Nel Sudamerica l’arcobaleno possiede un duplice significato. Da un lato esso annuncia, come fa altrove, la fine della pioggia; dall’altro, è ritenuto responsabile delle malattie e di vari cataclismi naturali.
Sotto il primo aspetto l’arcobaleno opera la disgiunzione del cielo e della terra, precedentemente uniti per il tramite della pioggia. Sotto il secondo aspetto, esso sostituisce questa congiunzione normale e benefica con una congiunzione anormale e nociva: quella che esso stesso stabilisce fra il cielo e la terra, sostituendosi all’acqua.
La prima funzione risulta chiaramente dalla teoria timbira: «L’arcobaleno, “persona della pioggia”, giace con le sue due estremità nella bocca dei serpenti sucuriju, che generano la pioggia. Quando lo vediamo, è segno che la pioggia è cessata; quando scompare, è perché due pesci simili ad anguille pupeyré sono saliti in cielo per nascondersi in una pozza. Essi ritorneranno nell’acqua terrestre con la prossima grande pioggia».
La seconda funzione dell’arcobaleno è documentata dalla Guayana al Chaco: «Ogniqualvolta non trova nulla da mangiare in cielo, l’arcobaleno fa ammalare l’indio Carib … Non appena esso sovrasta le terre, gli indigeni si nascondono nelle loro capanne e pensano che si tratti di uno spirito misterioso e ribelle che cerca qualcuno per ucciderlo».
Nel Chaco, i Vilela hanno un mito relativo a un ragazzo truce e solitario, cacciatore d’uccelli, che si tramuta in serpente multicolore e apportatore di morte: l’arcobaleno. Anche Lehman-Nitsche, che ha pubblicato numerose versioni di questo mito, ha dimostrato quanto sia frequente, nel Sudamerica, l’assimilazione dell’arcobaleno a un serpente. Lo stesso autore accetta infine la tesi secondo la quale l’albero del cibo di cui si parla nei miti della Guayana e del Chaco sarebbe, dal canto suo, assimilabile alla Via Lattea.
Si avrebbe così una equivalenza:
a) Via Lattea : arcobaleno :: vita : morte
Questa equivalenza non è certo applicabile a tutta la mitologia del Nuovo Mondo, giacché abbiamo buoni motivi per supporre che essa si inverta in vari sistemi mitici del Nordamerica. Ma, per quanto concerne l’America tropicale, la sua validità sembra indirettamente confermata da certe osservazioni di Tastevin.
In uno studio dedicato alle rappresentazioni mitiche dell’arcobaleno nel bacino amazzonico, questo autore sottolinea che, secondo i suoi informatori, il serpente Boyusu si manifesta di giorno sotto la forma dell’arcobaleno e di notte sotto quella di una macchia nera nella Via Lattea.
La contropartita notturna dell’arcobaleno sarebbe quindi la non presenza della Via Lattea in un punto che normalmente essa dovrebbe occupare.
Abbiamo cioè l’equazione:
b) arcobaleno = Via Lattea (-1)
[…] Orbene, abbiamo visto che i Timbira pongono le due estremità dell’arcobaleno in rapporto con due serpenti, e questo aspetto «duale» dell’arcobaleno occupa un posto considerevole nei miti sudamericani, sia sotto una forma semplice, sia sotto una forma anch’essa sdoppiata: «I Katawishi conoscono due arcobaleni: Mawali a occidente e Tini a oriente. Erano due fratelli gemelli … Tini e Mawali causarono il diluvio che sommerse tutta la terra e uccise tutti i viventi, meno due ragazze che essi salvarono per farne le loro compagne. È imprudente fissare l’uno o l’altro: guardare Mawali significa condannarsi a divenire molle, pigro, sfortunato a caccia e a pesca; guardare Tini rende l’uomo talmente inetto che non può fare un passo senza inciampare e straziarsi i piedi contro tutti gli ostacoli della strada, né prendere uno strumento tagliente senza ferirsi» (Tastevin).
Anche i Mura credevano che esistessero due arcobaleni, uno «superiore» e l’altro «inferiore». Come pure i Tukuna, che distinguevano l’arcobaleno d’oriente e quello d’occidente: entrambi demoni subacquei, uno signore dei pesci e l’altro dell’argilla usata per fabbricare le stoviglie.
D’altro canto, gli Indios della Guayana mettono in rapporto diretto l’argilla e le malattie: «Essi sono persuasi che si deve estrarre la creta solo nella prima notte di plenilunio … Quella sera hanno luogo grandi raduni, e all’alba del giorno successivo gli indigeni ritornano ai loro villaggi con enormi scorte di creta. Essi sono intimamente convinti che i recipienti fatti con creta estratta in qualsiasi altro momento non soltanto tenderebbero a rompersi, ma provocherebbero diverse malattie in chiunque vi mangiasse dentro». […]
Un mito arekuna attribuisce all’intervento dell’arcobaleno l’origine del veleno da pesca, e in tutta l’America tropicale all’arcobaleno sono imputate le malattie, perlomeno quando assumono una forma epidemica.
Tentiamo di approfondire questa concezione.

