All’uomo sono state poste molte catene, affinché egli disimpari a comportarsi come un animale: e veramente egli è divenuto più mite, spirituale, gioioso e assennato di tutti gli animali.
Ma ora soffre ancora del fatto di aver portato per tanto tempo le catene, di aver mancato per tanto tempo di aria buona e di movimento libero; queste catene però sono, lo ripeterò sempre di nuovo, gli errori gravi e insieme sensati delle idee morali, religiose e metafisiche.
Solo quando anche la malattia delle catene sarà superata, la prima grande meta sarà veramente raggiunta: la separazione dell’uomo dagli animali. –
Ora noi siamo impegnati nel nostro lavoro di togliere le catene e ci è necessaria, in tale circostanza, la massima prudenza.
La libertà dello spirito può essere data solo all’uomo nobilitato; a lui solo rende vicino l’alleggerimento della vita spargendo balsamo sulle sue ferite; egli per primo può dire di vivere per la gioia e per nessun altro scopo; e su ogni altra bocca il suo motto sarebbe pericoloso: pace intorno a me e un prender piacere a tutte le cose più vicine. –
Con questo motto per singoli uomini, egli si ricorda di un’antica, grande e toccante parola, che fu detta per tutti, e che si è fermata sopra l’umanità intera, come un motto e un simbolo, per cui è destinato a perire chiunque ne adorni troppo presto la propria bandiera – per cui è perito il cristianesimo.
Ancora, così sembra, non è tempo che a tutti gli uomini possa accadere come a quei pastori che videro rischiarato il cielo sopra di sé e udirono quella parola: «Pace in terra e agli uomini un prender piacere gli uni agli altri». –
Questo è ancora il tempo degli individui.
(Nietzsche, Umano troppo umano, 2 : 350)
Carissimo Federico, tu mi hai insegnato che, a volte, cadendo da un cielo può succedere di trovarsi, inattesa mente, a piangere di gioia.
Prendere, tu dici, prendere piacere dai vicini – tu dici che adesso, per ora, finché non saranno guarite le ferite ai polsi e alle caviglie, finché non saranno lenite col balsamo del motto ritrovato, saranno ancora, per chissà quanto tempo ancora, pochi a «udire» questo richiamo. Chissà fino a quando, tu dici, sarà ancora il tempo degli individui.
Tu dici che è questo, al momento, lo scoglio in mezzo al mare, lo scoglio a cui siamo aggrappati (tra l’animale che fummo e l’uomo a venire) in mezzo a quest’ignoto Oceano nelle cui onde l’«umanità» ce la dobbiamo conquistare, giorno per giorno, sudore e sangue, e – quel che è peggio – continuamente smentiti dai «fatti».
Tu dici, se ho capito bene, che per ora dobbiamo arrangiarci, perché questo è ancora il tempo delle audizioni private.
Solo pochi – tu dici – e solo, a uno a uno, sentono l’Eco che dal fondo della Chiacchiera «ripete» da tempo immemorabile il motto aureo: pace in terra agli uomini. Tutti gli altri devono continuare a farsi guerra, devono continuare ad alzare la voce per stringersi l’un l’altro, come se non fosse già abbastanza stretto, il morso delle catene.
Me l’hai insegnato tu – che nessuno può mai diventare, se gli va bene, altro che quello che è. Nessuno può udire l’Eco del Paradiso, se il suo Narciso – nella Terra del suo Primo Sguardo – le profferte di Eco neanche le «vide»: credette di udirle, ma ne udiva solo la «lettera». Nessuno può scendere nella Casa in fondo al mare, giù nel labirinto di viscere della Chiacchiera Umana, se l’Eco della Parola aurea non gli ha piagato l’organo amoroso, l’intelletto del suo cuore, di quella piaga che non si scorda – che come una stimmate si rinnova minuto per minuto, come un dolore che ritorna e, ogni volta che ritorna, torna a darsi pace e gioia in un nuovo slancio a disperdersi nel suo proprio sudore.
Nessuno può sapere se non ciò che ha deciso di sapere. Nessuno può amare se non chi ha deciso di amare prima d’essere incatenato a questo corpo in carne e ossa – che suda e che sanguina quel poco di amore che ha di se stesso.
Nessuno può sapere la verità, se non ha mai mentito. E nessuno può provare piacere dai vicini, se non si è mai avvicinato al proprio cielo, e se da questo cielo non è caduto, e se cadendo tra le lacrime non ha lasciato piangere anche la gioia … sì, la gioia d’essere stato, almeno una volta, vicinissimo alla sua luce.
Perché solo da quelle parti, solo in quelle vicinissime lontananze, mio caro Federico, si sente, ancora non so per quanto, l’Eco dell’«umanità».
La più antica, la Voce senza Corpo «ripete» a tutti il suo Richiamo. Ma, come dice il Poeta, la Fama ha la testa tra le nuvole – e solo lassù, in quelle folli vicinanze, mio caro Maestro, è dato a quei pochi pazzi che ci si arrampicano, di aprire bene le orecchie e «udire», dietro la lettera, nella schiuma della Chiacchiera, nel frastuono e nel baccanale della Gente, quello che tu chiami il Motto Aureo.
Magari può essere, perché no?, che quel Motto te lo sei inventato tu, o che l’hai udito tu solo, beninteso in tedesco.
Altri fringuelli in un’altra lingua se lo crearono – ma ciò non toglie a nessuno di loro la certezza d’averlo «udito».
Di aver udito nella singolarità della propria irripetibile audizione l’Eco della Specie che richiama tutti gli individui, uno per uno, a sciogliersi dalle catene dell’individualismo nel solo modo possibile: diventando ciascuno, fino in fondo, solo Se Stesso – ovvero: solo quell’Orecchio in ascolto di Eco, quello più antico del suo primo sguardo narcisistico.
Perché in quello sguardo Narciso «vide» il lontano, e perse la Vicinissima. Perse la Luce. Se la coprì col suo stesso volto, e non vide più l’Aperto.