Riprendiamo dal punto in cui eravamo. Qualcuno potrebbe dare il via con una domanda?
DR PUJIOLS: – Lei dice «il desiderio dell’altro». È il desiderio che è nell’altro? o il desiderio che ho per l’altro? per me non è la stessa cosa. Quel che ha detto l’ultima volta, alla fine, riguardava il desiderio che è nell’altro, e che l’ego può riprendere distruggendo l’altro. Ma contemporaneamente è un desiderio che egli ha per l’altro.
Non è forse questo il fondamento, originale, speculare, della relazione con l’altro, nella misura in cui si radica nell’immaginario?
L’alienazione primitiva del desiderio è legata a questo fenomeno concreto. Il motivo per cui il gioco ha un valore per il bambino, è che costituisce il piano di riflessione dove vede manifestarsi nell’altro un’attività in anticipo sulla sua; per quanto poco, essa è più perfetta, più padroneggiata della sua, è la sua forma ideale. Questo primo oggetto è da allora valorizzato.
Lo sviluppo precoce del bambino dimostra già che l’oggetto umano differisce fondamentalmente dall’oggetto dell’animale.
L’oggetto umano è originariamente mediato attraverso la strada della rivalità, dall’esacerbazione del rapporto col rivale, dalla relazione di prestigio e di prestanza. È già una relazione dell’ordine dell’alienazione, dato che sin dall’inizio il soggetto si coglie come io nel rivale.
La prima nozione della totalità del corpo come ineffabile, vissuto, il primo slancio dell’appetito e del desiderio passa nel soggetto umano attraverso la mediazione di una forma, che inizialmente vede proiettata, esterna a lui, e ciò, sin dall’inizio, nel proprio riflesso.
Seconda cosa. L’uomo sa di essere un corpo, anche se non lo percepisce mai in un modo completo, poiché ne è all’interno, ma lo sa.
Tale immagine è l’anello, il collo di bottiglia attraverso il quale il fascio confuso del desiderio e dei bisogni dovrà passare per essere suo, cioè per accedere alla sua struttura immaginaria.
La formula «il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’altro» deve essere, come tutte le formule, maneggiata a suo posto. Non è valida solo in un senso.
Vale sul piano da cui siamo partiti, quello della cattura immaginaria. Ma non si limita solo a questo. Altrimenti, l’ho indicato in modo mitico, non ci sarebbe altra relazione inter-umana possibile se non la mutua e radicale intolleranza alla coesistenza delle coscienze, come si esprime Hegel, ogni altro restando essenzialmente colui che frustra l’essere umano, non solamente del suo oggetto, ma della forma stessa del suo desiderio.
Si ritrova qui tra gli esseri umani una relazione distruttiva e mortale. D’altra parte è sempre lì, soggiacente. Il mito politico della struggle for life [della sopravvivenza per la vita] è potuto servire a inserire molte cose. Darwin l’ha forgiato solo perché faceva parte di una nazione di corsari, per i quali il razzismo era l’industria fondamentale.
Infatti tutto va contro questa tesi della sopravvivenza delle specie più forti. È un mito che va in senso contrario alle cose. Tutto prova che esistono dei punti di costanza e d’equilibrio propri di ciascuna specie, e che le specie vivono in una sorta di coordinamento, anche dei predatori e dei predati.
Non si arriva mai a un radicalismo distruttore, che porterebbe semplicemente all’annientamento della specie predatrice, la quale non avrebbe più nulla da mangiare.
Lo stretto coadattamento reciproco esistente sul piano della vita non si realizza nella lotta a morte.
Bisogna approfondire la nozione di aggressività, di cui facciamo un uso brutale. Si crede che l’aggressività sia l’aggressione. Questa non ci ha assolutamente nulla a che fare. Solo al limite, virtualmente, l’aggressività si risolve in aggressione. Ma l’aggressione non ha nulla a che fare con la realtà vitale; è un atto esistenziale legato a un rapporto immaginario.
Ecco una chiave che permette di ripensare molti problemi, e non solamente i nostri, in un registro completamente differente.
Vi avevo chiesto di porre un quesito. Lei ha fatto bene a porlo. Ne è soddisfatto?
Il desiderio nel soggetto umano è realizzato nell’altro, dall’altro, presso l’altro, come lei dice. Questo è il secondo tempo, il tempo speculare, il momento in cui il soggetto ha integrato la forma dell’io. Ma non ha potuto integrarla se non dopo un gioco di altalena, in cui ha giustamente scambiato il suo io con quel desiderio che vede nell’altro.
Da allora il desiderio dell’altro, che è il desiderio dell’uomo, entra nella mediazione del linguaggio. È nell’altro, tramite l’altro, che il desiderio è nominato. Entra nella relazione simbolica dell’io e del tu, in un rapporto di riconoscimento reciproco e di trascendenza, nell’ordine di una legge già tutta pronta a includere la storia di ciascun individuo.
Vi ho parlato del Fort e del Da. È un esempio del mondo in cui il bambino entra naturalmente in questo gioco. Comincia a giocare con l’oggetto, più esattamente, col solo fatto della sua presenza e della sua assenza. È dunque un oggetto trasformato, un oggetto di funzione simbolica, un oggetto devitalizzato, che è già un segno.
Quando l’oggetto è lì lo scaccia, quando non è lì lo chiama.
Attraverso questi primi giochi, l’oggetto passa naturalmente sul piano del linguaggio. Il simbolo emerge e diventa più importante dell’oggetto.
L’ho ripetuto già tante volte. Se non ve lo mettete bene in testa …
La parola o il concetto non è per l’essere umano nient’altro che la parola nella sua materialità. È la cosa stessa. Non è semplicemente un’ombra, un soffio, una illusione virtuale della cosa, è la cosa medesima.
Riflettete un momentino sul reale.
Per il fatto che nella loro lingua esiste la parola elefante e per il fatto che l’elefante entri così nelle loro deliberazioni, gli uomini hanno potuto prendere nei riguardi degli elefanti, addirittura prima di porvi mano, delle risoluzioni molto più decisive per questi pachidermi di qualunque altra cosa sia loro successa nella loro storia: la traversata di un fiume o la sterilizzazione naturale di una foresta.
Con nient’altro che la parola elefante e il modo in cui gli uomini ne fanno uso, succedono agli elefanti delle cose, favorevoli o sfavorevoli, faste o nefaste – in ogni caso catastrofiche – ancora prima che sia cominciato a levare verso di loro un arco o un fucile.
D’altra parte è chiaro, basta che io ne parli, non c’è bisogno che siano lì, perché siano proprio lì, grazie alla parola elefante, e più reali degli individui-elefanti contingenti.
J. HYPPOLITE: – È la logica hegeliana.
Pertanto è attaccabile?
J. HYPPOLITE: – No, non è attaccabile. Mannoni diceva poco fa che si trattava della politica.
O. MANNONI: – È il lato attraverso il quale la politica umana si inserisce. In questo lato. Se gli uomini non agiscono come gli animali, è perché scambiano le loro conoscenze attraverso il linguaggio. Di conseguenza si tratta di politica. La politica concernente gli elefanti è possibile grazie alle parole.
J. HYPPOLITE: – Ma non solo. L’elefante stesso è raggiunto. È questa la logica hegeliana.
Tutto ciò è pre-politico. Voglio semplicemente farvi toccare con mano l’importanza del nome.
Ci poniamo semplicemente sul piano della nominazione. Non c’è neppure sintassi, ancora. Ma infine, è chiaro che questa sintassi nasce nello stesso momento. Il bambino, ve l’ho già segnalato, articola degli elementi tassemici prima dei fonemi. Il «se a volte» compare in alcuni casi da solo.
Certo, questo non ci permette di sentenziare su di un’anteriorità logica, perché propriamente parlando non si tratta di altro che di un’emergenza fenomenale.
Mi riassumo. Alla proiezione dell’immagine succede costantemente quella del desiderio. Correlativamente vi è re-introduzione dell’immagine e re-introduzione del desiderio. Gioco di altalena, gioco di specchi.
Beninteso, quest’articolazione non si produce una volta sola. E nel corso di questo ciclo i suoi desideri sono reintegrati, ri-assunti dal bambino.
Metterei adesso l’accento sul modo in cui il piano simbolico si appoggia sul piano immaginario.
In effetti, come vedete, i desideri del bambino passano inizialmente attraverso l’altro speculare. È là che sono approvati o riprovati, accettati o rifiutati. È attraverso di lì che il bambino apprende l’ordine simbolico e accede al suo fondamento, che è la legge.
Anche questo ha dei rispondenti sperimentali.
Suzan Isaacs segnala in uno dei suoi testi – e anche nella scuola di Koehler è stato messo in evidenza – che assai precocemente, a un’età ancora infante, tra gli otto e i dodici mesi, il bambino non reagisce assolutamente nello stesso modo a un urto accidentale, a una caduta, a una brutalità meccanica legata a sbadataggine e, dall’altra parte, a una sberla con intento punitivo.
Possiamo distinguere in un bambino piccolissimo due reazioni completamente differenti prima della manifestazione esteriorizzata del linguaggio.
Il bambino ha dunque già un primo apprendimento del simbolismo del linguaggio. Del simbolismo del linguaggio e della sua funzione di patto.
(Lacan, Il seminario: 1)