Santillana – Le acque sorgenti dal profondo

Una tradizione del Borneo parla di un’«isola del gorgo» dove vi è un albero che permette a un uomo di arrampicarsi fino al cielo e riportare dalla «terra delle Pleiadi» utili semi.
I polinesiani non hanno, a quanto pare, le idee molto chiare circa l’ubicazione esatta del albero-cuccagnaloro gorgo, che nella maggioranza dei casi serve da ingresso alla dimora dei morti: lo si troverebbe «in fondo al cielo» e «al margine della Via Lattea».

Nel continente americano anche gli indios Cuna erano a conoscenza dello schema di base, pur non sapendo neanch’essi dare l’ubicazione comunemente accettata: «il gorgo personale di Dio», tiolele piria, si trovava proprio sotto l’albero Palluwalla, l’«Albero dell’Acqua Salata», e quando il Dio Sole, ovvero il Tapiro (un Quetzalcoatl lievemente camuffato) abbatté l’albero, ne sgorgò tanta acqua salata da formare gli oceani della terra.

Vi sono qui tre elementi che si combinano in un groviglio curioso: (a) il gorgo rappresenta, ovvero è, il collegamento primo fra il mondo dei vivi e il mondo dei morti; (b) vicino vi cresce un albero, spesso un albero che dà o salva la vita; (c) il vortice si è formato perché è stato abbattuto o sradicato un albero, oppure perché si è scardinato l’asse di un mulino, o simili.

Questo schema di base viene elaborato in molte varianti ed elementi diversi in molte parti del mondo, e fornisce un paradosso o un enigma estremamente reale: è come se le varie acque celate sotto l’albero, il pilastro o l’asse di mulino non aspettassero altro che il momento in cui qualcuno rimuove il tappo – albero, pilastro o asse di mulino – per giocare qualche tiro.

Non si tratta certo di una novità. Alfred Jeremias osserva en passant: «l’apertura dell’ombelico porta il diluvio. Quando Davide volle rimuovere la pietra ombelicale a Gerusalemme, rischiò di dare inizio a un diluvio. A Hierapolis di Siria veniva additata l’ara di Xisuthros [= Utnapištim] nella caverna dove si era prosciugato il diluvio».

Il motivo si rivela nella versione indonesiana dell’epopea di Râma.
Quando Râma costruisce l’enorme diga per collegare la terraferma con Lankâ (Ceylon), le scimmie che lo aiutano gettano in mare una montagna dopo l’altra, ma queste spariscono tutte all’istante. Furibondo, Râma sta per scagliare la sua freccia magica nel mare indocile, quand’ecco che dalle acque sorge un personaggio femminile e lo avverte che in quel punto dell’oceano c’è un buco che comunica col mondo infero: l’acqua di quel buco, gli dice, si chiama Acqua della Vita.

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Râma sembra averla spuntata con le sue minacce, dal momento che la diga venne poi costruita. Ma la stessa storia riappare in Grecia quando Eracle attraversa il mare per rubare il bestiame di Gerione.
Okéanos – che qui è rappresentato come un dio – leva a tumulto le acque, e sono le acque del diluvio originario; Eracle tende minaccioso l’arco e viene ristabilita la calma.

In questi casi non si parla né di gorgo né di confluenza, ma è chiaro che possiamo estenderli anche a questo contesto. Ciò conferisce un’importanza particolare a un racconto dei Catlo’ltq del Nordovest americano, paradigmatico della fanciulla che scaglia la sua freccia nell’«ombelico delle acque che era un vasto gorgo» e riesce così a ottenere il fuoco: dietro a questa storia deve celarsi un’idea decisamente fondamentale, e per giunta assai antica, se di Ištar si diceva che era «colei che sommuove l’Apsû davanti a Ea».

Strana occupazione per la regina del cielo, ma sembra si trattasse di un passatempo piuttosto celestiale. Nell’Avesta, quando si parla di Sirio-Tištrya, si dice di questo astro: «Adoriamo la stella Tištrya splendida e luminosa, che rapida vola al Lago Vourukaša come la freccia, veloce come il pensiero, che l’arciere Erexša, il miglior arciere degli arciere-senza-voltoAirya, scagliò dal monte Airyôxšutha al monte Xvanvant».
E che cosa fa Sirio a questo mare? «Fa sì che il lago ribolla su … che fermenti … che rifluisca: contro tutte le rive ribolle il Lago Vourukaša , tutto il centro ribolle e si gonfia» (Yašt, 8: 31).

Plinio invece vuole assicurarci che «il mare intero è consapevole del sorgere di questa stella, come si vede chiaramente soprattutto nei Dardanelli, ove appunto le alghe e i pesci vengono a galla e ogni cosa viene portata su dal fondo» (Storia Naturale, 9: 58).
Egli osserva inoltre che quando sorge il Cane celeste il vino nelle cantine si agita e le acque stagnanti si muovono (Storia Naturale, 2: 107).

