Aiguesmortes – Muoiono sempre gli stessi

Non è toccato solo a me!
Anche Teseo, a un certo punto, ebbe a domandarsi: ma da questo labirinto come si esce?
Poteva disperare: ora che aveva «ucciso» il Toro di Minosse, nel labirinto (del suo minotauro-centro«eroismo») non c’era più niente e nessuno a cui appigliarsi – se non, forse, l’illusione che «dall’altra parte» del filo ci fosse Arianna a tifare per lui.
Per tutti è così. Giasone ha bisogno di Medea, e Ulisse di Nausica, e Dante di Beatrice: perché nessuno può sbrogliare la matassa della propria mente, se «di là» non c’è ancora Lei, la sua Immagine narcisistica, a stringere nelle mani il capo del filo.
Nessun viandante viene via dal Nulla e dalla Morte che ha incontrato nel cuore del Labirinto, nessuno per altra via che quella a lui aperta dal miraggio del suo proprio «idolo». Del «gioiello» che ebbe in cambio del Niente. Del «corallo» al posto del sirih. Del «rocchetto» in luogo della Mamma.

Lo vedi? – pure un «tedesco» come Heidegger, proprio mentre celebra le «nozze» di Niente e Angoscia, pure lui deve (onestamente) riconoscere che c’è un’altra «disposizione originaria» che può aprirci la mente: la Gioia!
Va beh, poi se ne scorda e parla solo di Angoscia. Ma che ci vuoi fare? è «tedesco»! e dacché «l’oro dei Nibelunghi» fu gettato in fondo al Reno, come tutti i tedeschi, di Gioia deve lasciar parlare noialtri mediterranei – noi che, come lui, abbiamo visto il Gioiello ma che, a differenza di lui, abbiamo una Lingua che sa parlare di madreperle e di coralli – tanto e tanto assai, quanto poco e male sa parlare di Angoscia.
Una Lingua che non sa «filosofeggiare». Una Lingua che da sempre è solo Teatrale. E il comma primo del suo Teatro è che il Niente non annichilisce Nessuno. Che tutta intera una trilogia, tragica quanto vuoi, è buona solo a metterci addosso la voglia, e che voglia!, di vivere il nostro «dramma satiresco».

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Annibale Caracci – Il trionfo di Bacco e Arianna

Cosa dice Hillman? Dice che i «nordici» se la devono sbrogliare con la loro psicopatologia – e che questa «infamia clinica» che, tutto sommato, è la Pazzia, deve ricadere necessariamente sulla Lingua che ha messo al bando la Pazziella. La Lingua li deve angosciare per ricondurli all’«esperienza» che li ha «stuprati». Ma poi finisce che li «angoscia» per tre tragiche Tragedie di seguito, l’una più o meno wagneriana dell’altra, senza però mai finirle in Commedia.
Lasciandole «là» a disperare – eroicamente, come Nietzsche, a sbeffeggiare la Speranza, l’Illusione, e il Gioco, anche se è a un gioco che sta giocando: al gioco dell’Artista, una volta distrutto il quale … cosa più gli resta?

Torniamo tutti, come dice Kafka, da una «esperienza particolare». Veniamo tutti di là – da una «morte apparente». Che ci ha fatto scendere di botto dalle nuvole, che ci ha precipitati giù dal Sinai – e se qualcosa in quella «esperienza» apprendemmo, se un nonnulla ci apparve, fu la materia prima e, insieme, tutta l’Arte della nostra umanità.
Fu un «dono» quella Apparizione. E pure un «furto», se visto da tutt’altra angolazione. Fu in tutti i casi una conoscenza, tutt’intera fu una sapienza, quella sì davvero «ermetica»: in un vaso ben chiuso fu invasato il «segreto» di quell’incontro, fu sigillata la luce nera di quell’ultima «non artificiosa» Evidenza.

A tutti noi, in illo tempore, è apparsa evidente – non la Morte – ma una sua morte. E, dice Kafka, c’è chi è stato pietrificato dai suoi occhi di Medusa, e chi invece, come Mosè, s’è sirih-pinangcosì animato da schizzare via, a precipizio, giù da quel «faccia a faccia». Via da quell’addio in cui dio gli aveva parlato, e il guaio era che aveva parlato solo a lui.
Che spavento! E che terrore, e che tremore – che voglia di gettarsi – per una qualunque via di fuga – giù, nella vita, qualunque essa fosse stata!

Quella «morte», quella «nullità», quell’«assenza» (di tutto!), non è che in tedesco la Morte, e solo in tedesco è il Niente.
In fiorentino è la Madonna dell’ultimo di paradiso, è il Candore della Rosa, del bianco che bianco secerne trasmutandosi in bagliori e intuizioni – in icone gioiose della Gioia che la Regina dispensa in vece del Nada-nada divino. In fiorentino è quella Regina nel cui Trono di Luce si riassorbe la stella di Beatrice: il Tesoro, se mai è «affondato», è giù nel fondo della nostra mente, e solo chi si lascia guidare dal suo «gioiello» ritrova lo Scrigno da cui proviene la sua «esperienza» più oscura e indecifrabile.

E in napoletano?
In napoletano è già tanto, se è il segreto di Pulcinella – se fuori dall’antro, qualcuno si è cimentato a tradurre gli echi della Sibilla, di meglio non ha trovato che la metafora di un «sapere ben custodito» soltanto nella parola che si lascia andare alla Pazziella.
Custodito, per es., in questa (stolta e insensata) battuta di Totò: là dove dice, e con che espressione di meraviglia, che «muoiono sempre gli stessi»!

Forse toccherà a un francese come Lévi-Strauss venire a capo del suo scioglilingua. Forse l’ha già fatto, e noi dobbiamo ancora accorgercene. Forse Lévi-Strauss ha già detto che «i morti sono i bambini».
Sempre gli stessi. Circoncisi, mutilati, guastati e castrati fino a essere «distrutti» da quello Stupratore d’innocenza la cui «parte», nei teatri dell’immaginario mediterraneo, spetta a un bruto come Polifemo.
Tutti i bambini muoiono durante la Grande Migrazione. Muoiono nel trapasso dal Grembo di Semele al Polpaccio di Zeus. Durante la Traduzione dalla loro Via Lattea linguistica al Grande Carro di una Lingua «umana».

Siamo tutti «morti». Non è toccato solo a me! ma è allo Stesso che, ogni volta, in ogni bambino, tocca morire per rinascere «umano». È l’identità dello Stesso solo a Se Stesso, che ogni volta deve «sacrificarsi» alla sua violazione metaforica. Sono morti, dunque, e moriranno sempre gli Stessi.
Morti di freddo o di paura (nella Caverna). Morti perché nati «precoci». Morti perché troppo «acerbi» per l’immortalità. Morti perché, dunque, in anticipo sul loro Sogno. Morti però così bene, che dopo, quando il Sogno è svanito, gli è rimasta soltanto la voglia di pazziare. Come Dioniso: dopo tre tragedie, basta e avanza per passare, fosse anche solo di straforo a quest’altra vita. A questa Commedia. A questo Baccanale. A questa Gioia che nessuna Morte ha ancora saputo «annientare».
Il segreto è che Pulcinella ride per niente. Ha imparato, dallo Stupratore, a stuprare ridendo anche la più nobile delle sue angosce.

(Aiguesmortes, Udite! Udite!)