Laforgue – Sera di Carnevale

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Parigi è un baccanale di luci al gas. L’orologio come una campana
a morto suona un’ora. Cantate! Danzate! la vita è breve,
tutto è vano – e lassù, vedete, la Luna sogna
così fredda come ai tempi in cui l’Uomo non c’era.

Ah! che destino banale! Tutto luccica e poi passa,
adescandoci all’infinito col Vero e con l’Amore;
e noi andremo così, finché sarà il turno
che la terra scoppi nei cieli, senza lasciare traccia.

Dove risvegliare l’eco di tutti quei gridi, e quei pianti,
e quelle fanfare d’orgoglio che la Storia ci elenca:
Babilonia, Menfi, Benares, Tebe, Roma,
rovine su cui il vento semina oggi dei fiori?

E a me, quanti giorni restano da vivere?
E mi getto per terra, e grido, e fremo
davanti ai secoli d’oro per sempre addormentati
nel nulla senza cuore da cui non c’è dio che ci liberi!

Ed ecco che, nella pace della notte, sento
un passo sonoro, il canto malinconico e stolto
di un operaio che torna ubriaco fradicio dalla festa
e raggiunge a casaccio qualche ignobile topaia.

Oh! la vita è troppo triste, incurabilmente triste!
Nelle feste di quaggiù io ho sempre singhiozzato:
«Vanità, vanità, tutto non è che vanità!»
– e poi pensavo: dove sono le ceneri del Salmista?

(Laforgue, Il singhiozzo della terra)