L’Avesta spiega questo fatto (Yašt, 8: 41) affermando che è proprio Tištrya quello «a cui anelano le acque, quelle stagnanti e quelle correnti, quelle nelle fonti e nei fiumi, quelle nei canali e negli stagni».
Non si tratta però di un’invenzione iranica: il testo rituale del Capodanno babilonese si rivolge a Sirio chiamandolo «mulKAK.SI.DI che misura le profondità del Mare» (mul è il denominativo per «stella»); KAK.SI.DI significa «freccia», ed è proprio questa freccia quella che sta dietro alla maggior parte degli sconcertanti racconti di gesta con l’arco.

L’arco da cui viene scoccata è una costellazione, formata dalle stelle di Argo e del Cane Maggiore, comune alle sfere mesopotamica, egizia e cinese.
E dal momento che il nome Ištar appartiene a Sirio oltre che a Venere, è facile indovinare chi sia che «sommuove l’Apsû davanti a Ea» […]

Vi sono parecchie storie nel mondo in cui la rimozione di un tappo è la causa di un diluvio; presso gli agaria, tribù di fabbri dell’India centrale, è la rottura di un chiodo di ferro a causare l’allagamento della loro città dell’Età dell’Oro, Lohripur. Secondo i mongoli, la Stella Polare è un Pilastro dalla cui stabilità dipende la giusta rotazione del mondo, oppure una pietra che chiude un’apertura: se la pietra viene tolta, l’acqua fuoriesce dall’apertura per sommergere la terra.
Nel mito babilonese di Utnapištim, «Nergal [dio degli inferi] strappa via i pali; s’avanza Ninurta e fa far la stessa fine agli argini». Ma il fatto nuovo da affrontare ora è la comparsa nel diluvio dell’Arca, di Noè o d’altri.

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Sirio e Orione

La prima arca venne costruita da Utnapištim nel mito sumerico; per vie diverse apprendiamo che si trattava di un cubo di modeste dimensioni: 60 braccia per lato (ossia l’unità nel sistema sessagesimale, dove 60 si scrive 1).
In un’altra versione non abbiamo l’arca, ma solo una pietra cubica su cui poggia un pilastro che va dalla terra al cielo. La pietra, cubica o no, si trova sotto un cedro, o sotto una quercia, pronta a scatenare il diluvio senza alcun motivo apparente.

Tutto ciò confonde forse le idee, ma sembra fornire il nuovo tema.
Nelle leggende ebraiche, si dice che «da quando l’arca scomparve ci fu al posto sua una pietra […] che si chiamava pietra della fondazione» (Ginzberg). Si chiamava così «perché da essa venne fondato [o iniziato] il mondo».
E si dice che il mondo posi sulle Acque che stanno sotto il Santo dei Santi.
Potrebbe sembrare una sequenza onirica; invece, è un elemento che viene sostenuto da una tradizione assai concreta, accolta dagli ebrei, ma reperibile anche in ambiente ugrofinnico.
La storia ebraica continua così:

Quando Davide stava scavando le fondamenta del Tempio, venne trovato un coccio alla profondità di 1500 cubiti. Davide stava per tirarlo su, quando il coccio esclamò: «Non lo puoi fare!».
«Perché no?», chiese Davide.
«Perché io poggio sull’Abisso».
«Da quando?».
«Dall’ora in cui la voce di Dio venne udita proferire dal Sinai le parole: “Io sono il Signore Dio tuo”, facendo tremare e sprofondare il mondo nell’Abisso. Io giaccio qui per coprire l’Abisso».

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La «pietra di fondazione» del Tempio di Gerusalemme

Ciò nonostante, Davide sollevò il coccio, e le acque dell’Abisso salirono e minacciarono di inondare la terra.
Achitofel era accanto a lui e pensava: «Ora Davide troverà la morte e io sarò re».
Ma proprio allora, Davide disse: «Chiunque sappia fermare il corso delle acque e non lo fa, si strangolerà un giorno con le proprie mani».
Allora Achitofel fece incidere sul coccio il nome di Dio e lo fece gettare nell’Abisso. Subito le acque incominciarono a scemare, ma sprofondarono così in basso che Davide temette che la terra avrebbe perso la sua umidità e incominciò a cantare i quindici «Canti delle Ascese» per riportare su le acque.

La pietra di fondazione è qui divenuta un coccio e nella tradizione si chiama Eben Šetiyyah, nome che deriva da un verbo (ŠTH) con molti significati: «essere a posto, soddisfatto; bere; fissare l’ordito, porre le fondamenta»: tra questi, quello di «fissare l’ordito» è il più rivelatore, e ci ricorda la continua importanza delle «intelaiature».
All’interno di questa intelaiatura vi è un sollevarsi e un abbassarsi delle «acque di sotto» (come nel mito del Fedone) che suggerisce catastrofi mai registrate dalla storia, ma indicate solo dalla terminologia a forti tinte dei cosmologi. Se solo questi avessero conosciuto le sospensioni cardaniche, il mondo sarebbe forse stato concepito come più stabile.

