse est suona «nec esse est», qualcosa come: il non essere è, o meglio: quel che non era nell’essere, fino a poco fa, adesso c’è: quel che prima la parola con le sue finzioni teneva fuori dall’essere, quel che la parola ancora non aveva imbarcato nella nostra co-scienza di babele, adesso arriva. È Eros in persona che ce lo porta.
Arriva e dice: eccomi! – ci sono anch’io, e in questo nuovo io è ancora l’essere necessario, Lui, il divino Eros, che da sé si attua, ex nihilo creandosi, ex novo rigenerandosi a dispetto di tutte le resistenze, alla faccia di tutte le previsioni, a sconcertare le più dotte supposizioni, a venir meno alla parola data, a tradire la tradizione, a buttare all’aria progetti e illusioni, a sputtanare giuramenti, a spezzare vincoli e catene. Eterno Ritorno del Mattino. Eterno Spuntare della Musa mattutina.
… la poesia, disse Keats, è un tuffo in alto mare: se e quando uno avvista terra, è perché il suo atto poetico è finito, l’acqua di sorgente s’è esaurita: è solo un caso se l’onda lo porta sulla riva di parole di senso compiuto: l’atto poetico è sempre il balbettio d’infante di cui al trentatreesimo di Paradiso
… fare poesia, è fare pazzia infantile: i poeti sono sempre bambini, perché nessuna poesia invecchia mai – ma dura solo l’istante in cui nella mente si accende una pazzia: è l’infanzia, il sorgere tremulo e incerto di qualcosa, l’alba di una vita nova, il solo tempo in cui la nostra mente prova qualcosa come uno stato di paradiso
… fare poesia è pazziare a storpiare l’inferno del senso letterale delle parole: quando le parole significano e pretendono d’essere prese per «corpi pieni» sono sempre infernali, e tuttavia è da queste «bassezze», da queste «pienezze infere», da questi abissi d’ignoranza, da queste profondità sotterranee, che Eros fa irrompere e sprizzare la Fonte della sua (sempre nuova, sempre giovane, sempre seducente) poesia.
… fare poesia è far risuonare nelle parole «giuste», nelle chiacchiere che si parlano a riva, l’eco d’un tuffo in alto mare: di un tuffo nell’oceano della nostra solitudine, di una solitudine che non si rassegna a fare prassi tra la folla, a immischiarsi nel conformismo di chi dice che solo i fatti pratici sono fatti veri, che solo quelli che possono essere oggetto di verifica vanno presi in considerazione, mentre quelli che sono fatti di fantasia, i fatti che delirano, i soliloqui a briglia sciolta, sono impotenze che, se non curate, portano a pazzia il tuffatore.
Sì, dicono, e dicono il vero, quando dicono che il tuffatore sulla loro riva più non ritorna, a meno che un’onda per caso non ce lo riporti. E allora?
Allora, si tengano Amore che fa poetare gli innamorati, si attengano alle serenate e ai mandolini dei menestrelli, ma lascino stare Platone, lascino che sia il Dottore a sanare le ferite dell’erotismo che non hanno poetato!
In quanto a me, al mio caso clinico:
la mia parola nacque
per lenirmi una ferita che non ricordola mia prima parola come una lama
di fuoco ardente mi trapassòignoro la mano che l’impugnava
né ho mai saputo nulla della fucina
in cui era stata fabbricata
(Ceccardino, La settima Novena)