Bardo tödöl – Il riconoscimento della propria luce

Bardo-todol-manoscritto

Tutto sta nel rivedere la propria luce. Nel riconoscerla, un istante, prima che si riassorba nella Luce che è propria del Mondo di Mezzo.

Le creature di buona intelligenza che nulla seppero del riconoscimento (di questa luce) o che, pur sapendone, non si esercitarono, e le persone profane, tutte quelle che ebbero sentore delle spiegazioni segrete, quando ricorrono alla lettura di questo libro riconoscono quella luce fondamentale e senza entrare nello stato dell’esistenza intermedia ottengono facilmente il corpo increato della sconfinata potenzialità spirituale.

Il tempo opportuno per impartire queste istruzioni è quando il respiro esteriore si interrompe e l’energia vitale viene assorbita nel canale mediano detto avadhûti, nel quale dimora la conoscenza sublimata; la facoltà pensante appare allora subitamente come luce nera (che fa vedere, ma che non si vede).
Quando l’energia vitale, tornando in circolazione, si riversa nei due canali di destra e di sinistra, allora appaiono le immagini dell’esistenza di Mezzo; fino a che l’energia vitale non si è ancora riversata nei canali di destra e di sinistra, queste istruzioni si debbono impartire. E si perseveri finché dura il respiro interno, cioè a dire quanto tempo ci vuole per prendere un pasto.
Quanto al modo, meglio è di ricorrere al trapasso appena il respiro è cessato; se così non accade, si cerchi di produrre il riconoscimento (di quella luce) in tale maniera (recitando):

O figlio di nobile famiglia, tal dei tali! È venuto per te il momento di stare bene attento. Questo è il senso del riconoscimento da farsi quando il respiro sta per essere interrotto e che ti fu più volte detto dal Maestro (quando ti raccontò) della luce che per prima s’incontra nel Mondo di Mezzo.
Guarda, il respiro esteriore s’interrompe, tutte le cose sono vuote, nude come lo spazio; c’è soltanto un’intelligenza immacolata, vuoto-luce che non ha né circonferenza né centro; allora tu devi quella luce riconoscere.
Entra in quella luce da te stesso: tu sei quella stessa luce! Entraci, e allora io pure assieme a te la conoscerò.

Così, prima che cessi il respiro che esce fuori, si ripeta all’orecchio del moribondo in modo che si ponga ben in mente queste parole.
Poi, quando il respiro che esce fuori sta per cessare, si deponga il corpo del moribondo Bardo-todol-disegnoper terra, sul fianco destro (cioè la posa nella quale il Buddha entrò nel perfetto nirvana), in quella posa che è detta «del leone», e si prema il flusso delle vene.
Se il moribondo è assopito, facendo cessare il battito delle due vene di destra e di sinistra, si premano violentemente di modo che l’energia vitale penetrata nell’avadhûti non possa più tornare indietro; e sicuramente ne esca per la via dell’apertura di Brahmâ.

Ecco, questo è il momento d’impartire le istruzioni, perché questo è il momento in cui si ha il primo approccio al Mondo di Mezzo e alla luce che gli è propria: alla luce che illumina la mente di tutte le creature, secondo come è più corretto intendere il «corpo» della sconfinata potenzialità spirituale.
Questo avviene nell’intervallo di tempo che corre tra quando il respiro esterno è cessato, ma non ancora quello interno, e l’energia vitale è trattenuta nell’avadhûti. È allora che la gente dice che c’è mancamento della coscienza.

La durata di questo stato è incerta: varia da persona a persona, se è buona o cattiva la condizione delle sue vene e dell’energia vitale. […]

Quanto al modo d’impartire le istruzioni, se uno lo può, metta in opera le proprie capacità proiettate dalle passate esperienze; se non lo può, ricorra a un maestro o a un discepolo, a un fratello nella fede o a un amico che abbia gli stessi sentimenti.

Adesso ci sono i sintomi della terra che scompare nell’acqua.

Così si ricordino, uno per uno, i sintomi della morte. E quando questi sintomi si sono attuati, si inviti al pensiero dell’illuminazione:

O figlio di nobile famiglia, adesso la morte è giunta; tu stesso devi fare il voto di diventare Illuminato.
Essendo venuto il momento di morire, adesso suscita in te medesimo pensieri di simpatia e compassione traendo profitto dalla morte, e fa’ il voto di conseguire la perfetta illuminazione allo scopo di poter giovare alle creature infinite come lo spazio.
Soprattutto allo scopo di poter giovare alle creature tutte, occorre riconoscere il Corpo della sconfinata potenzialità spirituale nella luce che appare al momento della morte.
Grazie a questo riconoscimento attuando la mistica efficacia del «grande sigillo» (mahâmudrâ: la realizzazione del vuoto), renditi utile a tutte le creature. E se non riesci ad attuarla riconoscendo la medianità del Mondo di Mezzo, il «grande sigillo» si attuerà da se stesso solo per il contatto col Mondo di Mezzo, ma allora, siccome esso può assumere le più diverse e infinite apparenze, a seconda degli esseri (dei «vissuti») da riconvertire, tu non distrarti dal pensiero di renderti utile a creature infinite come lo spazio. […]

Buddha-Kuntusangpo
Buddha Kuntusangpo

O nobile uomo. Adesso a te apparirà la luce che era già in te al momento della vita. Tu la devi riconoscere.
In questo momento il tuo intelletto, per sua essenza immacolato, senza ombra di sostanza o qualità, puro, è quella potenza che è tutto vuoto e beatitudine.
Tu pensa: quel vuoto non è soggetto a disintegrarsi. Ecco perché il tuo proprio intelletto rimane terso, senza impedimenti, puro e chiaro: quell’intelletto è il Buddha Kuntusangpo.
Insostanziale, vuoto, chiaro e lucente è il tuo intelletto: questo è il Corpo della sconfinata potenzialità dei Buddha.

Questo tuo intelletto, che è identità di luce e di vuoto, risiede in una grande massa luminosa; non nasce e non muore; esso è il Buddha Ömighiur. Basta che tu sappia questo.
Quando hai riconosciuto che il tuo intelletto che conosce, per sua essenza puro, è il Buddha, questa spontanea visione della tua intelligenza riposa nel pensiero dei Buddha.

Così per tre o sette volte si dica con voce chiara …

(Il libro tibetano dei morti, I)

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Il Bardo tödöl fu pubblicato la prima volta in Europa da Evans-Wentz nel 1927 col titolo con cui è tuttora conosciuto: Il libro tibetano dei morti. […]
È un titolo letterario ben scelto; colpisce il lettore, e dà a prima vista un’indicazione generica sull’argomento del volume.
Il trattato si volge ai morituri o ai morti: non serve ai vivi, o serve soltanto perché, per ogni vivente, verrà il giorno della morte, quando le cose dette in questo breviario dovranno tornar chiare ed efficaci alla mente e confortare nel difficile momento.

Bardo-todol-EvansMa è anche vero che questo titolo può condurre fuori strada richiamando alla memoria il libro dei morti egizio, il quale esprime tuttavia una concezione religiosa ed escatologica tutta diversa da quella tibetana.
Gli Egizi cercarono di salvare il corpo dalla corruzione che fatalmente dissolve ogni cosa creata: l’integrità del corpo è necessaria per la continuazione della vita nell’oltretomba.
Per i Tibetani il cadavere si brucia o si squarta o si abbandona sulle montagne, perché le bestie da preda e gli uccelli lo divorino.

Per gli Egizi la morte è definitiva, delimita due mondi. La sopravvivenza nel mistero che essa dischiude è sopravvivenza individua: cioè della medesima creatura che già visse in questo mondo e colà perdura con le stesse parvenze e lo stesso nome.
Per i Tibetani la morte è o il cominciamento di una nuova vita (come accade per le creature che la luce della verità non rigenerò e trasse a salvazione), o il definitivo disparire di questa fatua personalità – effimera e vana come riflesso della luna sull’acqua – nella luce indiscriminata della coscienza cosmica, infinita potenzialità spirituale.

Continuare ad esistere in una qualunque forma di esistenza, anche come dio, è dolore: perché esistenza vuol dire divenire, e il divenire è l’ombra dell’essere, un sempre rinnovato corrompimento, un non mai soddisfatto desiderio, una pena che mai si placa.
La pace è nel dissolversi inconsapevole in quella luce incolore da cui tutte le cose traggono nascimento e che, senza che ne siamo consapevoli, brilla in noi stessi.

Per dirlo con altre parole, quando si muore, sono due le vie che a noi si aprono: o un definitivo spegnimento della creatura singola che è la sorte degli Eletti; oppure la rinascita, che attende chi non seppe comprendere che tutto è sogno.
Per la qual cosa, questo trattato dovrebbe essere piuttosto conosciuto, anziché come libro dei morti, col suo vero nome tibetano, che significa libro della salvazione, o traducendo alla lettera: «il libro che conduce alla salvazione dall’esistenza intermedia al solo sentirlo recitare», perché la sua recitazione evoca nel principio cosciente del morituro o del defunto la verità redentrice.

Buddha-dormiente-India
Buddha dormiente nella posa del leone

Nel caso degli asceti, dei santi, delle persone insomma nelle quali il fuoco della verità ha bruciato il velo dell’ignoranza, nel momento della morte la luce folgorando dinanzi a loro, ed essi riconoscendola per quella che è, cade subitamente l’architettura della mâyâ, e dilegua il mondo con le sue vane apparenze. A siffatte creature non occorre la lettura di questo trattato.
Ma non tutti giungono al momento estremo con quella consapevolezza: non tutti si trovano in uno stato di così cristallina serenità da vedere oltre il velo della mâyâ; ed allora, come s’è detto, giova la recitazione del Bardo tödöl perché provochi nel defunto la consapevolezza liberatrice.

La qual cosa è possibile perché, sia il mondo nel quale noi immaginiamo di vivere, sia la nostra persona, non hanno una realtà obiettiva, ma sono immagini, costruzioni soggettive di un falso immaginare che si ordina, si complica, si svolge come la trama del karma; e questo così ci avvolge e trascina che noi seguitiamo a credere alla nostra esistenza individua mentre siamo ombra.

(Tucci, Introduzione al Libro tibetano dei morti)