Garcia Lorca – Il duende… il padrone si rapporta alla cosa in guisa mediata, attraverso il servo (Hegel)
Il padrone non gode della cosa, se non è un altro, il servo, a produrgliela. Il padrone vede, sente e percepisce la presenza solo delle cose che può sottrarre al servo. Il padrone pratica solo il furto, l’esproprio e il ladrocinio.
Il padrone è un mariuolo, punto e basta. Ruba il sudore e il sangue, succhia i sentimenti e il tempo agli altri. Gode né più né meno del Vampiro.
Ma che ci vuoi fare? lui non vede, non sente, non tocca, non gusta che ciò che riesce a rubare. Per lui, grazie a lui, tramite lui, «roba» e «rubare» finiscono per non poter più celare d’essere d’una stessa Radice.
Il padrone non va direttamente alla cosa – anzi non c’è cosa a cui egli possa andare, non c’è meta al suo tendere, non c’è oggetto al suo appetito che non sia «cosalizzato», investito del valore di «cosa», da un altro individuo che proprio a questo, solo a questo gli «serve» (e perciò è il suo Servo) – gli serve a dare vita alle «cose» che egli poi si compiacerà a scippargli.
Ecco in che cosa consiste il «godimento» del Padrone: non nell’utilizzo diretto della «cosa», ma nell’inculare (questo significa vivere alle spalle di) chi quella certa «cosa» la fa essere, la vede e la sente presente, casomai la fantastica o la realizza solo a parole.
Purché la dica, il Padrone gliela fotte in senso proprio e figurato.
… anche il servo, in quanto autocoscienza in generale, si riferisce negativamente alla cosa e la toglie (Hegel)
Neanche il Servo «gode» direttamente della cosa: il Servo la «produce», la «valorizza» e tuttavia la misconosce: dice che quella cosa vale di per sé, dice sì che l’uva è «bella», ma che non è il caso di coglierla: è solo una trappola da cui stare alla larga!
E così il Servo la produce, la «realizza», l’ammanta di «cosa reale», di «cosa che vale» (tant’è che lui ci ha sudato le proverbiali sette camicie), per poi «toglierla» dalle cose alla sua portata, passando – va da sé – attraverso il ben noto sentiero del digiuno e dell’astinenza ad altro «godimento», dite voi se più mistico o metafisico.
Il Servo serve a produrre la «cosa in sé», ma non per sé: la produce per l’altro (per dio, per la nazione, per il progresso della Specie).
Il Servo produce gli «oggetti di desiderio» di cui il Padrone (come? non lo riconosci? è sempre Gilgameš! sempre il Mitico Primo!) fa l’asso pigliatutto.
… con il suo negarla, non potrà mai distruggerla completamente; il servo può soltanto trasformarla con il suo lavoro (Hegel)
Che bella «dialettica» è questa!
Ci voleva un mattacchione come Lacan, un medico dei pazzi ci voleva come Totò – per aggiungere ai due, al Padrone e al Servo, il Terzo Occhio con annessi e connessi patafisici.
Ma andiamo per ordine (sic)!
Il Padrone continua a sottrarre la cosa al sudore del Servo che, dal canto suo, gliela serve su un piatto d’argento. Ma perché mai il Servo continua a servirgliela? – questa è la domanda. Perché non la «distrugge»? perché non cessa di «costruirla», di «darle realtà»? perché continua a stuzzicare il Padrone insistendo a fabbricargli sempre nuovi «cosi» da desiderare? che so? un mausoleo, un arco di trionfo o una piramide? Perché finge di non vedere quello che pure vede?
Già sui banchi di liceo mi veniva da rispondere come rispondo ancora oggi: perché è ricattato dalla Fame, dalla Paura della Morte. Il resto mi sembrano chiacchiere.
Ho detto Fame Paura Morte. Lo vedi come Hegel le «sintetizza»? dice che «in quanto autocoscienza in generale» il Servo appartiene alla stessa esperienza, alla stessa pratica, alla stessa vita del Padrone.
E tutto questo è – insieme – vero e falso.
È falso che la vita dell’uno sia «la stessa» dell’altro. È falso che la vita sia «la stessa cosa» della morte. O che la pancia piena e lo strafogo equivalga a un solo giorno di ramadan … eppure è tutto, simbolicamente, vero.
Il Simbolo accomuna in una sola «autocoscienza in generale» la coscienza che ciascuno ha della sua morte – della sua fame, della sua paura.
