anche la Fama è una dea
(Esiodo, Le opere e i giorni, 764)
Ricominciamo da qui. Da questa minima «teologia» di tremila anni fa. E per «rinforzo», aggiungiamoci pure Virgilio:
… veloce corre la Fama,
la Fama, di cui altro male più veloce non c’è:
correndo prende vigore, il cammino la rafforza;
dapprima piccola e timorosa, presto s’alza in volo
e celando il capo tra le nubi si diffonde tra la gente.
La Terra madre, a ciò spinta dall’ira contro gli dèi,
la generò ultima sorella, dicono, a Ceo e Encelado,
dotandola di piedi veloci e d’infaticabili ali,
mostro orrendo, immane: per quante piume ha
il suo corpo, tanti occhi ha di sotto (mirabile a dirsi),
e tante lingue, e altrettante bocche risuonano,
e altrettante orecchie son tese all’ascolto. Di notte
nell’ombra, stridula vola tra il cielo e la terra,
né mai lascia andare gli occhi al dolce sonno;
di giorno siede spiando sopra i tetti delle case
o sulle alte torri, seminando il terrore per le città,
tenace messaggera tanto del falso e maligno,
quanto del vero …
(Virgilio, Eneide, 4: 173-188)
La Fama (phéme, φήμη) – il dizionario (dopo averne rintracciato la «radice» comune nel sanscrito bhâ, nell’antico alto tedesco ban, oltre che in una sfilza di termini latini: for-faris, fateor, fabula, fas, a cui è lecito aggiungere fatum, e perfino faber) propone una gamma di traduzioni: voce, voce profetica, voce celeste, voce fatidica, voce di dio, ma anche diceria, notizia (a prescindere se vera o falsa), voce di popolo, e dunque: anche opinione, credenza, tanto meglio se sigillata in un proverbio.
Non è forse un proverbio il detto: vox populi vox dei?
La Fama, dunque, si nutre della nostra voce, per dare voce ai suoi «detti», perché non tutti i «detti» sono famosi. La Fama comprende soltanto quelli «pubblici», quelli «noti» alla piazza, quelli che in piazza, direbbe Heidegger, si diffondono e si ripetono dalla Notte dei tempi.
È la «pubblicità», la «popolarità», la «pandemia» a farne una dea! E precisamente la dea che ci «umanizza», quella – direbbe Virgilio – che si serve delle nostre gambe per «stare coi piedi per terra» e poter intanto continuare a essere «al posto suo», al di là dei cieli visibili, al di là del nostro immaginario, e di là esercitare su di noi la sua «occulta» dominazione.
La Fama è il «dominio» propriamente umano, il Paese del simbolismo umano più grezzo ed elementare, quello della «comprensione e interpretazione» media, quello dove è richiesta una «ermeneutica infantile», un’approssimazione a occhio e croce, o per essere più precisi: un’intrusione dell’orecchio nel Paese dei miraggi e delle immagini. La Fama è la Voce del Richiamo della Specie ai suoi individui, e questi (cioè noi!) non hanno altra via all’integrazione della loro individualità in una Tribù umana che la risposta a una delle sue chiamate.
Questa è la ragione per cui il filosofo bisogna che sia anzitutto un filologo: è col logos della Tribù che egli ha a che fare, col mezzo simbolico privilegiato, più immediato e diffuso grazie a cui la Tribù fa dialogare i suoi membri, accogliendoli nella più antica delle Ripetizioni: la Chiacchiera. Nella più antica Rimozione: la Fama. Nel più antico Ritorno del Rimosso: la Volgare Eloquenza.
Non ci vogliono chissà quali requisiti speciali per accedervi: se così fosse, la Specie agirebbe contro Se Stessa, finirebbe per escludere anziché includere quanti più (soggetti) possibili nel suo destino, ma qui è proprio il caso di dire … nel suo «Fato». In ciò che è stato già «detto» (milioni di volte), e che domanda solo di essere ripetuto, riaffermato o rinnegato, o comunque ritrasmesso di generazione in generazione, e tanto più facilmente tramandato, quanto più barbaramente tradito, storpiato, capovolto e rimosso nella sua «originalità», e appiattito in modo che vada bene per tutti i casi, proprio grazie alla sua «dotta ignoranza», e non alla conoscenza, del caso particolare che fu, e di nuovo in ogni bambino, è il suo Inizio. Il suo «ricomincio daccapo», il suo «ecco: ora mi riscrivo a parole». Nelle parole, s’intende, che la Fama mi suggerisce.
La Fama però non mi suggerisce da dove ha origine. La Chiacchiera non mi confessa la sua provenienza. Se ne sta con la faccia lassù, nascosta dietro le nuvole. Perché di là non vede il male che ci fa. La Chiacchiera è crudele. Vuole essere lasciata libera di parlare a vanvera, perché così le riesce meglio quel che ha da fare: ha da fare la nostra «umanità», ha da scaricare a terra, nell’humus dei nostri Paesi immaginari, i suoi fulmini «celesti» (è allora, quando dall’alto «tuonano» i diktat della sua Forza, è quello il momento in cui la Fama si travestiva da Zeus «Femio» agli occhi del saggio greco).
La Fama ci «folgora» sulla via dell’incoscienza immaginaria. La Fama ci «brucia» quando ancora siamo al di là del bene e del male. Al di là delle Idee di Platone, al di là dei miti e delle favole, nella nostra prima analfabetica infanzia.

Chi poi sia propriamente l’«infante», il Soggetto di questa «infanzia», ce lo dice la stessa parola: colui che, a sua insaputa, è già dentro la Fama (in fans), è già prigioniero delle viscere del labirinto simbolico, e del suo Verbo in particolare, prima ancora che cominci a intravedervi un senso.
Questo Soggetto non è (ancora) un «io», e non s’individua se prima non s’imbatte in un Richiamo, nel Ritorno cioè di una «chiamata» rimossa, nella Riapparizione di un’«immaginata» che pareva «estinta», e che invece torna a muoversi, e si rimuove ripetendo il fallimento della prima volta, ma questa volta lasciando una traccia del suo passaggio: lasciando il cerino acceso in mano a un «io».
I nostri Filosofi hanno trovato una scorciatoia per dire tutto questo. Dicono che si fa prima a dire: la Fama è il SI dei «si dice», è la Voce sovrana del Paese delle dicerie, la Chiacchiera in tutto il suo occulto splendore!
È da poco che l’hanno riscoperta. D’altronde, non era facile stanare la Chiacchiera in mezzo a tante chiacchiere millenarie che fanno di tutto per continuare a ripetere la propria «originaria» rimozione della propria Origine.
Bisognava spazzare via millenni, più o meno aristotelici, di «sarà vero o sarà falso», per cominciare a sospettare che, al di là di vero e falso, la Chiacchiera «è». Ed «è» tale che, pur manifesta a tutti quelli che hanno orecchi, nessuno però la vede. Nessuno la riconosce, o comunque fatica a riconoscerla come il fondamento senza fondo dell’Aperto Umano – come il Buco in cui da tempo immemorabile s’è imbucata l’avventura della Specie Umana, in attesa di sbucare nella Terra Promessa di un paradiso o di un nirvana.
… manifesta è la parola,
invisibile il pensiero
(Rûmî)
Dunque: è la Chiacchiera che «pensa», la Chiacchiera, ecco chi detiene lo scettro di tutti gli umani pensieri. Essa è la Voce della Specie: non conta sapere quello che dice, quello che SI dice, l’importante è partecipare alla sua Vocazione, è assecondare i suoi Richiami.
Beati dunque gli ingenui che ancora dicono: «io penso»! Sono le vittime più innocenti della sua «persuasione occulta». Sono impigliati nel «resto» che la Chiacchiera a ciascuno di loro ha lasciato in deposito, ahimé, per tutta la vita.
E beati ancor di più gli immacolati che ancora si baloccano a secernere il vero dal falso, il bene dal male, il pari dal dispari. Beato Platone e la sua filosofia «poliziesca». Beato il filosofo che si appella alla Verità, e il criminologo che germina in lui. Peccato solo che gli sfugge il più «divinamente occulto» di tutti i crimini: quello con cui la Chiacchiera macchia d’inchiostro, copre e rimuove a lui la sua mostruosità.
