
Il folklore turco ancor oggi serba memoria, per quanto sbiadita e frammentaria, di quella certa cosa preziosa finita in illo tempore in fondo a un lago.
La cosa è detta qut, ma nessuno sa dire cos’è: perché è celata nel Süt aq köl (il leggendario «Lago di Latte Bianco»: qualcosa come il Sublime «Mare di Biancore» della fisiologia e della cosmologia ismailite, o forse più «modestamente» come la Via Lattea che avvolge di Luce il suo oscuro segreto).
Il qut è un «non-nulla», anzi il Nonnulla di cui nulla si sa. E in quanto alla questione del suo «essere», finora non c’è stato nessun filosofo turco che l’abbia saputa dire meglio di Amleto.
Essere nell’assenza (che è il modo d’essere del qut) è, o non è, assentarsi all’essere?
I frammenti turchi che ancora ne narrano, assegnano la parte del Maligno, quella cioè del mefistofelico Mariuolo che vuole a tutti i costi appropriarsene, ad Alp Är Tonga. Insomma, a uno che, come l’iranico Afrâsiyâb, è tentato, e tenta fino a dannarsi l’anima (come non pensare anche a Faust?), di impossessarsi di quella «cosa».
Anche se non saprebbe che farsene, sa tuttavia che è il Segno del Comando. E il diavolo vuole sempre comandare, anche se non ne ha la stoffa. Il diavolo sa dividere, il diavolo sa spartire – ma non fa mai le parti giuste. Perché le vuole tutte per sé.
Come può dunque mai il nichilismo di Mefistofele averla vinta sul non-nulla di un solo Angelo, per quanto improbabilmente avvistato, fosse pure dal più ingenuo dei dervisci?
Talora si narra che il qut fu concesso come «viatico di vita» al Cervo anziché all’Uomo a cui pure in principio era destinato. A quei tempi, dice il Racconto, tra l’Uomo e il Cervo non c’era tutta questa differenza che vediamo oggi. Allora il Cervo e l’Uomo brucavano la stessa «erba», non come ora che solo il cervo se ne nutre.
È per questo, insiste a dire il Racconto – benché sbiadito dal tempo – è solo per questo che il Cervo assapora quel che all’Uomo spetterebbe, se le cose fossero andate come dovevano.
Voi direte: ma questa è pura nostalgia, e nient’altro!
Eppure, è quello che Wittgenstein non esiterebbe a ritenere uno di quei «fatti» su cui fonda la sua nuova logica.
La nostalgia è un «fatto»: come, d’altronde, è un «fatto» che, chiamato a immaginare le sue origini, l’Uomo si racconti sempre come il fuoriuscito da un paradiso. Non che le cose siano andate storicamente così. Non è questo il «fatto»: ma che l’Uomo a tutte le latitudini senta il bisogno di raccontarsele così, pur sapendo di non saperne niente.
Il «fatto» è che il Racconto dice di un tempo lontano, di un tempo remoto e rimosso, dice di quando l’Uomo non era ancora uomo, di quando si confondeva con le altre bestie, di quando era un Bruto ignaro d’essere destinato a macchiarsi un giorno dell’uccisione di un Giulio Cesare. Oppure dice di quando tutti gli animali erano uomini o avevano sembianze umane, dice di quando parlavano tutti [l’Età dell’oro del] la stessa lingua finché non avvenne la Grande Separazione.
Non c’è nulla di «storico» in tutto questo. Ma solo c’è un «non-nulla» nostalgicamente scippato al Tutto Passa e sempre Nulla resta.
Passano gli Imperi della Storia – solo quel «non-nulla» avanza, solo quella «negatività» che il desiderio umano introduce nel Nulla in cui, audace, si lancia all’avventura.
Le leggende turche lo chiamano qut. Chiamano così il sapore del Nulla che solo il Cervo continua a gustare dacché l’Uomo ha cambiato alimentazione, e del Nulla non si nutre più come una volta. Ma ne ha paura.

L’Uomo ha acceso il fuoco per arrostire quel che mangia. Il Cervo no, il Cervo mangia crudo né più né meno di come mangiava il suo Antenato.
Il loro divario non è teologico, né anagrafico. Ma, come amava dire la buonanima di Feuerbach, è culinario. L’Uomo, diceva, è ciò che mangia. Anche il Cervo, dice il Racconto, è ciò che mangia.
Sicché, dei due, l’Uomo dipende dal fuoco di cucina: profittando dell’astuzia con cui Prometeo ne rubò una scintilla agli dèi e la portò quaggiù, l’Uomo è come lui incatenato a mettere a fuoco il suo stesso destino o, come volgarmente si dice, a cuocere nel suo brodo. Ha tradito il Cielo, e perciò il rimorso [dell’aquila] gli rode ogni giorno il fegato. Per farsi fabbro del suo destino, l’Uomo, come Prometeo, si è inimicato gli dèi. E ha da temere il loro fuoco celeste.
Il fuoco che arde e brucia nei suoi desideri – quello continua ad accenderglielo il Cielo, a ciascuno secondo il Mandato della sua Fortuna, la Tykê dei Greci, lo xvarnah degli Iranici, o appunto: il qut dei Turchi. Quest’altro fuoco solo il Cervo, o meglio ancora la Cerva, sa dove e come procurarselo.
O al più chi, in compagnia del Cervo, vive ancora nella Foresta – anzi, in quel solo angolo della Foresta in cui la Grande Separazione non è riuscita a penetrare.
Dall’India alla Bretagna si narra la stessa leggenda: nel bosco, in compagnia del Cervo, vive un «divino» Selvaggio, un Bruto anacoreta, un Eremita analfabeta. Nessuno ne sa niente, nessuno ne ha bisogno finché la Città non «brucia» e necessita di un Mago della pioggia. Nessuno sa dire da chi egli abbia appreso la sua magia, ma se Giulio Cesare fa un brutto sogno, solo lui può esorcizzarne il malocchio.
È l’Uomo-Cervo, lo Stregone antico quanto la Grotta dei Tre Fratelli in cui fu «dipinto». È sempre lui, ora nei panni di Atteone, la casta vittima d’un casuale miraggio, ora invece in quelli del Beato Buddha, capace di innalzarsi al di sopra delle Terre Promesse ai suoi desideri.
È sempre l’Uomo-Cervo, sempre lo stesso arcaico Significante. Solo che da paese a paese è soggetto a un diverso Trattamento.
Forse il modo in cui lo tratta Ovidio, e dopo di lui tutta una tradizione poetica e pittorica che a lui ha attinto, non è il più felice. Forse o senza forse è l’epilogo più tragico che il Racconto abbia riservato al destino dell’Uomo-Cervo. Ma è anche, conoscendo la «licenziosità» di Ovidio degli Amores e dell’Ars amatoria, quello che più si azzarda a dire ciò che altrove è interdetto, avvolto com’è nel nimbo di «santità» che aureola a priori il Personaggio.

Ovidio dista dalle Sacre Scritture quanto Atteone da Buddha: non è un peccato, non è una colpa trovarsi esposto alle seduzioni di una divina Tentatrice. È il «fato», la Tykê, il Caso, a mettere Atteone sulla «cattiva» strada. Ed è sempre il «fato», avrebbe detto se avesse saputo la storia di Buddha, a incamminare il Santo alla beatitudine.
Perché è il Fato il Grande Sceneggiatore della Commedia Umana. Non conta se uno muore, mentre l’altro sopravvive. Se santifica questo mentre mortifica quello. Conta l’insistenza con cui replica da sempre lo stesso «fatale» Scenario: un Uomo-Cervo e una Seduttrice Umana – oppure: una Cerva Selvatica e il suo Compagno (non ancora) Umano, perché (ancora) troppo vicino alle sue origini animali, e cioè al suo dio e al suo paradiso.
Perciò se, come dice Nietzsche a proposito della nascita della tragedia, abbiamo qui dinanzi un problema con le corna, è proprio come dice lui: magari fossero le corna del Toro, sarebbero solo due, invece di tutta questa prolifica ramificazione in cui, crescendo, si distribuiscono, tra congiunzioni e disgiunzioni mai uguali, le corna del Cervo.
Il Cervo pensa pensieri e desidera desideri interdetti ormai alla nostra gastronomia. Non li «digeriamo» più da che Atteone è morto e il suo ultimo respiro si è «elevato» (perché questo vuol dire il nome Atteone: colui che s’innalza) al di sopra dell’altezza del suo miraggio.
La sua «fortuna» fu solo un’improvvida quanto involontaria svista. In nient’altro stette la sua «fatalità» che nell’aver visto ciò che non doveva vedere. Vide, nella preda, la sensuale divina Predatrice nuda. Lui, cacciatore, vide la Cacciatrice messa a nudo nella sua cruda bestialità. E questa fu la fine del Cervo, la fine dell’incoscienza animale nell’Uomo. