Lévi-Strauss – Il Gran Digiuno degli Sherenté

siccità

Gli Sherenté credevano che i periodi di siccità fossero dovuti alla collera del sole verso gli uomini. Per scongiurare il suo furore, essi celebravano una cerimonia che, per la sua durata e per il suo rigore, spiccava tra tutti i loro riti.
Per tre settimane gli uomini adulti digiunavano e cantavano quasi ininterrottamente, e si astenevano dal dormire. Essi avevano inoltre il divieto di lavarsi, o più esattamente di fare uso dell’acqua. Si credeva infatti che, alla fine di questo periodo di mortificazione, i penitenti dimagriti, sporchi e bruciati dai raggi del sole vedessero e udissero delle vespe nere, che portavano delle frecce; l’intera popolazione del villaggio abbassava subito gli occhi e si velava la faccia, ma se uno solo dei penitenti non riusciva a vedere gli insetti, il digiuno doveva continuare sino alla loro nuova apparizione.

Successivamente le visite delle vespe si facevano più frequenti, ed esse lasciavano cadere alcune frecce in miniatura che i penitenti raccoglievano.
Quando ognuno aveva ottenuto una freccia, aveva luogo il primo bagno, seguito dal taglio dei capelli e da altre cure corporali che accompagnavano il ritorno alle capanne familiari.
Le tappe ulteriori comportavano una caccia collettiva, una distribuzione di cibo e una corsa «con il ceppo». Successivamente, di notte, si alzava un palo, lungo dieci metri e di quaranta centimetri di diametro, chiamato «strada del cielo».

Chi vi si arrampicava per primo […] implorava il sole perché gli desse il fuoco: immediatamente la manciata di fibre che egli portava con sé si infiammava. Queste fibre albero-cuccagnaservivano a riaccendere tutti i focolari del villaggio.
Allora si succedevano gli altri scalatori, e ognuno si informava del tempo che gli rimaneva da vivere, rivolgendosi alle anime dei suoi genitori defunti, che gli apparivano sulla cima. Inoltre, ognuno lasciava cadere dall’alto del palo un oggetto: piuma, foglia, seme, ecc., che rappresentava la forma visibile nella quale egli si sarebbe reincarnato.
L’ultimo scalatore riceveva, per il tramite di un araldo celeste, la risposta del sole: testimonianza di soddisfazione per il buono svolgimento del rituale, e assicurazione che egli avrebbe inviato la pioggia come segno della sua compassione.

Il giorno seguente il palo era abbattuto prima dell’alba e gettato in acqua. Poi, per l’ultima volta, i penitenti si radunavano, raggruppati per metà, e l’officiante, che aveva avuto l’incarico di raccogliere in una zucca gli oggetti simboleggianti le anime, restituiva queste ultime ai loro rispettivi proprietari, fingendo di introdurle nel corpo di ognuno attraverso l’apertura mistica costituita dalla tonsura. […]

I penitenti si dividono in due gruppi, uno dei quali deve rispettare un digiuno di cinque giorni soltanto, e la cui funzione principale consiste nell’offrire, al mattino e alla sera, un piccolo sorso d’acqua ai penitenti.
Orbene, questo gruppo porta il nome «Asaré», che ricorda quello dell’eroe assetato, confermando, se mai ce ne fosse bisogno, che rito e mito sono intimamente connessi.
Del resto, alla fine dell’ultimo Gran Digiuno di cui gli indigeni abbiano conservato il ricordo, la funzione dell’araldo del sole, fu assolta da k Orionis, in altri termini da Asaré […].

Il Gran Digiuno degli Sherenté sembra rispettare uno schema che lo svolgimento del rituale rende manifesto. Questo schema riposa sulla distinzione fra fuoco «buono» e «cattivo». Solamente il secondo risulta da un’azione troppo diretta del sole sulla terra.
Pertanto, è anzitutto necessario persuadere il sole ad allontanarsi e, una volta conseguito questo risultato grazie alle mortificazioni, avvicinarsi moderatamente a lui (salendo sul palo) affinché esso conceda agli uomini i due elementi complementari, capaci di operare una mediazione fra il cielo e la terra; ossia gli stessi elementi, il fuoco e l’acqua, di cui i miti si sforzano di ritracciare l’origine, attribuita in ogni caso a un bambino che si è avventurato in cima a una pertica, trovandovi una morte simbolica, prima di risuscitare e di ritornare fra i suoi. […]

bambina-albero

Il fuoco celeste [cattivo e distruttore] non deve entrare in congiunzione con la terra, giacché dal loro contatto risulterebbe un incendio generale, di cui la siccità costituisce un segno premonitore, modesto ma empiricamente verificabile.
Tuttavia, la condizione umana primitiva mimava questo avvicinamento (se addirittura non lo presupponeva) prima che il fuoco di cucina, doppiamente «addomesticato», venisse a fungere da mediatore fra il cielo in alto e la terra in basso: manifestando, quaggiù, le virtù del fuoco celeste, ma risparmiando all’uomo la sua violenza e i suoi eccessi; e allontanando il sole dalla terra, in quanto la loro prossimità non è più richiesta perché gli alimenti possano essere riscaldati.

Ma, mentre gli Sherenté temono che abbia luogo un avvicinamento catastrofico fra il sole e la terra, i Kraho sembrano soprattutto preoccupati dal rischio inverso, che del resto anche gli Sherenté hanno presente: i Kraho temono infatti che ogni eclissi di sole annunci il ritorno della «lunga notte», che regnò una volta, e durante la quale l’umanità era costretta a nutrirsi di corteccia e di foglie ed era esposta agli attacchi mortali di tutti gli animali – fosse anche la zanzara e la cavalletta – tanto che molti preferivano por fine alla loro esistenza anziché affrontare i mostri.