La Fama, dice Virgilio, è un mostro che non si mostra: è la Voce di un Soggetto Impersonale, di un Soggetto continuamente affamato di «individuazioni» che lo seguano nei suoi continui trasferimenti, e nei cui panni possa continuare impunemente a travestirsi. Tanto più impunemente, quanto più il Filosofo si attarderà a spaccare il capello tra una diceria e l’altra: questa è vera, e quella è falsa!
La Fama è un mostro indifferente ai casi «singoli», alle singolarità personali, indifferente per esempio alla «relazione» immaginaria tra Enea e Didone, talmente indifferente che ha già pronta la parola per «storpiarla» e «liquidarla»: è Amore.
Ed eccolo, il poveretto, l’«innamorato», chiunque egli sia, maschio o femmina, eccolo che invano s’affanna a ripetere (a se stesso, prima che agli altri) la vecchia saggia filastrocca:
… tutti sanno che sono innamorato
ma nessuno sa di chi
(corre la notizia di bocca in bocca, salta da un orecchio all’altro: la notizia dice che è Amore, e dicendolo piega al suo «dire» la relazione, la storce e la ritorce contro chi è realmente «innamorato» costringendolo a suicidare la propria immaginazione: per ulteriori informazioni rivolgersi a Didone)
Lo sanno proprio tutti, è il segreto di Pulcinella: tutti hanno sentito-dire che il povero Orlando è andato fuori di testa, il guaio è che non ha un Astolfo da mandare sulla luna …
e poi: mandarlo sulla luna, a fare che cosa – se non a dirglielo in faccia?
A dire alla Chiacchiera: senti, bella, tu che «celi il capo tra le nubi», tu che da quassù dici sempre di non saperne niente, tu che tiri il sasso e ti nascondi, tu che semini tra noi zizzania e ci metti l’uno contro l’altro, tu – sei tu che hai messo in giro la Voce: questo è vero, quello è falso; questo è bene, e quello è male; e ti diverti a invertire l’uno nell’altro, e li rovesci da un posto all’altro, e nello stesso posto da un giorno all’altro li ribalti.
Dimmi: che ne puoi sapere tu del cuore di Orlando? perché vai dicendo che è «pazzo», che è impazzito d’amore per Angelica, se tu Angelica non l’hai mai vista? Proprio perché hai la testa lassù sulla luna, tu non la vedi – tu non puoi vedere Angelica. E tanto meno che ne è della sua «forma» nelle sanguigne vene dell’immaginazione di Orlando.
Tu puoi solo chiacchierarne. E tra una chiacchiera e l’altra crepare d’invidia!
Perché tu sei la Voce senza corpo, tu sei l’Eco disprezzata da Narciso, tu sei la Sibilla che si rifiutò ad Apollo, tu sei l’Invisibile, tu sei l’Inconscia, tu sei la Vendicativa.
Guardati! Sei tu «la Prostituta delle Genti». Divina sì, ma Prostituta che si dà a tutti gli orecchi.
C’è un uomo selvatico che s’aggira nel bosco? Uno che non è (ancora) un uomo, ma somiglia piuttosto a un cervo? Uno come Enkidu? Cosa aspettate a mandargli la Prostituta? Che la Voce della Città Umana lo raggiunga al più presto! Che la Fama di Gilgameš giunga al suo orecchio.
Il greco avrebbe detto: che al suo orecchio giunga il κλέος, il nome che è sulla bocca di tutti, il più chiacchierato. Che la «chiamata» fermenti nella sua immaginazione selvatica in attesa del κληδών, della «risonanza», del «richiamo», del Ritorno: perché è in questo gioco da ragazzi, in questa eco, che il Soggetto infantile entra attivamente nella Chiacchiera della Specie Umana.
Tremila anni da Esiodo a oggi, dico tremila ci sono voluti per tornare punto e a capo a ciò che gli Antichi saggi già sapevano.
Se erano così saggi da saperlo, è perché avevano assaggiato sulla loro pelle la proverbiale crudeltà della Fama:
… vox populi vox dei
saggi perché erano rimasti senza risposte nella saggezza di una domanda:
maledetto imbroglio: è dio o il popolo che mente?
(Ceccardo il Vecchio, Opus imperfectum ad Mattheum)