Brosse – Phoenix, la palma da datteri

In greco Phoenix non significa solo fenicio, ma anche porpora (la porpora reale) e indica nello stesso tempo anche la palma da datteri e la fenice.
Questo uccello leggendario aveva una funzione di capitale importanza nella mitologia palma-Phoenix-Dactyliferagreca delle piante aromatiche: «Dispone della mirra e dell’incenso, se ne serve per costruirsi il nido, arriva perfino a trasportarli (nel becco), prima di consumarsi nel rogo che ha alzato ammucchiando le sostanze profumate d’ogni specie», e sul quale si brucia prima di rinascere da se stesso per un nuovo ciclo di millequattrocentosessantuno anni, periodo che corrisponde alla «concomitanza tra la levata eliaca di Sirio (Sothis) da un lato e l’apparire del sole e l’inizio della piena del Nilo dall’altro» (Detienne, I giardini di Adone).

Si trattava del ritorno del Grande Anno, ossia della rinascita, della rigenerazione ciclica del cosmo.
Rappresentato dall’airone purpureo – abbiamo appena visto che Phoenix in greco significa anche porpora – la fenice egizia o uccello Bennou era associato a Eliopoli, città solare per eccellenza.
«È però possibile che questa città del Sole non fosse originariamente quella egizia, ma la Terra solare primordiale, la Siria di Omero» (Dizionario dei simboli: voce «fenice»), il che ci riconduce alla fin fine alla costa siriana, cioè alla Fenicia.

Di tutto ciò che designava la parola greca Phoenix, solo la palma da datteri (Phoenix dactilifera) ha conservato oggi questo nome. In Mesopotamia, i Sumeri la coltivavano cinque o seimila anni fa; molto probabilmente è il primo albero da frutta piantato, curato e selezionato dall’uomo.
La coltura della palma si è diffusa intorno al bacino mediterraneo, e soprattutto nel Nordafrica, dove è diventata la provvidenza delle oasi, ma la densità maggiore l’ha raggiunta nelle valli del Tigri e dell’Eufrate, con i trenta milioni di esemplari – cioè un terzo del totale di tutto il mondo – attualmente piantati in Iraq.

La palma da datteri sembra all’origine dell’iconografia dell’albero della vita fin dall’epoca sumera, quando già costituiva una risorsa di primaria importanza. In Medio Oriente come in Nordafrica, il dattero è un alimento dai molteplici impieghi. Se ne può datteri-palmaricavare un succo molto dolce, il «miele di datteri», e farne una specie di pane; secondo Plinio, nell’antichità si sarebbe perfino prodotto un vino di datteri.
Estremamente nutriente, il dattero ha un valore energetico più alto di qualsiasi altro frutto. A seconda delle varietà, la maturazione è scaglionata da luglio-agosto a novembre-dicembre, e i datteri detti duri si possono conservare senza nessuna preparazione fino a due tre anni dopo la raccolta.

Un palmeto ben curato arriva alla piena produzione dodici quindici anni dopo l’impianto, e può dar frutti per sessanta ottant’anni. Ogni esemplare fornisce una media di venti cinquanta chili di raccolto e a volte, in condizioni ottimali, perfino cento e addirittura duecento chili.
Nelle regioni desertiche, per esempio nelle oasi del Sahara, il dattero costituisce un alimento base che non è mai stato sostituito. I benefici della palma da datteri, che si diceva fossero trecentosessanta quanti sono i giorni dell’anno perché i suoi frutti si possono consumare in ogni stagione, erano celebrati nei canti sacri; Strabone cita un inno persiano in suo onore, e Plutarco uno babilonese.

Per gli antichi, sensibili anche al fatto che rinascesse da sola, la palma da datteri non rappresentava soltanto un modello di fecondità. La sua riproduzione si otteneva infatti, e ancora si ottiene, anziché con semi, con le talee dei ricacci che spuntano ai piedi dello stipite. Per questo veniva paragonata alla fenice.
A questo proposito Plinio scrive: «[di palme da dattero] ne esiste, dicono, un solo albero nella regione di Cora (nei pressi di Alessandria d’Egitto). Su di esso si sente raccontare un particolare prodigioso, cioè che morirebbe e rinascerebbe spontaneamente insieme con la fenice, l’uccello che si ritiene tragga il nome dal comportamento di questa palma».