Fra il sole e l’umanità, la mediazione del fuoco di cucina si esplica quindi in due modi. Con la sua presenza il fuoco di cucina evita una disgiunzione totale, unisce il sole e la bambina-lunaterra e preserva l’uomo dal mondo putrido al quale sarebbe destinato se il sole scomparisse veramente; ma questa presenza è anche interposta, come dire che essa scongiura il rischio di una congiunzione totale, dalla quale risulterebbe un mondo bruciato. […]

Cominciamo allora a comprendere perché, in tutti i nostri miti, l’acquisizione del fuoco di cucina esiga un atteggiamento di riserbo verso il rumore, atteggiamento che è il contrario di quello che si impone di fronte al disordine cosmico dell’eclissi o al disordine sociale delle unioni riprovevoli.
Se si tratta di ottenere il fuoco di cucina, il rumore è pericoloso (sia che lo si emetta, sia che lo si percepisca). Questa incompatibilità fra la cucina e il rumore è testimoniata persino in Occidente da alcuni precetti tradizionali: «Tacere è d’obbligo fra le vivande», dice un trattato francese del XII sec. (Ugo di san Vittore, De institutione Novitiarum).

Per interpretare l’equazione: (latino) nausea > (francese) noise [litigio rumoroso] non è quindi necessario indagare così a lungo come hanno fatto certi linguisti, né invocare una complessa evoluzione semantica.
L’isomorfismo della categoria gustativa e di quella uditiva si esprime qui immediatamente, e in un modo appena più vigoroso che nell’impiego peggiorativo della parola «gargote» [bettola] per designare un luogo in cui viene servita una cucina ripugnante, in quanto questa parola viene da «gargoter», il cui senso primitivo è: far rumore bollendo.

Ma ritorniamo dall’Europa nell’America tropicale, passando per il Nuovo Messico al solo scopo di aggiungere un ultimo esempio.
Gli Indiani Zuñi fanno cuocere le focacce di mais, che costituiscono la base della loro alimentazione, su lastre di pietra che occorre far scaldare progressivamente impregnandole di olio e di resina. Durante questa operazione fondamentale «non si deve pronunciare una parola se non bisbigliando … Basta che la voce di uno dei presenti sia più alta di un mormorio perché la pietra si spacchi» (Stevenson).

cuochi-profani

Se l’azione mediatrice del fuoco di cucina fra il sole (cielo) e la terra esige il silenzio, è naturale che la situazione inversa esiga il rumore, sia che essa si manifesti in senso proprio (disgiunzione del sole e della terra) o in senso figurato (disgiunzione, per effetto di un’unione riprovevole, di coniugi virtualmente destinati l’uno all’altro dalla posizione che essi occupano in seno alla rete normale degli imparentamenti); nel primo caso abbiamo allora il baccano in occasione delle eclissi, nel secondo la scampanata.
Tuttavia, non si deve dimenticare che la situazione «anti-culinaria» può realizzarsi in due modi. Essa è infatti assenza di mediazione fra il cielo e la terra, ma questa assenza è concepibile per difetto (disgiunzione dei poli) o per eccesso (congiunzione):

MEDIAZIONE ASSENTE:
(per eccesso) congiunzione totale > mondo bruciato;
(per difetto) disgiunzione totale > mondo putrido;

MEDIAZIONE PRESENTE:
fuoco di cucina interposto: congiunzione + disgiunzione.

Ci sono insomma tre possibilità, una delle quali implica la mediazione, mentre le altre due la escludono. Solo la prima esige il silenzio. In compenso, il rumore si impone ogniqualvolta due termini in coppia (sia che si tratti del cielo e della terra o di sposi virtuali) sono disgiunti.
Si vede già che, contrariamente alle razionalizzazioni degli indigeni e degli etnologi che ne hanno subito l’influsso, l’autentica funzione del baccano non consiste tanto nello scacciare il captatore (sia il mostro che divora il corpo celeste, sia il pretendente abusivo), quanto nel colmare simbolicamente il vuoto creato dalla captazione.

Ma cosa avviene nel terzo caso, ossia quando l’assenza di mediazione risulta da un eccessivo avvicinamento dei termini accoppiati?
È qui che il rituale Sherenté si mostra particolarmente istruttivo. Infatti, il suo scopo è indio-bavaglioquello di por fine a una situazione di questo tipo, o di scongiurarne la minaccia.
Come agiranno dunque gli officianti?
In tre modi: essi digiunano (mangiando solo poche focacce di mais); si astengono dal bere (tranne due sorsi d’acqua, uno al mattino e uno la sera); e cantano quasi ininterrottamente. I primi due comportamenti non sollevano problemi. Evidentemente essi risultano dalle circostanze nelle quali si ritiene che si svolga il rituale, circostanze che per ipotesi escludono il fuoco di cucina e la pioggia in ragione dell’imminente congiunzione del sole e della terra. Il fuoco domestico e la pioggia saranno restituiti agli uomini solo dopo che il sole avrà acconsentito ad allontanarsi.

Per quanto concerne il terzo comportamento, la sua natura acustica è evidente. E che cosa potrebbero fare i penitenti se non cantare, visto che il silenzio e il baccano sarebbero egualmente fuori luogo nella terza situazione in cui ci si trova, essendo stati rispettivamente assegnati a una delle altre due?
Si deve dunque ricorrere a un comportamento acustico che sia per così dire a metà strada fra il silenzio e il rumore.
Questo comportamento esiste, sotto due forme: la parola, che costituisce la sua modalità profana, e il canto, che costituisce la sua modalità sacra.

(Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto)