Detienne – Anche la Fama è una dea

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Era il 413 a. C., e la potenza militare dell’impero ateniese si avviava verso il disastro della spedizione in Sicilia: la flotta distrutta, i comandanti sgozzati, l’esercito decimato ed i sopravvissuti deportati come schiavi nelle Latomie.
Plutarco riferisce che il primo a venirne a conoscenza fu un barbiere del Pireo che l’aveva saputo da uno schiavo sfuggito a quella catastrofe. Il barbiere corse immediatamente in città e sparse la notizia. Panico.
Il popolo si riunì in assemblea e convocò il barbiere «cercando di risalire alla notizia (phéme), ma questi non seppe dire il nome del suo informatore e attribuì la notizia ad «un personaggio sconosciuto anonimo».
Il popolo, infuriato, lo accusò di essere uno spacciatore di notizie false venuto a turbare l’ordine della città, e pertanto venne torturato fino al momento in cui arrivò la notizia ufficiale che la guerra era stata persa veramente (cfr. Plutarco, Vita di Nicia). Il popolo, addoloratissimo, si ritirò piangendo, mentre il barbiere, legato alla ruota, restò solo a riflettere sul capriccio di coloro che vogliono ad ogni costo trovare le false notizie.

Il barbiere di Atene, per sua disgrazia, diventa la sagoma viva della Voce che si identifica nel suo movimento e la cui origine gli è assolutamente sconosciuta.
C’è la voce di uno schiavo la cui inconsistenza è messa in risalto da un volto sconosciuto Salvator-Rosa-stregae senza nome. Un anonimato che designa l’ombra prima che la diceria diventi una voce viva trascinata dal cammino che aumenta le sue forze e la pone immediatamente al di fuori della portata dell’investigatore e del suo desiderio di scoprire l’origine.

Infatti, sia il barbiere sia il popolo ateniese sanno benissimo che «anche la Fama è una dea», con un altare, un culto, i sacrifici, e che appartiene a quel piccolo pantheon di potenze divine i nomi delle quali formano la lista di fenomeni psicologici grandi e piccoli: la Paura, l’Oblio, la Pudicizia o la Contesa.
Riconosciuto alla Fama questo statuto, è evidente che l’azione dell’investigatore di false notizie appare ridicolo. Al di là delle distinzioni fra il vero e il falso, la dea pretende che i filosofi di ieri e i sociologi di oggi si interroghino sulla sua straordinaria capacità di far nascere una credenza, di modificare l’opinione delle masse, e di dare anche a questa molteplice città la sua identità segreta e unita in una sola e stessa voce.

Nella tradizione greca, la Fama abita in un paesaggio in cui le parole di presagio fanno eco ai suoni, ai soffi oracolari, in cui la voce riconoscibile degli dèi sussurra o grida, terribile, si leva in mezzo al brusio sonoro degli umani: vecchi conversatori, aedi incantatori, nutrici loquaci e mormorii malevoli dietro le spalle. […]

Si chiama Femio, Phémios, «l’uomo della fama».
È uno degli aedi dell’Odissea, il più famoso, così si dice, ma certamente il più simile al poeta di corte, costretto a cantare per i padroni del giorno e su richiesta dell’uditorio.
Una voce mansueta canta davanti ai pretendenti la morte di Odisseo, l’impossibile viaggio, ma anche il ritorno dell’eroe quando la tavola e le pietre sonore sono coperte dal sangue dei commensali.
L’aedo Femio porta nel nome, come un sicuro presagio, la potenza della voce, una e molteplice, che dà fama e gloria. Una gloria che i Greci chiamano kléos, la «voce che corre», un termine che appartiene alla stessa sfera semantica di kledón, «chiamata, il nome proclamato a voce».
Su questo punto la fama, nella sua condizione socializzata, si avvicina alle pratiche oracolari in cui certi suoni particolari, le voci che vagano nell’aria diventano presagi e paiono quasi un prolungamento di un mormorio che proviene dagli dèi.

Botticelli-calunnia-Apelle
Botticelli – La calunnia di Apelle

A pochi passi da Femio, nella notte del palazzo, Odisseo si rivolge a Zeus, alzando le mani: «Padre Zeus, se mi avete portato per terra e per mare nella mia terra, volendolo, dopo avermi tanto nuociuto, mi dica un presagio (phéme) qualcuno degli uomini svegli là dentro, e appaia qui fuori un prodigio di Zeus».
Dopo che ebbe così parlato all’improvviso tuonò dall’Olimpo: prodigio con cui il dio del cielo gli risponde; mentre dalla casa vicina si leva la voce di una donna che lavorava alla macina e produceva farina d’orzo e di grano per la tavola degli insaziabili pretendenti.

La serva del palazzo chiede che quello sia il giorno dell’ultimo pasto che i pretendenti consumano nei loro festini. Un augurio di morte che Odisseo trasforma subito in segno (séma), in parola efficace.
E questa voce sconosciuta, camminando nella notte, diventa una parola mantica (klédon) nella quale, come contrappunto al tuono divino, si fa ascoltare la voce del grande Zeus tradotta in termini umani.

In questo caso è una frase, ma altrove è una parola e spesso un nome proprio, di buon augurio, ma da cogliere al volo. Come, ad esempio, nell’ambasceria dei Sami venuti per convincere i Greci ad allearsi con loro contro i barbari.
Mirò-stella-carezzaAlla testa degli inviati c’era un certo Hegesístratos, «colui che guida gli eserciti»; e subito uno degli interlocutori gli chiede: «Qual è il tuo nome?», sia che volesse informarsi per trarne un presagio, sia anche facendolo per un caso voluto da qualche divinità. E come non accogliere l’augurio di un alleato che si proclama «capo di truppe»?
La formula di Erodoto parla di «accogliere l’augurio», perché il presagio è una parola alata e il clamore leggero di un nome lascia nel cielo il segno di un’ala.

Inoltre, le voci oracolari hanno talvolta la loro sfera autonoma, se non proprio il loro santuario.
A Tebe c’è un Apollo detto delle Ceneri perché il suo altare trova il suo materiale nella cremazione delle vittime animali. E per questo dio, che è il più mantico di tutti, due forme di divinazione si corrispondono: una attraverso la cenere e l’altra attraverso la voce.
Ma quelle che si vengono ad ascoltare presso l’altare tebano dell’Apollo delle Ceneri sono parole portate dal vento, frammenti di voce, suoni fuggitivi, e non la chiara parola del Signore di Delfi. […]

Per chi sa ascoltare, ogni voce è un segno.
Si tratta allora di una voce precisa, istantanea, una specie di atomo della Fama costituita, di quella che, passando di bocca in bocca e di orecchio in orecchio, si trasforma in un racconto dotato di una forma compiuta in cui ciascuno aggiunge o toglie qualcosa, attraverso un procedimento inconsapevole ma sempre multiforme e creativo.
Se ogni individuo che ascolta l’oracolo può dare un significato ad una voce colta da uno sciame di suoni, è perché gli dèi non smettono mai di dare dei segni agli uomini mandando loro sogni ed inviando voli d’uccelli, messaggeri al pari delle voci oracolari.

E dunque ogni voce trova la sua origine nel dio sovrano del cielo chiamato «Signore delle voci», lo Zeus dei presagi noto anche col nome di Phémios, proprio come l’aedo del trombone-fioripalazzo di Itaca.
Vicino a questo Zeus se ne sta buona e pronta a partire la voce messaggera, la potenza chiamata Ossa il cui nome è associato a una specie di divinazione per mezzo dei suoni (ottéia). […]

La Fama: una figura uscita da un incubo o sognata per il quadro di un pittore surrealista, ma la cui forza immaginaria incontra nel mondo greco la spettrale analisi di Platone, il filosofo delle Leggi, certamente l’unico ad aver capito che la Fama non è una divinità come le altre.
Non sono forse infantili gli Ateniesi che erigono un altare alla Fama per il semplice fatto che il giorno stesso della vittoria riportata da un generale in un lontano distretto tutta la città entrò in festa spontaneamente? Come se la natura divina di Phéme si riducesse al trasmettere repentinamente, e a più giorni di navigazione, una buona o una cattiva nuova.

È comunque vero che nella Repubblica Platone aveva cominciato con l’imitare gli Ateniesi che nel 413 pensavano di stroncare sul nascere le dicerie condannando a morte un uomo accusato e convinto di essere un divulgatore di notizie false.
Sistemi polizieschi, da poco reinventati da storici ben intenzionati ma che i custodi della Repubblica applicano con una imbecillità totalitaria, quando parlano di eliminare tutti i fabbricanti di miti, racconti, storie che non corrisponderebbero ai comunicati ufficiali, ai «mitologemi» della mitologia di Stato.

(Detienne, La scrittura di Orfeo)