Heidegger – Il demonico secondo i Greci

Se rendiamo δαιμόνιος con «demonico» (dämonisch), effettivamente non ci stacchiamo dalla parola e in apparenza non traduciamo affatto, ma in verità stiamo «traducendo» demoni-maligninella misura in cui «traduciamo» il δαιμόνιον greco in una rappresentazione indeterminata e confusa del «demonico».
Per noi i «demoni» sono gli «spiriti maligni», in termini cristiani «il diavolo» e i suoi soci. «Demonia» sta allora per «diavoleria», nel qual caso o, in termini cristiani, si crede al diavolo e lo si ammette, oppure, nel senso sbiadito di una moralità illuminata, si intende il «diabolico» come quel «male» che si scontra con i princìpi di un buon cittadino.
Con questa concezione del «demonico» non coglieremo mai l’essenza e la portata essenziale del δαιμόνιον greco. E dunque se vogliamo tentare di avvicinarci all’ambito essenziale del «demonico» esperito in modo greco, dobbiamo impegnarci in una meditazione […].

Aristotele, allievo di Platone, rammenta una volta nell’Etica Nicomachea la concezione fondamentale che, nella grecità, determina sempre l’idea che ci si fa circa l’essenza dei pensatori: καί περιττά μέν καί θαυμαστά καί χαλεπά καί δαιμόνια εἰδέναι αὐτούς φάσιν, ἄχρηστα δ’, ὄτι οὐ τά ἀνθρώμινα ἀγαθά ζητοῦσιν (VI, 7, 1141b 6 ss.): «Si dice che (i pensatori) sanno sì ciò che è eccezionale, meraviglioso e difficile, dunque in genere demonico, ma anche che queste cose sono cose inutilizzabili, poiché essi non cercano ciò che secondo l’opinione umana appare immediatamente buono e utile per l’uomo».

Già la grecità, a cui siamo debitori dell’essenza e del nome della «filosofia» e dei filosofi, sapeva assai bene che i pensatori mancano di «concretezza».
Sennonché, da tale mancanza di «concretezza» i Greci hanno inferito che proprio per questo i pensatori sono i più necessari al bisogno essenziale degli uomini.
I tedeschi non sarebbero il popolo dei pensatori se i loro pensatori non fossero stati consapevoli a loro volta della stessa cosa. Nel 1812, nella Prefazione alla prima edizione della Logica, Hegel scrive: «… un popolo civile senza metafisica» è come «un tempio riccamente ornato, ma privo di santuario».

La frase di Aristotele citata dice che i pensatori conoscono δαιμόνια, ovvero il «demonico». Ma come possono «i filosofi», questi pacifici eccentrici dediti alle cose «astratte», conoscere «il demonico»?
pensatore-statuaLa parola δαιμόνια è detta qui come termine comprensivo di tutto ciò che, dal punto di vista dell’uomo comune, appare «eccezionale» e «meraviglioso», ma al tempo stesso «difficile».
Viceversa, ciò che per l’uomo rimane nel complesso privo di difficoltà è sempre il contingente, poiché in tal caso, passando da un ente all’altro, egli trova comunque una soluzione e una spiegazione.

I molti e i troppi perseguono soltanto l’ente contingente, che per essi costituisce il reale, se non addirittura «la realtà». Tuttavia, nella misura in cui nomina la «realtà», la moltitudine stessa dimostra di mirare, oltre che al reale contingente, anche a qualcosa che in effetti non scorge.
L’essenza dei πολλοί, dei molti, non consiste nel numero e nella massa, bensì nel modo in cui essi si comportano in rapporto all’ente. Ma se non mirano all’essere, i «molti» non possono in nessun caso avere a che fare con l’ente: vedono dunque l’essere eppure al tempo stesso non lo vedono.
Ora, appunto perché, pur mirando costantemente all’essere, non lo scorgono ma hanno a che fare soltanto con l’ente che calcolano e organizzano, i «molti» si orientano ovunque nell’ambito dell’ente, e vi si sentono «a casa» e «in patria». Entro i confini dell’ente, del reale, cioè dei tanto celebrati «dati di fatto», tutto rimane nell’ambito del solito.

Viceversa, dove l’essere viene scorto si annuncia il non-solito, l’eccezionale che balza via «oltre» il solito e che non è esplicabile tramite le spiegazioni basate sull’ente: l’in-solito, inteso qui in termini letterali e non nel senso corrente, secondo il quale significa piuttosto l’enorme e il mai esistito.
L’in-solito correttamente inteso non è infatti né enorme né minuscolo, poiché non può in alcun modo essere misurato col metro delle cosiddette «dimensioni». Ma l’in-solito non è nemmeno il mai esistito, bensì ciò che è essenzialmente presente già sempre e in anticipo rispetto a ogni possibile «mostruosità».
L’in-solito, infatti, inteso come l’essere che risplende all’interno di ogni solito (cioè all’interno dell’ente), e che nel suo risplendere spesso sfiora l’ente solo come l’ombra mela-farfallasilenziosa di una nube, non ha nulla di mostruoso o di rumoroso. L’in-solito è il semplice, l’inappariscente, l’inafferrabile per la tenaglia della volontà; ciò che si sottrae a tutti gli artifici del calcolo, poiché oltrepassa tutti i possibili progetti.

È per questo che lo schiudersi e velarsi essenzialmente presenti in ogni ente che si schiude, cioè l’essere stesso, è, per la pratica quotidiana dell’ente, anche ciò di cui l’esperire abituale deve meravigliarsi se in qualche modo scorge espressamente quell’essere a cui mira in maniera incessante.
Il meraviglioso è per i Greci il semplice, l’inappariscente, l’essere stesso.
Questo meraviglioso, che si mostra nella meraviglia, è l’in-solito, qualcosa che appartiene in modo talmente immediato al solito da non poter mai essere spiegato in base a esso.

Dopo questa delucidazione possiamo forse tradurre τὸ δαιμόνιον, «il demonico», con «l’in-solito».
Tuttavia, possiamo farlo soltanto se pensiamo l’in-solito – ovvero il non-solito e non spiegabile in base al solito – come la conseguenza essenziale del δαιμόνιον, se quindi teniamo per fermo che il δαιμόνιον non è il demonico perché è l’insolito, ma che al contrario il demonico è l’in-solito perché ha l’essenza del δαιμόνιον.
Quest’ultimo non è essenzialmente identico all’insolito in senso stretto, e certamente l’in-solito non è il fondamento essenziale del δαιμόνιον.
Che cos’è allora il δαιμόνιον come tale?

Possiamo chiamare «in-solito» il δαιμόνιον poiché e in quanto esso abbraccia sempre ciò che di volta in volta è solito, si manifesta in tutto ciò che è solito, senza tuttavia essere esso stesso il solito.
In rapporto al solito, l’in-solito così inteso non è l’eccezione, bensì «ciò che è più naturale», nel senso della «natura» pensata in modo greco, cioè della φύσις.
L’insolito è ciò da cui sorge ogni solito; ciò da cui ogni solito, perlopiù senza nemmeno presagirlo, dipende e in cui ricade.
Τό δαιμόνιον è l’essenza e il fondamento essenziale dell’in-solito. È ciò che si manifesta nel solito e che è essenzialmente presente in esso. Manifestarsi nel senso di ciò che mostra e indica, si dice in greco δαίω (δαίοντες – δαίμονες).

nave-farfalle

Questi non sono «demoni» da intendersi quali spiriti maligni che aleggiano qua e là, ma coloro che, non derivando mai dal solito, lo determinano in anticipo e fanno cenno e indicano al suo interno.
Τό δαιμόνιον: ciò che, indicando, si mostra nel solito e che quindi in un certo qual modo è anch’esso essenzialmente presente ovunque come il solito, senza nondimeno essere mai meramente qualcosa di solito. Per noi ultimi venuti, a cui rimane negata l’esperienza greca iniziale dell’essere, l’in-solito non può che essere l’eccezione, in linea di principio spiegabile, rispetto al solito, ed è per questo che poniamo l’insolito accanto al solito, ovviamo soltanto come il non-consueto.
Ci risulta difficile comprendere la fondamentale esperienza greca secondo cui, da un lato proprio il solito, e addirittura solo nella misura in cui esso è tale, è l’insolito, dall’altro l’insolito appare «soltanto» nella forma del solito, poiché l’in-solito fa cenno entro il solito ed è, in esso, ciò che fa cenno, essendo per così dire della stessa specie del solito come tale.

(Heidegger, Parmenide)