Freud – Lo strano gioco di un bambino

gioco-rocchetto

Le diverse teorie del gioco infantile […] cercano di scoprirne le ragioni, ma senza mettere in primo piano il punto di vista economico, e cioè senza considerare il piacere che il gioco procura.
Ora, senza voler abbracciare tutto il campo di questi fenomeni, ho sfruttato un’occasione che mi si è offerta per chiarire il significato del primo gioco che un bambino di un anno e mezzo si era inventato da sé. Si è trattato di qualcosa di più di una fuggevole osservazione, poiché sono vissuto per alcune settimane sotto lo stesso tetto del bambino e dei suoi genitori, ed è passato un certo tempo prima che riuscissi a scoprire il significato della misteriosa attività che egli ripeteva continuamente.

Lo sviluppo intellettuale del bambino non era affatto precoce; a un anno e mezzo sapeva pronunciare solo poche parole comprensibili e disponeva inoltre di parecchi suoni il cui significato veniva compreso dalle persone che vivevano intorno a lui. In ogni modo era in buoni rapporti con i genitori e con la loro unica domestica, ed era elogiato per il suo «buon» carattere.
Non disturbava i genitori di notte, ubbidiva coscienziosamente agli ordini di non toccare certi oggetti e non andare in certe stanze, e, soprattutto, non piangeva mai quando la mamma lo lasciava per alcune ore, sebbene fosse teneramente attaccato a questa madre che non solo lo aveva allattato di persona, ma lo aveva allevato e accudito senza alcun aiuto esterno.

Ora questo bravo bambino aveva l’abitudine – che talvolta disturbava le persone che lo circondavano – di scaraventare lontano da sé in un angolo della stanza, sotto un letto o altrove, tutti i piccoli oggetti di cui riusciva a impadronirsi, talché cercare i suoi giocattoli e raccoglierli era talvolta un’impresa tutt’altro che facile.
Nel fare questo emetteva un «o–o–o» forte e prolungato, accompagnato da un’espressione di interesse e soddisfazione; secondo il giudizio della madre, con il quale fort-daconcordo, questo suono non era un’interiezione, ma significava «fort» [«via»]. Finalmente mi accorsi che questo era un gioco, e che il bambino usava tutti i suoi giocattoli solo per giocare a «gettarli via».

Un giorno feci un’osservazione che confermò la mia ipotesi. Il bambino aveva un rocchetto di legno intorno a cui era avvolto del filo. Non gli venne mai in mente di tirarselo dietro per terra, per esempio, e di giocarci come se fosse una carrozza; tenendo il filo a cui era attaccato, gettava invece con grande abilità il rocchetto oltre la cortina del suo lettino in modo da farlo sparire, pronunciando al tempo stesso il suo espressivo «o–o–o»; poi tirava nuovamente il rocchetto fuori dal letto, e salutava la sua ricomparsa con un allegro «da» [«qui»].
Questo era dunque il gioco completo – sparizione e riapparizione – del quale era dato assistere di norma solo al primo atto, ripetuto instancabilmente come gioco a sé stante, anche se il piacere maggiore era legato indubbiamente al secondo atto.

L’interpretazione del gioco divenne dunque ovvia. Era in rapporto con il grande risultato di civiltà raggiunto dal bambino, e cioè con la rinuncia pulsionale (rinuncia al soddisfacimento pulsionale) che consisteva nel permettere senza proteste che la madre se ne andasse.
Il bambino si risarciva, per così dire, di questa rinuncia, inscenando l’atto stesso dello scomparire e del riapparire avvalendosi degli oggetti che riusciva a raggiungere.

È ovvio che per dare una valutazione del significato affettivo di questo gioco non ha importanza sapere se il bambino lo aveva inventato da sé o se esso gli era stato suggerito da altri. Il nostro interesse è diretto a un altro punto. È impossibile che l’andar via della madre riuscisse gradevole, o anche soltanto indifferente al bambino.
Come può dunque accordarsi col principio di piacere la ripetizione sotto forma di gioco di questa penosa esperienza?

Forse si risponderà che l’andarsene doveva essere necessariamente rappresentato, come bambino-nascondinocondizione che prelude alla piacevole ricomparsa, e che in quest’ultima risiedeva il vero scopo del gioco.
Ma questa interpretazione sarebbe contraddetta dall’osservazione che il primo atto, l’andarsene, era inscenato come gioco a sé stante, e anzi si verificava incomparabilmente più spesso che non la rappresentazione completa, con il suo piacevole finale.

L’analisi di un caso singolo come questo non permette di formulare un giudizio sicuro e definitivo; se si considera la cosa in modo imparziale, si ha l’impressione che il bambino avesse trasformato questa esperienza in un gioco per un altro motivo.
All’inizio era stato passivo, aveva subito l’esperienza; ora invece, ripetendo l’esperienza, che pure era stata spiacevole, sotto forma di gioco, il bambino assumeva una parte attiva.
Questi sforzi potrebbero essere ricondotti a una pulsione di appropriazione che si rende indipendente dal fatto che il ricordo in sé sia piacevole o meno.

Ma si può anche tentare un’interpretazione diversa. L’atto di gettare via l’oggetto, in modo da farlo sparire, potrebbe costituire il soddisfacimento di un impulso che il bambino ha represso nella vita reale, l’impulso di vendicarsi della madre che se n’è andata; in questo caso avrebbe il senso di una sfida: «Benissimo, vattene pure, non ho bisogno di te, sono io che ti mando via».

Questo stesso bambino che avevo osservato a un anno e mezzo intento nel suo primo gioco, l’anno dopo, quando era in collera con un giocattolo, usava gettarlo per terra esclamando: «Va’ in guella!». A quel tempo gli avevano raccontato che il papà assente era in guerra; il bambino non sentiva affatto la mancanza del padre, anzi dava chiaramente a vedere che non desiderava essere disturbato nel proprio possesso esclusivo della madre.
Sappiamo anche di altri bambini che amano esprimere simili impulsi ostili scaraventando lontano oggetti in luogo di persone. Ci sorge allora il dubbio se la spinta a elaborare psichicamente e a impadronirci appieno di un evento che ha suscitato in noi una forte impressione possa manifestarsi primariamente e indipendentemente dal principio di piacere.

A ben vedere, nel caso che stiamo discutendo, il bambino potrebbe ripetere nel gioco un’esperienza sgradevole solo perché a questa ripetizione è legato l’ottenimento di un piacere di tipo diverso, ma non meno diretto.
Neppure un ulteriore esame del gioco dei bambini ci aiuta a optare per una delle due ipotesi tra cui esitiamo. È chiaro che i bambini ripetono nel gioco tutto quello che nella vita reale ha suscitato in loro una forte impressione, è vero che così facendo abreagiscono la forza dell’impressione e diventano per così dire padroni della situazione.
Ma d’altro lato è evidente che tutto il loro giocare è influenzato da un desiderio che domina quest’epoca della loro vita: il desiderio di essere grandi e poter fare quello che fanno i grandi.

Si può anche osservare che il carattere spiacevole di un’esperienza non la rende sempre inservibile per il gioco. Se il dottore ha guardato in gola al bambino o se gli ha fatto una piccola operazione, possiamo essere certissimi che questa spaventosa esperienza sarà il tema del prossimo gioco; ma in questo caso non va trascurato che il bambino ottiene il piacere da un’altra fonte.
Passando dalla passività dell’esperire all’attività del giocare, egli fa subire l’esperienza sgradevole che gli era capitata a un compagno di giochi, e in tal modo attua la sua vendetta sulla persona di questo sostituto.

(Freud, Al di là del principio di piacere)