Se vuoi custodire un segreto, ma smani dalla voglia di confidarlo a qualcuno, non hai che da raccontarlo all’orecchio d’uno sciocco.
Non sappiamo chi conoscesse in tempi remoti le istruzioni per giungere al castello di Kerglas, e non ne avremmo saputo neanche l’esistenza se non fossero giunte per vie traverse fino all’orecchio di Peronnik l’idiota.
Il Racconto dice che le apprese solo di terza mano, che le venne a sapere da un cavaliere che a sua volta le aveva apprese da un eremita.
Peronnik era un umile pastore. Un giorno, mentre menava al pascolo il suo gregge, s’imbatté in un cavaliere ferito. Gravemente ferito: era in punto di morte. E fu per questo che volle aprirsi al pastore sconosciuto.
«Ho fatto – disse a Peronnik il cavaliere – tutto ciò che l’eremita mi aveva rivelato in punto di morte: così e così, precisamente come lui mi aveva detto. Ma non è valso a nulla, e ora … ora io a te quello stesso terribile segreto affido. Te l’affido, per togliermi un peso. Ché incontro alla morte, leggeri bisogna andare. Passo a te lo stesso testamento, più o meno, di cui l’eremita si sgravò nell’ora del trapasso. Non so dove ho fallito. So che l’eremita sapeva che avrei fallito, come io adesso so che anche tu fallirai …».
E qui s’interruppe, ché lo colse la morte.
Peronnik non era che un anonimo pastore. Menava al pascolo le pecore, e nulla sapeva di cavalieri e di castelli: era un sempliciotto, un buono a nulla. E di andarsi a cacciare in un vespaio, non ne voleva sapere.
Era così ingenuo Peronnik che niente al mondo poteva destare la sua curiosità. Nient’altro che le sue pecore gli interessavano, e le montagne, solo le montagne dove pascolava, gli stavano a cuore.
Il cavaliere però aveva parlato, farneticando in punto di morte, di un certo fiore che ride. Peronnik, là per là, non ci aveva fatto caso; anzi, se l’era proprio scordato questo «fiore che ride», ma quella notte stessa se lo sognò.
Sognò che il fiore rideva, e che ridendo gli diceva: «abbracciali tu questi miei bianchi petali! prendimi tu – pareva che gli dicesse – coglili tu che ignaro sei di perle e di tesori».
Al mattino i sogni a Peronnik l’ingenuo non andavano via, come invece succede a noialtri, ma si mischiavano ai ricci crespi della lana delle sue pecore, si confondevano col mormorio dei ruscelli, e danzavano assieme alle api e alle farfalle, languidamente scivolando sui fianchi blu delle montagne d’intorno, senza mai fermarsi, senza mai darsi pena, senza mai chiedersi se erano veri o falsi.
E perciò, lo volesse o no, il «fiore che ride», una volta che gli aveva riso in sogno, finì per diventare un chiodo fisso dei suoi pensieri.
E pensandolo e ripensandolo, a Peronnik tornò alla mente ciò che gli aveva confidato il cavaliere.
Gli aveva detto che il fiore che ride era spuntato ai piedi d’un melo, e che questo melo si trovava nel folto di un bosco, e che questo bosco lui, come prima di lui l’eremita, se l’era sognato.
Allora lo sciocco Peronnik comprese d’aver ricevuto un sogno in pegno dal cavaliere moribondo che, a sua volta, l’aveva avuto in eredità da un certo santo eremita.
Ma il cavaliere aveva anche detto: sta’ attento, ché a guardia del melo c’è un drago … e chiunque osi avvicinarsi al fiore che ride, il drago lo scaccia col suo pungiglione di fuoco!
Quello stesso pungiglione, quella stessa notte, ferì in sogno Peronnik: stava sognando di avvicinarsi al melo, per cogliere finalmente il fiore, quando all’improvviso sentì il pungiglione entrargli in un costato, crudele, indifferente, letale.
Il fiore però continuava a ridere, e ridendo illuminava il pascolo alle pecore di cui Peronnik, giorno dopo giorno, si stava quasi scordando:
«Non temere – ridendo il fiore sembrò dirgli – no, smarrite non saranno che le pecore che da me pascoleranno troppo remote».
Il fiore illuminava ancora il suo sogno, e i fianchi blu delle montagne d’intorno, il mattino che Peronnik a occhi desti sognò di coglierlo ai piedi del melo. Staccò dall’albero un ramo, e sulla punta del ramo sognò che rideva un fiore: il suo fiore!
Il cavaliere però aveva detto: a contenderlo c’è un leone spaventoso, ahi ricordo ancora la sua criniera di vipere! e c’è un lago di fuoco, nelle cui acque dimora un drago spaventoso. Quando l’avrai ucciso, ti toccherà combattere contro l’uomo nero. Ricorda – gli aveva detto il cavaliere. – L’uomo nero è armato di una palla che, una volta colpito il bersaglio, torna da sola al suo padrone.
Quando l’avrai vinto, infine entrerai nella valle dei piaceri. Là scorre un fiume: lo devi attraversare! Ma ricorda: c’è un solo punto in cui il fiume può essere guadato: là dove incontrerai una dama vestita di nero ad attenderti: te la devi caricare in spalla e portarla dove lei ti dirà.
Peronnik era solo un pastore. Solo uno sciocco. Il cavaliere moribondo, c’è da scommettere, se l’era sognato. Così come s’era sognato anche il puledro nero che ogni sera montava per addormentarsi.
Non Peronnik, ma il suo puledro conosceva i sentieri dei sogni, e perciò conosceva anche la porta d’accesso segreta al castello di Kerglas. Sicché, quella notte, appena Peronnik chiuse gli occhi: «montami in groppa – gli nitrì il cavallo – che ti ci porto in un baleno!».
E via in volo, un attimo dopo – ecco, Peronnik è giunto ai piedi del melo. Colta una mela, si mette in cerca del fiore che ride.
Ed ecco, il leone dalla criniera di vipere lo vede e ruggisce!
Ma Peronnik ha con sé un sacco: «Guarda quante allodole porto qui dentro!», dice al leone, e appena il leone infila la testa nel sacco, gli stringe il cordone intorno al collo.
Colto il fiore, si dirige al lago e al drago dalla lingua di fuoco dà da mangiare la corona del rosario che tiene sempre con sé – è l’unico ricordo che gli resta di sua madre. Il drago, appena la divora, stramazza al suolo e muore.
Finalmente sull’altra riva, ecco farsi avanti, minaccioso, l’uomo nero pronto al combattimento. Ma Peronnik si mette a salmodiare le sacre litanie, sicché a poco a poco l’uomo nero si addormenta con tutt’e sei gli occhi che aveva.
Via libera: Peronnik può così entrare nella valle dei piaceri. Si ritrova allora in un giardino pieno di fiori, di frutti e di fontane, dalle fontane sgorgano vini e liquori, i fiori cantano come i cherubini del paradiso, ci sono mense imbandite e soprattutto fanciulle bellissime che uscite dal bagno danzano sull’erba e seducenti l’invitano a fermarsi con loro.
Ma Peronnik va avanti. Ora vede davanti a sé, oltre quel giardino, il castello di Kerglas: gli resta solo da guadare il fiume nell’unico punto guadabile. Ma il suo puledro sa la strada e lo porta là dove ad attendere c’è la Dama nera.
Memore delle istruzioni del cavaliere, Peronnik se la carica sulle spalle e le domanda dove vuole essere portata, ché lui è giunto fin lì apposta per soddisfare i suoi desideri.
Allora la Dama Nera gli disse: «O mio buon reggitore, sappi che io sono la Peste e, come te, sono diretta al castello. Come te, vado al castello a portare la morte. Uniamo dunque le nostre forze nel segno di una stessa causa. Tutt’e due vogliamo la morte di Rogéar, lo stregone che ha preso possesso del castello».
«Sì, mia Signora – rispose Peronnik. – Ma, dimmi, io che cosa devo fare?».
«Hai ancora con te la mela che hai preso dall’albero? Non hai che da fare in modo che lo stregone la morda: anche un solo morso basterà, perché quell’albero da cui l’hai colta è venuto su da un virgulto dell’Albero del Bene e del Male, piantato nel Paradiso Terrestre da Dio in persona, e il suo frutto, come quello che fu mangiato da Adamo ed Eva, trasforma gli esseri immortali in esseri soggetti a morire».
Ed è quello che Peronnik fece. E senza nessuna fatica. Famelico qual era, fu infatti lo stregone stesso a strappargli la mela di mano per addentarla avidamente. Nel giro di pochi minuti, giaceva a terra nella requie eterna. La sua tirannia sul castello di Kerglas era dunque finita.
Non era finito però il sogno di Peronnik. Peronnik era un pastore, solo un pastore sciocco che, mentre menava al pascolo le pecore, a occhi aperti stava sognando un castello di sogni. Un castello sorto sopra le rovine di quello che un tempo era stato l’eremo di un santo a noi tutti sconosciuto. Peronnik era un pastore, solo un pastore sciocco – ma solo lui, a quanto pare, ebbe modo di conoscere quel santo eremita.
Qual è il segreto di questo castello? – si domandò più e più volte Peronnik. Peronnik presentiva d’essere vicino alla sua scoperta, ma non aveva nessun’idea da che parte dovesse andare a scovarlo.
Fu, a quel punto, il fiore – sì, fu il fiore che ride – a quel punto a dire ridendo: «là dove mi senti ridere, là è la via».
E così, ridendo, il fiore gli aprì la porta che dava nel sotterraneo. E qui, nella camera più segreta, che doveva essere stata un tempo la cella del santo eremita, Peronnik trovò una coppa e una lancia.
Ed ecco, appena le impugnò, Peronnik si ritrovò per incanto sui fianchi blu delle sue amate montagne, di nuovo a menare al pascolo per le valli le sue amiche greggi, di nuovo a confondere i sogni con gli sciami di farfalle danzanti, alla luce del sole, da un fiore all’altro.
So bene che altri raccontano ben altro epilogo a questa favola. So che c’è chi dice che quella coppa e quella lancia evocano il segreto del santo Graal. E chi, da amante della Storia più che delle leggende, preferisce credere che Peronnik sia entrato da quel giorno al servizio del re di Bretagna, e che in qualità di cavaliere l’avrebbe aiutato a sconfiggere i francesi.
So che qualcuno, non pago, ha messo in giro la voce che Peronnik un bel dì è partito per la Terra Santa, che ha sconfitto i Saraceni, costringendo il loro re a prendere il battesimo e sposandone la figlia, dalla quale avrebbe avuto cento figli, a ognuno dei quali avrebbe regalato un regno.
Lo so, lo so, lo so.
Alcuni dicono persino che Peronnik non è morto, che lui e i suoi figli vivono ancora, grazie alla coppa d’oro, e che regnano ciascuno nel suo paese.
Ma cosa vuoi? ho sentito dire pure il contrario.
Ho sentito dire che, in mancanza di altri idioti capaci della stessa idiozia di Peronnik, i due talismani, la coppa e la lancia, sono ricaduti in mano a Bryak, fratello di Rogéar, e come lui potente stregone.