Dante – Quando Beatrice mi stemprò

Dante-Beatrice-30

«Dante, perché Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non piangere ancora;
ché pianger ti conven per altra spada».
Quasi ammiraglio che in poppa ed in prora
viene a veder la gente che ministra
per li altri legni, e a ben far l’incora;
in su la sponda del carro sinistra,
quando mi volsi al suon del nome mio,
che di necessità qui si registra,
vidi la donna che pria m’apparìo
velata sotto l’angelica festa,
drizzar li occhi ver me di qua dal rio.

Tutto che ‘l vel, che le scendea di testa
cerchiato delle fronde di Minerva,
non la lasciasse parer manifesta,
regalmente nell’atto ancor proterva
continuò come colui che dice
e ‘l più caldo parlar dietro reserva:
«Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice!
Come degnasti d’accedere al monte?
non sapei tu che qui è l’uom felice?».

Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
ma veggendomi in esso, i trassi all’erba,
tanta vergogna mi gravò la fronte.
Così la madre al figlio par superba,
com’ella parve a me; perché d’amaro
sent’il sapor della pietade acerba.
Ella si tacque; e li angeli cantaro
di subito “In te, Domine, speravi”;
ma oltre “pedes meos” non passaro.

Sì come neve tra le vive travi
per lo dosso d’Italia si congela,
soffiata e stretta dalli venti schiavi,
poi, liquefatta, in sé stessa trapela,
pur che la terra che perde ombra spiri,
sì che par foco fonder la candela;
così fui sanza lacrime e sospiri
anzi ‘l cantar di quei che notan sempre
dietro alle note delli etterni giri;
ma poi ch’i ‘ntesi nelle dolci tempre
lor compatire a me, più che se detto
avesser: «Donna, perché sì lo stempre?»,
lo gel che m’era intorno al cor ristretto,
spirito e acqua fessi, e con angoscia
della bocca e delli occhi uscì del petto.

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Ella, pur ferma in su la detta coscia
del carro stando, alle sustanze pie
volse le sue parole così poscia:
«Voi che vigilate nell’etterno dìe,
sì che notte né sonno a voi non fura
passo che faccia il secol per sue vie;
onde la mia risposta è con più cura
che m’intenda colui che di là piagne,
perché sia colpa e duol d’una misura.

Non pur per ovra delle rote magne,
che drizzan ciascun seme ad alcun fine
secondo che le stelle son compagne,
ma per larghezza di grazie divine,
che sì alti vapori hanno a lor piova
che nostre viste là non van vicine,
questi fu tal nella sua vita nova
virtualmente, ch’ogni abito destro
fatto averebbe in lui mirabil prova.

Ma tanto più maligno e più silvestro
si fa ‘l terren col mal seme e non colto,
quant’elli ha più di buon vigor terrestro.
Alcun tempo il sostenni col mio volto:
mostrando li occhi giovanetti a lui,
meco il menava in dritta parte volto.
Sì tosto come in su la soglia fui
di mia seconda etade e mutai vita,
questi si tolse a me, e diessi altrui.
Quando di carne a spirto era salita,
e bellezza e virtù cresciuta m’era,
fu’ io a lui men cara e men gradita;
e volse i passi suoi per via non vera,
imagini di ben seguendo false,
che nulla promission rendono intera.

Né l’impetrare ispirazion mi valse,
con le quali ed in sogno e altrimenti
lo rivocai: sì poco a lui ne calse!
Tanto giù cadde che tutti argomenti
alla salute sua eran già corti,
fuor che mostrarli le perdute genti.
Per questo visitai l’uscio dei morti,
e a colui che l’ha qua su condotto,
li preghi miei piangendo furon porti.
Altro fato di Dio sarebbe rotto,
se Letè si passasse, e tal vivanda
fosse gustata sanza alcuno scotto
di pentimento che lagrime spanda».

(Dante, Purgatorio, 30: 55-145)

***

Guardatelo quest’uomo, dice Beatrice agli angeli. Guardate un po’ come si è ridotto … che viene a piangere, viene a insudiciare di lacrime la Terra dei Santi!
Lo vedete? non sa che qui ogni uomo è felice.
Guardatelo, questo poveraccio, sta ancora cercando qualcuno, qualcosa … e piange, vedete come piange! – non ha trovato niente, e piange, vorrebbe correre dalla mamma e dire: mi sono fatto la bua!

Oh, sapeste, io l’ho soccorso nella sua vita nova, eravamo due ragazzi e io … ho detto ai suoi occhi: su, venite, affondate nei miei! E gli ho prestato il mio volto perché santificasse Dante-Beatrice-angeliil più ardente desiderio della sua anima. E ho lasciato che lui sposasse la mia immagine per imboccare il sentiero dei celesti.
Come potrei non essere severa con lui?
Quanto più vigore un seme caduto dal cielo prende dalla terra, tanto più alla terra rimane attaccato – e poco gli importa se quella è terra di grano o di zizzania, se è terra coltivata dalle parole degli amanti che vi hanno abitato, o solo un blasfemo campo incolto.

Guardatelo! Non ha il coraggio di specchiarsi più alla fonte, questo Narciso: gli occhi distoglie sull’erba, per nascondersi alla sua vergogna.
Un seme buttato al vento, ecco chi è costui che è asceso al monte – che è salito fin quassù e che continua a non sapere che quassù non si piange. Che quassù è tutto e solo Commedia.
Vuole piangere? bene, vuol dire che lo fo piangere io, questo fiorentino!
Voglio farlo piangere di quel pianto che è tutto e solo pentimento, voglio che lui intenda quel che intendere può solo chi si pente, solo chi ritorna sui suoi passi, solo il Vecchio che rimbambisce.

Questo è lo scotto che ogni comico, poeta e non, deve pagare: piangere in un sol pianto tutta la feccia del proprio narcisismo, tutta la propria laida libidine – come consiglia (inutilmente) Apollo a Marsia: ripassandolo all’inverso, lo esorta a ridere della vanità del proprio canto.
Non c’è altra via per entrare in paradiso. Pare.
E pare che la ritrova solo chi è ben guidato. Solo chi è guidato dalla sua Donna. Solo chi è dominato dall’avvenenza della sua Natura Perfetta. Solo chi, come Dante, ha la fortuna di vederla e di sceneggiarla: non è un concetto, non è un’idea. È Colei che illumina la via. È la via che solo Lei rende visibile.
La si comincia a vedere, piangendo il pentimento.