Le ricerche di Hildegard Lewy sullo Eben Šetiyyah hanno portato alla luce un passo degli annali di Assurnazipal in cui il nuovo tempio di Ninurta a Kalhu è detto fondato a una profondità di 120 strati di mattoni, giù fino al «livello delle acque», ossia fino alla falda freatica. Questo si ricongiunge alle acque del profondo nel loro ambiente naturale, ma ciò che la gente vedeva in esse è cosa ben diversa.

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La pietra nera della Ka’ba

Se Davide e il re assiro scavarono fino a raggiungere l’acqua sotterranea, così fecero anche i costruttori della Ka’ba alla Mecca: all’interno di quel santissimo fra i santuari si trova un pozzo, sulla bocca del quale era stata posta, in tempi pre-islamici, la statua del dio Hubal.

Al-Bîrûnî ci informa che nel primo periodo islamico si trattava di un pozzo vero, dove i pellegrini potevano spegnere la sete, perlomeno ai tempo del pellegrinaggio arabo. La statua di Hubal aveva come scopo di impedire all’acqua di salire.
Stando alle leggende, la medesima credenza era un tempo diffusa a Gerusalemme, donde il sacro coccio. Hildegard Lewy sottolinea che nei tempi pre-islamici il dio Hubal era Saturno, e che la Pietra Sacra della Ka’ba aveva la stessa funzione: era infatti un cubo, e quindi in origine Saturno. Il poliedro che Keplero inscrisse nella sfera di Saturno non è che l’ultimo testimone di una tradizione antichissima.

Il piccolo, umile coccio venne introdotto da una pia leggenda nell’intento di dire che ciò che contava era la potenza del Santo Nome. Ma l’elemento vero era il cubo, vuoi come arca di Utnapištim, vuoi – in altre versioni – come pietra su cui poggia il pilastro che va dalla terra al cielo.
Persino Cristo viene paragonato a «una montagna cubica su cui viene eretta una torre» (cfr. la nona similitudine del Pastore di Erma).
Hocart scrive che «i singalesi ponevano spesso all’interno dei loro stûpa una pietra che rappresentava il centro del mondo, ne segue che essi ritenevano lo stûpa una rappresentazione del mondo». Osservazione scontata. Ma altrove si dice che questa pietra, la pietra di fondazione, sta sotto un grande albero, e che da sotto la pietra «sorse un’onda che arrivò fino al cielo».

Si direbbe un miscuglio di epoca tarda, privo di spiegazioni. Per estrarne i motivi originali, occorre analizzarli separatamente. Ma prima di ciò, è ormai opportuno fare un po’ di inventario.
Ci sono da raggruppare diverse figure.

La scimmia bruna madre di guai nell’idilliaca creazione di Sigu ci è familiare in numerosi travestimenti: è il serpente dell’Eden, il dissidente solitario; è Loki che persuade il vischio a non piangere sulla morte di Baldr, infrangendo l’unanimità delle creature.
Sigu stesso, benevolo re dell’Età dell’Oro, è una figura innegabilmente saturnina, che vive tra le sue creature, così come lo è Yahweh, perlomeno quando ancora «camminava con Adamo nel giardino».
Un sovrano «dalle buone intenzioni» è un personaggio saturnino.

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L’arco celeste cinese

Saturno fu il solo a vivere in mezzo agli uomini, e un frammento orfico dice: «Orfeo ci ricorda che Saturno dimorò apertamente sulla terra e tra gli uomini».
Dionigi di Alicarnasso (I, 36: 1) scrive: «Così, prima del regno di Zeus, Kronos regnò su questa stessa terra», e Maximilian Mayer nota in tono incisivo: «Non troviamo da nessuna parte riferimenti ad analoghi soggiorni terrestri di Zeus».
Similmente, Sandman Holmberg dichiara a proposito di Ptah, il Saturno egizio: «L’idea che Ptah fosse un sovrano terrestre ricompare frequentemente nei testi egizi», e sottolinea «il fatto degno di nota che Ptah sia l’unico dio egizio ad essere rappresentato con il pizzo reale diritto anziché piegato ad angolo».

A Roma, non diversamente dal Messico, i saturnalia, con le loro amnistie generali, i padroni che servivano gli schiavi e così via, commemoravano proprio questo aspetto del regno di Saturno, anche se Saturno non veniva sempre nominato direttamente.
In Cina, in occasione di questa festa, secondo Flamsteed, «si teneva un banchetto in cui tutte le distinzioni gerarchiche venivano messe da parte […] Il Sovrano invitava i sudditi con il “Canto dei Cervi”».

(Santillana-von Dechend, Il mulino di Amleto)