Dato che il ciclo della fenice è di millequattrocentosessantuno anni, si pensava che la palma da datteri vivesse molto a lungo.
Al tempo di Plinio, a Delo veniva ancora mostrata la palma che era servita da riparo alla nascita di Apollo. Gli orfici consideravano la specie immortale, indenne da invecchiamento, e le tributavano grande venerazione.
Stupiva molto Greci e Romani un’altra delle sue caratteristiche: la sua sessualità.

palma-egiziaGli antichi sapevano benissimo che in questa specie esistono piante maschio e piante femmina, e che era necessario che queste ultime fossero debitamente fecondate per dare frutto.
«Si sostiene – scrive Plinio – che in un bosco di crescita naturale le palme femmine, prive di maschi, non procreano e che alcune ondeggiano in gran numero intorno a ogni singolo albero maschio, piegando su di lui le carezzevoli fronde. Quello, irto, drizza il suo fogliame e le feconda tutte; con le esalazioni, con la sua sola vista e anche con la sua polvere (il polline); se lo si taglia, le palme femmine, ridotte in vedove, diventano sterili. A tal punto si spinge il loro senso dell’accoppiamento, che l’uomo ha anche escogitato un sistema di fecondazione consistente nello spargere sulle femmine fiori, lanugine, talvolta perfino soltanto polvere di palme di sesso maschile» (Storia Naturale, 13: 35).

Questa fecondazione artificiale della palma da datteri fu praticata, pare, da quando se ne cominciò la coltura, quindi dalla più remota antichità, e non ha smesso di esser praticata, esattamente con la stessa modalità, fino ai nostri giorni.
È un’operazione scaglionata su parecchie settimane e che consiste nell’appendere rami di fiori maschio sopra le inflorescenze femmina. È diventata necessaria da quando si sono cominciati a impiantare palmeti in cui, per ragioni di produttività, il numero degli esemplari maschio è ridotto al minimo.

Quel che ci interessa qui è questa sessualità spettacolare e sovrabbondante che faceva tanta impressione agli antichi.
Quella «lussureggiante» di Adone gli era dunque stata trasmessa da colui che gli era stato a un tempo nonno e padre. Visto che Mirra, l’albero della mirra, era considerata la figlia di Phoenix, la palma, è lecito chiedersi se non convenga accostare la scena di seduzione della palma maschio da parte delle palme femmina che lo circondano, descrittaci da Plinio – il quale non inventa niente, ma si limita a riferire quanto era oggetto di credenza diffusa – all’incesto di Mirra, quale ci è riferito in altro luogo.
Le dodici notti di cui si parla corrispondono forse al tempo considerato necessario per la fecondazione degli alberi. Se, come ritenevano gli antichi, l’albero della mirra era una varietà della palma, non poteva essere fecondato se non dal proprio padre.

palma-deserto

La palma da datteri è sempre stata considerata un albero antropomorfo; in latino, il termine palma viene dal palmo (della mano) e non l’inverso, mentre in greco ha questo unico significato; quanto ai datteri, in greco come in latino sono le dita; e infine la palma possiede ciò che Plinio, sulla scorta di Teofrasto e Senofonte, chiama «cervello» e definisce «midollo dolce», il cavolo palmista, altrimenti detto «cuore» della palma, che si mangiava nell’antichità e che si continua a mangiare oggi.
Ma gli autori antichi attribuiscono alla palma un potere di rigenerazione che questa pianta non possiede. Affermano infatti che essa non deperisce quando le si toglie il «cervello», mentre in realtà muore.

Emblema di una fecondità miracolosa e inesauribile, la palma era considerata un simbolo fallico – si vedeva in lei un enorme fallo eretto e peloso – ma anche un vegetale nato dalla congiunzione del fuoco celeste e delle acque sotterranee.
Gli Arabi ritengono ancora che la palma viva con la testa «nel fuoco del cielo e i piedi nell’acqua», e uno dei primi scopi dell’irrigazione in Mesopotamia fu portare una quantità sufficiente di acqua ai piedi delle palme.

Nella mitologia greco-romana esisteva una dea palma di nome Leto o Latona, mentre la specie che produce i datteri non cresce né in Grecia né in Italia.
Si trattava di Lat, arcaica divinità orientale della fertilità, della palma e dell’ulivo, cosa che spiega come Leto, figlia di Titani come Dione, e come lei sedotta […], abbia messo al mondo Artemide (dea luna) e Apollo (dio sole) nell’isola di Ortigia, tra l’ulivo e la palma, entrambi di origine asiatica, «circondando la palma col braccio», dice Plinio (Storia Naturale, 16: 39).

Nella leggenda di Leto figura un episodio stranamente simile al conflitto che oppose Afrodite e Cencreide, madre di Mirra.
Niobe, esageratamente fiera dei sette figli e delle sette figlie che aveva avuto da Anfione, re di Tebe, si fece beffe di Leto che aveva solo due figli; ma la dea si vendicò facendo innamorare Tantalo, padre di Niobe, della propria figlia.
Respinto da questa, egli ne fece perire i figli mediante il fuoco. Poi Anfione fu dilaniato da un cinghiale selvatico.

(Brosse, Mitologia degli alberi)