… a Enzo
perché, morto e buono,
abbia ancora un po’ di pazienza con me
(giusto il tempo di salutarlo come si deve)
È nei termini di un (tragico) conflitto «musicale» che Ovidio ricostruisce il trapasso da Orfeo a Dioniso: perciò, se volevamo sapere perché la «tragedia» fa tutt’uno con Dioniso, se non bastasse Euripide a rinfacciarci che si fonda su un antico «infanticidio» (Agave che scanna suo figlio Penteo), eccolo qua: ci pensa Ovidio a rinfrescarci la memoria.
L’«infantile» che le Baccanti fanno a pezzi, l’«antico» che il loro «furore» decapita, era tutto sommato … una ninnananna. Un canto che addormentava, una malia che pacificava perfino «le montagne e le bestie selvagge» dentro di noi, un’onda di Sogno che veniva a prendersi l’«ingenua ingegnosità» dei nostri «geni puerili» per trasportarli altrove con la potenza della sua sola «algebra» sonora.
{Puer, Purusa – è sempre lo stesso infantile Personaggio Sognato. Ancora Apollo che fa eco a Pan. Ancora il Guaglione che «risponde» ai richiami di Natura.
Ti ricordi? ne parlavamo una volta. Eravamo inconcludenti come al solito, ci piaceva però lo stesso parlarne.
Fu così, o sono io che me lo sto sognando?}
La «musica» di Orfeo era una Metafora senza segni. Un succedersi di suoni senza ancora una partizione, un non-spartito di suoni «insignificanti», di note ancora troppo ignote (finanche a se stesse) per pensare di avere già qualcosa da «dire».
Eppure quella «musica» era capace di ninnare il nostro «infantile», capace di fargli giungere il richiamo di antiche Forme immaginali, ma così antiche da confondersi coi Tipi Eterni della Specie. E «popolava», sì – quella «musica» ci popolava l’Immaginazione, ce la «ingentiliva» accordandola a quella di una Gente mitica, immaginaria e inconsciamente già sepolta in una caverna della sua propria Mitologia, in un racconto della sua Madrelingua (perché è Lei, se vogliamo dirla tutta, la Madre che fa a pezzi e decapita tutti i suoi «figli»: è la Madre di tutte le lingue che tanto più barbaramente con la sua Onda Oceanica li «travolge» quanto più essi schiumano sogni, utopie e giochi all’infinito).
È in faccia ai suoi e ai nostri «professori» che Ovidio sbatte il suo racconto della morte di Orfeo. In faccia a quanti professano quella «affinità» tra orfico (apollineo) e dionisiaco contro cui anche Nietzsche (inutilmente?) insorgerà.
Ma quale «continuità» vanno cercando tra il bimbo «morto» (nel suo sogno di perfezione) e quest’altro chiassoso bambino, crudele, violento, indisponente e capriccioso, che viene a prenderne il posto?
Tra Orfeo e Dioniso c’è una Rottura. Un trauma. Una dolorosa discontinuità. Una tragedia, appunto. Una sofferenza destinata a rimanere «senza segni», perché ammutolita dal baccano che le sopravviene.
Un mondo «si chiude» e un altro barbaramente gli subentra.
Lo raccontano anche le leggende del nord: il nuovo strapotente infante subentra al cantore orfico – Kullervo a Väinämöinen. E anche lì il racconto del «trapasso» di poteri rimane alquanto oscuro. Non si capisce se la perdita delle tre «note» della formula magica dell’incantesimo è la causa o la conseguenza dell’avvento del nuovo Signore del Mondo.
D’altronde, come dare voce a quella Metafora se essa, ancora, non era uscita dalla sua «povertà» linguistica quando fu brutalmente introdotta nella Lingua di una Gente? Era solo un incantesimo, solo una breve formula magica, appena uno schizzo canoro, e bastava pizzicare di seguito solo tre corde per realizzare quella Realtà che il baccano e la frenesia dionisiaca – in ogni bambino – vengono a surrealizzare al tempo (doloroso) della sua «seconda nascita», quando il bambino «muore» al suo orfismo e, rimasto orfano (Orfeo e orfano sono della stessa «radice»), passa al servizio del dio che ha «comandato» il suo infanticidio.

Orrore è la parola-chiave in Ovidio e in Nietzsche.
Dioniso è l’Angelo «orribile», l’Annunciatore del primo Terrore che scuote le fondamenta del Sogno, e che ne mette a dura prova la Realtà.