A differenza della vecchiaia, delle disgrazie e della guerra, le epidemie cagionano enormi lacune nel tessuto demografico. Esse hanno questa proprietà in comune col veleno da pesca, che provoca nella popolazione dei fiumi delle stragi incommensurabili ai risultati che si possono ottenere con altri mezzi. […]
Orbene, la problematica del veleno da pesca ci ha suggerito che, da un punto di vista semantico, esso si situa in un luogo nel quale il passaggio dalla natura alla cultura si effettua senza soluzioni di continuità, o quasi. In altri termini, nella nozione che gli indigeni si fanno del veleno d’origine vegetale, l’intervallo fra natura e cultura, che certo esiste sempre e ovunque, si trova ridotto al minimo.
Il veleno da pesca o da caccia può dunque essere definito come un continuo massimo che genera un discontinuo massimo, o – se si preferisce – come una unione della natura e della cultura che determina la loro disgiunzione, giacché la prima dipende dalla quantità continua e la seconda dalla quantità discreta.
Non è dunque un caso se il mito arekuna sull’origine del veleno da pesca comporta un episodio che attribuisce al frazionamento dell’arcobaleno la discontinuità anatomica delle specie viventi, ossia l’avvento di un ordine zoologico che, come quello degli altri regni, assicura alla cultura una presa sulla natura.
Dietro questa giustapposizione di temi apparentemente eterocliti si percepisce confusamente all’opera una dialettica dei piccoli e dei grandi intervalli, o, per attingere al linguaggio musicale, due termini confacenti, una dialettica del cromatico e del diatonico.
Tutto avviene come se il pensiero sudamericano, risolutamente pessimista nella sua ispirazione e diatonico nel suo orientamento, attribuisse al cromatismo una specie di nequizia originaria, e tale che i grandi intervalli – indispensabili alla cultura perché essa esista, e alla natura perché essa sia pensabile per l’uomo – non possono risultare se non dall’autodistruzione di un continuo primitivo, la cui potenza si fa sempre sentire nei rari punti in cui esso è sopravvissuto: sia a beneficio dell’uomo, sotto la forma dei veleni dei quali questi si è impadronito; sia contro di lui, nell’arcobaleno che egli non può controllare.
Il cromatismo del veleno è di ordine ideologico, in quanto dipende dalla nozione di un piccolissimo intervallo fra la natura e la cultura. Quello dell’arcobaleno è empirico e sensibile.
Ma se, nella linea delle considerazioni qui sviluppate, si potesse ammettere che il cromatismo, in quanto categoria dell’intelletto, implica l’apprensione conscia o inconscia di uno schema colorato, certe riflessioni di Jean-Jacques Rousseau sul cromatismo risulterebbero ancora più interessanti:
Questa parola viene dal greco χρῶμα che significa colore, sia perché i greci denotavano questo Genere con carattere rossi o variamente colorati; sia, dicono gli autori, perché il Genere cromatico è intermedio fra gli altri due, così come il colore è intermedio fra il bianco e il nero; o, secondo altri, perché questo Genere varia e abbellisce il Diatonico coi suoi Semitoni, che nella Musica provocano un effetto identico a quello ottenuto coi colori della Pittura.
(Dictionnaire de Musique, voce «Chromatique»)
È superfluo sottolineare che noi assumiamo questo termine nell’accezione generalissima di impiego di piccoli intervalli, che corrisponde al senso greco e a quello moderno (diversi sotto altri rispetti) e che preserva la significazione comune che la parola cromatismo può avere in musica e in pittura.
D’altro canto, continueremo a citare Rousseau per mostrare che la concezione sudamericana del cromatismo (pensato anzitutto in termini di codice visivo) non ha nulla di bizzarro e di esotico, giacché, a partire da Platone e da Aristotele, gli occidentali manifestano nei suoi confronti (ma questa volta sul piano musicale) una diffidenza simile, e gli attribuiscono la stessa ambiguità: associandolo, come fanno gli Indios del Brasile nel caso dell’arcobaleno, alla sofferenza e al dolore:
Il Genere Cromatico è ammirevole per esprimere il dolore e l’afflizione: ascendendo, i suo Suoni rafforzati strappano il cuore. Esso è altrettanto energico discendendo; si crede allora di udire dei veri gemiti … Del resto, più questo genere ha energia, meno deve essere prodigato. Simile a quelle vivande delicate la cui abbondanza ben presto disgusta, esso incanta se viene usato sobriamente, così come diviene stucchevole qualora si ecceda.
(loc. cit.)
È ora opportuno ricordare che nella Guayana l’arcobaleno è chiamato col nome della sariga. Un ragionamento molto diverso da quello che stiamo seguendo ci aveva indotti a vedere, in questa assimilazione, l’effetto del piccolissimo intervallo che, nel personaggio della sariga quale la concepiscono i miti, distingue delle funzioni logicamente opposte: quella dell’apportatore di vita e quella dell’apportatore di morte.
Pertanto anche la sariga è un essere «cromatico». Essa somministra il veleno ai suoi seduttori, ed è essa stessa veleno.
Non arriveremo a suggerire che Isotta è riducibile a una «funzione sariga». Ma il fatto che l’analisi dei miti sudamericani ci abbia indotti a vedere nel veleno da pesca o da caccia una variante combinatoria del seduttore, avvelenatore dell’ordine sociale, e che, fra natura e cultura, sia il veleno che il seduttore siano apparsi come due modalità del regno dei piccoli intervalli, sta appunto a convincerci che il filtro d’amore e il filtro di morte sono intercambiabili per motivi che esulano dalla semplice opportunità, e ci invita a riflettere sulle cause profonde del cromatismo del Tristano.
(Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto)