Intanto, il dolente Marco soffre grande pena e s’affligge per la sposa e per l’onore. Corpo e anima lo opprimono ogni giorno di più, ed egli è indifferente a ogni prestigio e ricchezza. E accade che un giorno vada a caccia proprio in quella stessa foresta, più per tristezza che per avventura.
Entrati nel folto, i cacciatori prendono i cani e trovano un branco; sciolgono allora la muta che presto stana un cervo prodigioso dalla criniera di cavallo, grande, robusto e bianco, con corna piccole e corte, quasi fossero appena spuntate. Si slanciano a gara a inseguirlo finché, a sera, ne perdono le tracce, ché il cervo sfugge e si precipita là da dove era venuto – alla grotta – e vi trova rifugio e salvezza.
Ora Marco, e ancor più i cacciatori, sono molto contrariati di quanto è accaduto col cervo, ché l’animale era invero singolare per il colore e la criniera. Con grande disappunto, radunano i cani e si dispongono a trascorrere la notte, ché hanno bisogno di riposo.
Per tutto il giorno Tristano e Isotta hanno udito il clamore dei corni e dei cani, e subito hanno pensato che non potesse essere altri che Marco. Il timore grava loro sul cuore, ché paventano che la loro presenza sia stata tradita.
L’indomani, di buon mattino, il maestro di caccia si leva prima che spunti l’aurora, e ordina agli uomini di attendere sul posto che faccia giorno, e di raggiungerlo poi alla caccia.
Prende al guinzaglio un bracco ben addestrato allo scopo, e lo mette sulle tracce del cervo. Il cane lo guida per aspre contrade, per rocce e per rupi, campi aridi e prati verdi fin dove, la sera innanzi, era svanito il cervo in fuga; il cacciatore ne segue le tracce con precisione, finché la stretta gola si apre e il sole è ben alto: eccolo giunto alla radura dove è la fonte di Tristano.
Quello stesso mattino, Tristano e la sua compagna sono usciti tenendosi per mano e si sono incamminati per la deliziosa valletta, sul prato fiorito e ancora rorido di rugiada: calandre e usignoli innalzavano insieme un canto a salutare i compagni.
Salutano anche Tristano e Isotta, con fervore: gli uccellini del bosco augurano un dolce benvenuto nella loro lingua latina, e per molti dolci uccellini i due amanti sono davvero i benvenuti. Essi s’adoprano a meraviglia al compito loro, e cantano dai rami festose canzoni e ritornelli in tenor e discantus, per la gioia degli amanti.
Questi sono accolti anche dalla fresca sorgente, che zampilla armoniosa davanti ai loro occhi, e ancor più armoniosa risuona agli orecchi mentre, sussurrando, si muove loro incontro e li accoglie col mormorante e dolce saluto.
Anche i tigli fanno l’omaggio con aure fragranti, e li confortano all’interno e all’esterno, vale a dire nell’orecchio e nei sensi. Gli alberi in fiore, il rilucente prato, l’erba verdeggiante, le gemme e ogni cosa fiorita, tutto sorride agli amanti.
E li saluta anche la benefica rugiada, che rinfresca i loro piedi e allieta i loro cuori.
E quando Tristano e Isotta ne sono appagati, tornano dolcemente alla grotta e s’accordano sul da farsi in quel momento, ché hanno grande timore di ciò che invero accadrà, e temono che alcuno in qualche modo giunga sulle tracce dei cani, e sveli il loro segreto.
Allo scopo, Tristano escogita un artificio su cui convengono entrambi. Ritornano al loro giaciglio e si stendono ben separati l’uno dall’altra, come possono giacere due uomini, non come un uomo e una donna.
Così, un corpo è al fianco dell’altro, in inusitata estraneità. Inoltre, Tristano ha posto tra loro la spada snudata: egli giace da un lato, Isotta dall’altro, ognuno per proprio conto. E così si addormentano entrambi.
Il cacciatore di cui vi ho detto, è intanto giunto alla fonte e ha scoperto i segni sulla rugiada, là dove sono già passati Isotta e Tristano. Pensa allora si tratti della traccia del cervo. Scende da cavallo e s’incammina per il sentiero seguendo la pista segnata dai due amanti, fino alla porta della grotta.
Lì sono due chiavistelli, ed egli non può avanzare. Poiché la via gli è sbarrata, ne tenta un’altra, e fa un giro tutt’intorno finché trova per caso, in alto sulla grotta, una finestrella nascosta.
Vi guarda timoroso e furtivo, e subito scorge il corteo dell’amore: non altri che un uomo e una donna!
Li osserva con grande meraviglia e gli sembra che mai sia stata generata creatura più bella di quella donna. Ma vede ben presto la spada snudata e si ritrae spaurito e turbato, ché gli pare un segno prodigioso e infausto, e ne ha timore.
Così ridiscende la roccia e raggiunge i cani.
Ora, anche Marco è uscito a cavallo avanti agli altri cacciatori e lo incontra sul proprio cammino.
«Ascoltate, mio sire e signore – dice il cacciatore – ho notizie da darvi, ché poc’anzi vidi un raro prodigio».
«Dimmi dunque qual è la meraviglia».
«Una grotta dell’amore».
«Come e dove la trovasti?».
«Sire, in questa stessa selva».
«In questo luogo solitario e selvaggio?».
«Sì».
«Vi è alcun essere vivente?».
«Sì, sire. Vi sono un uomo e una dea. Giacciono addormentati su un giaciglio, quasi facessero a gara a dormire. L’uomo è come ogni altro, ma non so dire se la compagna che gli giace accanto sia un essere umano: è più amabile di una fata e sulla terra non può esservi nulla di più bello fatto di carne e ossa; e non so per quale ragione è posta fra loro una spada nuda e lucente».
«Conducimi là», gli ordina il re.
Il maestro di caccia guida Marco, e ripercorre il cammino attraverso la selva fino al luogo dove era sceso da cavallo. Il re smonta sull’erba e prende a salire il sentiero, mentre il cacciatore rimane ad attenderlo.
Ora Marco è giunto alla porta, passa oltre e supera la roccia, e con molti giri percorre la stretta gola secondo le indicazioni del cacciatore, finché scorge anch’egli la finestrella.
Guarda all’interno, per la sua gioia e il suo tormento, e li vede entrambi giacere sull’alto letto di cristallo, ancora addormentati. Li trova come li ha visti il cacciatore, ben discosti, uno da un lato e l’altra dalla parte opposta, e tra loro la spada snudata!
Riconosce la sposa e il nipote, e il cuore e il corpo gli si fanno di gelo per la pena, e anche per l’amore. Vederli giacere discosti gli dà gioia e dolore: gioia, intendo, ché spera siano innocenti; ma dolore perché non ne ha la certezza.
«Dio misericordioso – dice tra sé – che vorrà dire? se tra loro v’è stato quanto sospettavo un tempo, perché giacciono in quella guisa? La donna dovrebbe stare accanto all’uomo amato, stretta tra le sue braccia. Perché questi due amanti sono così coricati?».
Poi di nuovo dice tra sé: «Cosa vi si nasconde: colpa o innocenza?». Ed ecco che il dubbio ritorna: «Colpa?», chiede. «Sì, in verità!». «Colpa?», chiede. «No, invero!».
Marco oscilla così in questi pensieri finché, del tutto smarrito, riprende a dubitare dell’amore di entrambi. Allora giunge amore il conciliatore, ornato e agghindato con meravigliosa cura: sul bianco incarnato porta dipinta, nel colore più bello, la dorata e menzognera parola: «No». Tale parola brilla e risplende nel cuore del re.

L’altra sua pena, la sgradita parola «sì», Marco non la vede nemmeno; essa è del tutto sparita; non vi è più dubbio o sospetto. La doratura dell’amore, l’aurea innocenza, attira il suo sguardo e la sua mente con magica seduzione là ove giace la risurrezione di ogni sua gioia.
Non cessa di guardare Isotta, letizia del cuore, ché mai gli è parsa più bella! Io non so dire qual fatica, come ci narra e riferisce la storia, possa aver infiammato le guance di Isotta illuminandone l’incarnato, che irradiava verso l’uomo il suo allettante splendore con la dolce freschezza d’una rosa variegata. La bocca arde come fuoco e brace ardente. Sì, ora comprendo di qual fatica si tratti.
Come ho detto poc’anzi, Isotta aveva passeggiato al mattino sulla rugiada del prato, e da ciò le veniva l’ardente incarnato. E ora, un piccolo raggio di sole è penetrato furtivo e risplende sulla gota, sul mento e sulla bocca. Due splendori si uniscono così nel gioco, e una luce si fonde con un’altra luce: un sole e un altro sole hanno indetto una grande festa di gioia e fatto nozze tra loro per celebrare la gloria di Isotta.
Il mento, la bocca, l’incarnato e tutta la sua persona sono sì belli, amabili e seducenti che Marco ne è preso, e si strugge dal desiderio di baciarla. L’amore gli scaglia la propria fiamma e accende l’uomo della bellezza del corpo di lei.
L’avvenenza della donna attira i sensi a quel corpo e all’amore. Lo sguardo non sa distaccarsene, ed egli assorto contempla la bellezza della gola, del seno, delle braccia e delle mani che rifulgono fuori dalla veste.
Sul capo, Isotta ha una corona di trifoglio, senz’altro nastro, e al suo signore non è mai apparsa più leggiadra e seducente!
Ora, Marco nota che il sole che entra dalla roccia le risplende sul viso, e teme possa recarle male e danno; prende perciò erba, fronde e fiori, e ne chiude la finestra. Poi benedice la bella e prega Dio di proteggerla, e s’allontana piangente.
Ritorna dai cani, come uomo molto afflitto. Pone fine alla caccia e ordina ai cacciatori di tornare subito a casa coi cani; ma lo fa con l’intento che nessun altro si rechi laggiù e vi scorga i dormienti.

Appena il re si è allontanato, Tristano e Isotta si destano e si guadano attorno alla ricerca dei raggi del sole, ma la luce brilla da due sole finestre. Si volgono verso la terza, e hanno gran meraviglia che non dia alcuna luce.
Si levano insieme senza indugio ed escono sulla rupe, e subito trovano davanti alla finestrella l’erba, il fogliame e i fiori e scorgono sulla sabbia, davanti, sopra e sotto la grotta, le orme di un uomo.
Ne hanno grande spavento e timore, e subito pensano che Marco sia giunto in qualche modo e li abbia osservati; ne hanno solo il sospetto, ché non possono averne certezza. Tuttavia, la loro più salda fiducia è che, chiunque li abbia scoperti, li ha visti giacere ben discosti l’uno dall’altra.
Subito il re manda a chiamare a corte e nel paese i fidi e i parenti per ricercarne il consiglio, e riferisce in qual modo abbia trovato Isotta e Tristano, come io vi ho narrato poc’anzi; e pure afferma che mai più vorrà credere che essi abbiano commesso misfatto.
L’assemblea non tarda a comprendere in quale direzione si volgano la volontà e le parole del re, e come egli desideri riaverli a corte. Da uomini saggi qual sono, lo consigliano secondo la sua stessa inclinazione: richiami cioè la sposa e il nipote poiché non ha riconosciuto in loro cosa contraria all’onore, e non presti ulteriore ascolto ad altre insidiose dicerie.
Viene dunque convocato Governale, che ben conosce lo stato dei due esuli, perché sia inviato loro come ambasciatore. Così il re offre a Tristano e alla regina benevolenza e amore, e chiede loro di tornare, ché da parte sua non avranno da temere altro male.
Governale va, e riferisce agli amanti l’intento di Marco. Ed essi pensano sia una buona novella e se ne rallegrano di cuore, ma ne sono felici più per la grazia di Dio e per il loro onore, che per alcun’altra ragione.
Tornano così, su quello stesso cammino che hanno percorso, al prestigio e agli onori che già appartennero loro. Ma mai più, per tutta la vita, saranno intimi e uniti come in quel tempo, né troveranno occasione più favorevole ai loro amori.
(Goffredo di Strasburgo, Tristano)