Kerényi – Il filo e il volo

Dalle parole del coro delle donne di Trezene nell’Ippolito di Euripide trapela qualcosa di intimo e profondo. Il coro dichiara di voler scomparire «in gigantesche caverne», e di lì poi spiccare il volo: le donne desiderano trasformarsi in uccelli e unirsi allo stormo che sta per migrare.
Ma come poteva mai avvenire una simile trasformazione entro quelle «gigantesche caverne»? Ci è difficile pensarlo, ma è quello che d’altro canto è espresso a chiare lettere, e cioè che attraverso le grotte, la tomba, gli inferi, quella strada porta alla nuova vita.

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Attraverso le caverne infere, il desiderio vola verso l’alto! Si avvia, attraverso la morte, alla volta di una vita migliore.
Grotte e figure di uccello sono legate da un nesso semantico, lo stesso che collega il labirinto e le gru: questo nesso spiega perfettamente come mai Dedalo, costruttore e insieme prigioniero del labirinto, conoscesse due mezzi per uscire dalla sua micidiale costruzione: il filo e il volo.

Il tempo della mitologia razionalizzata non poteva che trovare naturale il fatto che il grande inventore di ogni genere di strumenti riuscisse a imitare artificialmente anche il Icaro-volovolo degli uccelli. Corrisponde allo spirito di questa mitologia tarda, del «tempo della morte», anche la storia classica di Icaro, l’imprudente figlio di Dedalo.
Accanto a questa, tuttavia, si conserva anche un’altra leggenda, molto più antica, che parla di un uccello in rapporto di parentela con Dedalo.
Perdicca, «pernice», si chiamava secondo una tradizione la sorella del maestro; secondo un’altra tradizione Perdicca era invece figlio della sorella; per invidia Dedalo avrebbe fatto precipitare suo nipote (la «pernice») dall’alto dell’Acropoli, perché anche Perdicca era un grande inventore: in altri termini, gli insegnò il volo nel modo che gli era abituale nella sfera cultuale.

Presso il tempio di Apollo di Leucade, nella sfera di potere di un certo Icario, padre di Penelope, ancora in tempi storici veniva fatto precipitare dalla rupe di Leucade un criminale condannato: e in tal modo si era sostituito il salto volontario di un sacerdote (anche di questo rito ci sono rimaste esplicite testimonianze).
Solo così è possibile spiegare il fatto che si cercava di alleviare la caduta di chi era gettato giù dalla rupe, applicandogli delle ali (o penne), o addirittura degli uccelli, e dopo il salto lo si aspettava giù al mare con le barche per trarlo in salvo (sappiamo da Virgilio che Dedalo, una volta che riuscì a raggiungere sano e salvo la riva di Cuma, consacrò le sue ali ad Apollo).

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Basilica sotterranea di Porta Maggiore – Il volo di Saffo

Il salto rituale dalla rupe di Leucade potrebbe venir interpretato come un esempio di «volo cultuale». È mediante questo «salto» che l’arte sepolcrale dava corpo alla stessa idea espressa dal coro di Euripide:

attraverso la morte
fin dentro la morte

Il balzo di Saffo dalla rupe di Leucade compare nella cosiddetta «Basilica sotterranea di Porta Maggiore» a Roma, nella decorazione dell’abside, e ivi assume questo significato.
Un’usanza assai simile, praticata dai nuotatori etruschi, è testimoniata già molto tempo prima sulla parete della Tomba della Caccia e della Pesca a Tarquinia: il mare coi delfini in basso e gli uccelli nell’aria, in gran numero, si richiamano a vicenda in un modo significativo, come nella danza geranos; non però per via allegorica, bensì in maniera evocativa, attraverso l’atmosfera di tutto l’affresco.

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Tarquinia – Tomba della Caccia e della Pesca

Caverne ed edifici a labirinto indicano qualcosa di mortale. La danza del labirinto, quella delle «gru», indica piuttosto qualcosa che va oltre la morte.
Le altre forme in cui si esprime questo stesso rapporto tra vita e morte (il canto delle donne di Trezene, il salto di Saffo nella «Basilica sotterranea» e l’affresco parietale nella Tomba della Caccia e della Pesca) non solo accentuano l’idea della salvezza, ma idealizzano anche, in misura maggiore o minore e in modo esplicito o allusivo, lo stato che ne consegue.
La stessa cosa però non si può affermare per quanto riguarda la forma «viva» del labirinto, la danza delle gru. La tendenza a questa idealizzazione può esservi pure implicita, ma di sicuro c’è soltanto il fatto che questa danza esprime l’idea del ritorno dalla morte, l’idea della continuazione, esattamente come le forme più semplici e più antiche del labirinto: una continuazione infinita, si potrebbe dire.
Queste forme semplici sono la spirale e il meandro, anche nel suo aspetto angolato: in ogni caso, dunque, sostanzialmente una linea senza fine […]

Il collegamento originario fra Dedalo e la spirale non poteva sfuggire agli studiosi: e tuttavia fino ad oggi non era stato ancora inquadrato in un contesto realmente spirale-aureasignificativo, come quello dello sviluppo di un’idea mitologica. Questo legame è fissato in un racconto antichissimo, che già Sofocle aveva rielaborato in un suo dramma andato perduto, Kamikoi.
La caratteristica peculiare di Dedalo consisteva nel suo esser riuscito a far passare un filo attraverso le spire del guscio di una chiocciola; nel racconto, ormai razionalizzato, egli incollava il filo a una formica, che se lo portava dietro strisciando all’interno del guscio.
Se si prescinde dalla versione parodistica, allora il labirinto e il guscio della chiocciola si riveleranno due modi diversi per esprimere la stessa idea: l’uno (il guscio di chiocciola) offerto direttamente dalla natura, l’altro (il labirinto danzato, o disegnato, o pensato come edificio) creato dagli uomini.

In entrambi i casi, il mondo esprime lo stesso aspetto dell’essere: la sua capacità di destreggiarsi all’infinito attraverso ogni tipo di morte.
Ne deriva un rapporto naturale tra i due simboli, che nella poesia giunge perfino a trasformarsi in un’identità. Il mitologema sopravvive riducendosi a una sorta di rebus, indovinello, o kenning.
Teodorida, in un suo epigramma, chiama «labirinto del mare» il guscio di una chiocciola pescato nell’acqua: esso fu donato alle ninfe delle grotte, abitatrici di un altro labirinto creato dalla natura.
La tradizione di questo stretto legame si mantiene nei lessicografi greci, per i quali il labirinto rimane sempre un «luogo conformato come il guscio della chiocciola».

A questa forma originaria del labirinto corrisponde il gomitolo di Arianna raffigurato come una grande spirale sopra un bacino etrusco su treppiede.
Se si considera questo disegno alla luce del mitologema di Teseo e Arianna, la linea spiraliforme dovrà per così dire venir animata, e vista quale raffigurazione di un movimento che, giunto nel punto centrale, si rovescia ritornando indietro, questa volta dall’interno verso l’esterno.
Proviamo a immaginare che questo movimento sia prodotto da una catena di persone: accanto alla linea che dall’esterno ha portato all’interno se ne disegnerà allora un’altra, che dall’interno condurrà verso l’esterno.

Si crea così un meandro a spirale, di per sé infinito, che tende a coprire tutta la superficie a sua disposizione; se invece il movimento ritorna indietro sulla stessa linea, a partire dal centro, avremo una doppia spirale.
Questa figura sembra costituire un’unità significativa già sui monumenti preistorici. Ricordiamo la dea preistorica che appare sui tumuli traci o pre-traci nei pressi di Filippopoli, che nel triangolo del ventre ha una doppia spirale: ossia – alla luce di quanto si è fin qui detto – la linea della nascita-morte-rinascita.

(Kerényi, Nel labirinto)