Orfeo è solo un povero «uccello notturno» sorpreso alla luce del giorno. E il guaio è che non c’è giorno la cui luce non oscuri la Notte, con ciò spaesando ogni «volatile». Non c’è sogno che non dilegui, mortificato dalla nuova Realtà che avanza al seguito di Dioniso. Da questa «seconda» Realtà che viene a scriversi prepotentemente sul Cielo senza stelle, opacizzandone il cristallo trasparente e insieme coprendone chiassosamente la ninnananna utopica.
Non è orrida la Metafora senza stelle. Cerchiamo d’intenderci: se orrore c’è, a spargerlo è l’improvvisa irruzione di una Moltitudine di luci, forme e segni. È l’assalto alla lira del «vate apollineo», è il fragoroso sopravvento degli assordanti tamburi e dei battimani e dei gridi selvaggi delle Baccanti.
Più che una Moltitudine, irrompe il Molteplice, il Mucchio, il Racconto delle mille e una Notte. È sempre una, la Notte, ma com’è difficile, adesso, saperlo! Quella Notte si è moltiplicata per mille! Che orrore: il Corpo di Orfeo è stato fatto a pezzi!
Sulla monotonia, sulla (allora «creativa») ripetizione di uno stesso Tono, cade il Frastuono, la Ridda, il Baccanale, la Baraonda festosa donde proviene il flusso delle nostre lingue.
Orfeo è travolto da quest’Onda di ritorno, che viene anch’essa dallo stesso Oceano, anch’essa dalla Notte. Viene a «coprire» la ninnananna, il Sogno e il Nono Cielo «orfano di stelle». Viene a «scriverci» l’annuncio di una memoria fatta di una Folla di «segni». Viene a «segnarlo» inducendolo alla follia del primo anagramma, della prima ripetizione «zoppa», della prima trascrizione «difettosa», della prima eco «erronea» in cui la memoria rompendo con la ripetizione instauri una (possibile) seconda «creazione».
L’Onda dionisiaca non distingue più le Forme immaginali, le «ammucchia», né cancella la loro Apparizione, ma per così dire «la smembra» e, pezzo per pezzo, ne getta gli stracci alla rinfusa nei Cieli della nuova Realtà che instaura «anagrammando» l’altra, l’Antica, l’orfica.
A quelle Forme dà un «corpo» fisico. Al «corpo senz’organi» del bambino, avrebbe detto Artaud, dà l’occhio organizzato a «vedere» come Reale questa «seconda» Realtà, l’occhio idoneo a «immaginare» una Fisica delle Forme che prendono le onde dell’Oceano, l’occhio capace di «leggere» il Tempo dal moto delle stelle che c’imprigionano in questo inferno.
Se c’è un «sogno» dionisiaco, è perché la Folla, la Gente, la Moltitudine è il suo Soggetto logico: tanto più logico, quanta più folla gli SI assoggetta. Quanta più Gente arruola al suo gusto, al gusto del «divino» capace di sopravvivere al suo proprio Orrore, tanto più Dioniso sogna, anzi no: profetizza il «Superuomo», ovvero l’Uomo capace di sopravvivere alla sua reminiscenza e alle sue abitudini.
Sulla scena, come vedi, mio defunto Orfeo, non ci sei più tu da solo, tu solo e il sogno della tua Sposa. No, Dioniso non ti «individua» più se non per dare la caccia al tuo «individualismo».
Onda su onda, dopo quella di Orfeo lo tsunami di Dioniso, ed ecco, l’Oceano ci sommerge, mio caro Enzo, nella sua coazione a ripetere la stessa insensata crudeltà.
È crudele che tu sia morto, mentre io ancora son qui alle prese coi miei Personaggi Surreali, ancora qui impigliato in chissà quale antico anagramma.
Ho trascritto a memoria i nostri peripatetici pomeriggi, eppure, te lo giuro, neanche un «segno» m’è rimasto di quel nostro peregrinare a vanvera.
Non ti voglio ricordare, amico mio. Non voglio sapere nulla di quello che ci dicemmo. Vorrei solo poter ripetere un altro pomeriggio con te.
E se la tua stella intanto s’è spenta, non importa. Vorrei ripetere a maggior ragione il nostro primo incontro, quando senza avere niente da dire ci trovammo a parlare lo stesso, e parlammo, guarda un po’, di quella Notte senza stelle, senza chiederci di quale Notte stessimo parlando.
Ora lo so: non si è mai abbastanza orfani per saperlo.