Ora, al tempo in cui Gesù Cristo fu crocifisso, Tiberio Cesare reggeva l’impero di Roma, e lo tenne ancora per dieci anni. Dopo venne Gaio, suo figlio, che visse sette anni. Poi Claudio, che regnò quattordici; poi Tito. Al terzo anno del regno di Tito, suo figlio Vespasiano si ammalò di una lebbra così ammorbante che perfino coloro che l’amavano di più, non potevano sopportarne l’odore, e fu posto in cima a una camera di pietra dove il cibo gli veniva fatto passare attraverso una finestrella.
Il padre ne aveva grande duolo e promise di accordare a colui che avesse guarito Vespasiano tutto quello che avrebbe desiderato.
Così andò da lui un cavaliere di Cafarnao, che era stato in Giudea al tempo in cui Nostro Signore era ancora in questo mondo. E disse all’imperatore: «Sire, anch’io sono stato malato in gioventù, ma allora, oltremare, in terra di Giudea, c’era un uomo che chiamavano il buon profeta, e che faceva camminare gli infermi e riaccendeva gli occhi dei ciechi».
Quando l’Imperatore ebbe inteso ciò, inviò lettere sigillate al balivo di Giudea, che allora era Felice, e costui fece bandire per tutto il paese che, se c’era qualcuno che avesse un oggetto toccato da Gesù, lo portasse.
Una vecchia, di nome Veronica, si presentò a lui.
«Signore – ella disse – il giorno in cui conducevano al supplizio il santo Profeta, mentre gli passavo vicino portando un pezzo di tela, egli mi pregò di asciugargli il viso che grondava sudore, e io gli avvolsi il capo nella mia tela e glielo asciugai. E quando, più tardi, guardai quella tela, vidi che vi era rimasto impresso il suo volto».
Ciò dicendo, ella gli consegnò il drappo, e Felice s’accorse che il viso di Gesù Cristo si vedeva sì nettamente come fosse stato appena dipinto.
«Molte grazie, dolce signora», disse alla vecchia.
E senza indugio inviò a Roma la tela che l’Imperatore ricevette con molto piacere. Quando Tito l’ebbe tra le mani, s’inchinò tre volte, suo malgrado, del che tutti i presenti si stupirono; poi la portò nella camera in cui era murato il figlio.
E appena Vespasiano ebbe visto il sembiante di Nostro Signore, che più tardi fu chiamato la Veronica, si trovò sano di corpo come se non fosse stato mai sofferente.
Allora partì per la Giudea dove fece uccidere tanti Giudei che non ne saprei il numero. Quando la moglie di Giuseppe d’Arimatea lo seppe, andò a raccontargli come era scomparso il marito. Ma Vespasiano aveva un bel bruciare i Giudei, costoro non volevano dire nulla.
Alla fine, però, ve ne fu uno che confessò la verità e lo guidò davanti al pilastro. Il figlio dell’imperatore si fece calare egli stesso, mediante una corda, e trovò Giuseppe che, circondato dalla luce più grande del mondo, gli disse tranquillamente: «Tu sia benvenuto, Vespasiano!».
«Chi sei tu che mi chiami?».
«Sono Giuseppe d’Arimatea».
«E chi t’insegnò il mio nome?».
«Colui che sa ogni cosa. Colui che t’ha guarito. Se tu volessi, t’insegnerei a conoscerlo e a credere in lui».
Vespasiano acconsentì e Giuseppe gli raccontò come, al tempo dell’imperatore Cesare Augusto, avvenne che Dio inviasse il suo angelo a una pulzella che aveva nome Maria, alla quale annunciò che sarebbe rimasta incinta senza peccato del figlio di Dio; e come ella rispondesse: «Nostro Signore faccia di me la Sua volontà come della Sua serva!», e come, arrivata al termine, ella generasse un bel fanciullo che ebbe nome Gesù Cristo; e come egli fosse messo in croce e fosse risuscitato. Sì che Vespasiano fu convertito.
Così, uscito dal pilastro con Giuseppe, si mise a vendere Giudei a tutti coloro che ne vollero in ragione di trenta per un denaro.
E tutti vedendo Giuseppe vivo, e più giovane nel corpo che nel giorno della sua reclusione, trent’anni prima, se ne meravigliarono; ed egli si stupiva del loro stupore, ché gli sembrava che la prigionia non fosse durata che dal venerdì alla domenica.
La moglie accorse per abbracciarlo; egli la guardò con curiosità perché la trovava davvero molto mutata.
La notte intese una voce che gli ordinava di farsi battezzare, di partire poi con la moglie, i figli e tutti i parenti, senza prendere né oro, né argento, né calzatura, né nient’altro al di fuori della santa scodella.
E infatti, l’indomani, mandò a chiamare i suoi e li convertì. Poi, portando il vaso molto prezioso in un’arca che aveva ordinato di costruire, se ne andò con essi verso terre lontane che convertì a Gesù Cristo.
(Merlino l’incantatore, 25)