Il Simbolo inverte, capovolge, mette sottosopra il «reale». Lo distrugge perché ha provato il dolore del suo Mito distrutto. Lo nega – non lo rinnega, ma come dice Lacan, lo denega, se ne fuorvia, se ne distrae, prende un’altra strada, un’ipotetica via del «ritorno a casa», a una casa, perché no?, tra le stelle.
Il Simbolo è una rivincita, una rivalsa, una vendetta contro la Realtà – quella «reale» che vivemmo, divini incoscienti animali analfabeti, diciamo fino a diciotto mesi, e poi … poi il Calvario, il doloroso incontro con la Croce di luce, e la capriola linguistica che facemmo – chi se ne ricorda più dell’altro mondo?
Ma poi, dai, chi mai può aver sognato, per non dire farneticato, quest’altro mondo – chi se non il Servo che ciascuno, in fondo a se stesso, è?
Che dio mi perdoni se sto bestemmiando, ma noi – i suoi Servi – noi i suoi creatori, noi non lo possiamo così, per trenta denari, svenderlo, e tuttavia sappiamo che questo nostro «servizio» non serve a niente e a nessuno.
Vanità. Solo vanità è dato godere al Servo.
E al Padrone gli escrementi, i rifiuti, i lasciati perdere, gli astenuti, gli omissis, i «valeva la pena però» del Servo.
Mirabile dialettica, non c’è che dire!
Giocare a fare storia, sognando di rivalersi – vendicandosi l’uno dell’altro.
Complimenti, signor Uomo!
Sei dunque tutto questo?
Solo questo?
Insieme, padrone e servo di quella Fame che ti ha precipitato in questo inferno?
Hegel la chiama «autocoscienza». Allude a quel «prendere coscienza» di sé che ci accomuna «linguisticamente», che ci spinge tutti assieme, tutta la Specie, non tanto in una stessa direzione (anzi, a quanto pare, ognuno va per la sua strada), quanto piuttosto via da uno stesso «duende», da cui abbiamo tutti patito uno stesso Respingimento.
Via da uno stesso «nulla», da una stessa «morte» che, beninteso, non è per nessuno «la stessa» di un altro, se non per il fatto di poter per tutti essere significata da un segno, e non importa – non è necessario che sia lo stesso segno, ma che esso «funzioni» allo stesso scopo: sempre e comunque a un venir via, a un sottrarsi, dal proprio buco nero.
La via, che l’autocoscienza «schiude», è dunque per tutti «postuma»: dopo l’incontro con la Morte, e dunque a cominciare dalla sua sostituzione con un segno inverso: perlopiù – la Fanciulla.
La Morte dà Rabie e, insieme, Hainuwele.
Dà Demetra che piange Core e, infine, ride all’idea di una sua simbolica risurrezione.
È con la Morte che avviene il primo scambio simbolico: è per riempire il Nulla, il Vuoto lasciato aperto dall’incontro con la Morte – che ci si dà a vivere.
Da questo slancio a vivere «postumi» a se stessi – emergono le due Figure del Padrone e del Servo di Hegel.
Certo, le possiamo rintracciare sempre in una «storia». Ma la Storia non fa altro che riprodurre la dialettica umana, il modo umano di giocare al gioco delle permute con la Morte – e dunque le Grandi Figure del Teatro Umano, i Tipi più diffusi nella Specie.
Produce, a detta di Hegel, il motore della disuguaglianza produttiva.
Alla sua dialettica manca però una Terza Figura – quella che in qualche modo fa da perno, funge da punto di svolta, quella che cuce il Padrone nella piega del Servo – quella che trasmuta l’una nell’altra, quella che consente il transito dall’una all’altra.
Perché – se l’ho già detto, lo ripeto – Padrone e Servo sono in ciascuno di noi, due possibilità, due modi, due caratteri che si combattono e si contendono nella «autocoscienza» di ciascuno di noi – e l’uno può sempre, alle dovute condizioni, trapassare nell’altro: a turno facendo la parte ora di Esaù, ora di Giacobbe.
Ma proprio perché questa loro «dialettica» è viva e in movimento, bisogna che ci sia, oltre a questi due «mezzi», un Terzo Personaggio, oh sì certo: meno chiassoso, meno rumoroso, meno «storico» (almeno in apparenza) degli altri due, e tuttavia il loro necessario pendant.
Voglio però che a presentartelo sia Lacan. Infatti non ho scritto quello che ho scritto, se non per introdurmi in alcune delle pagine più ardite dei suoi scritti – quelle in cui parla del Triangolo della morte …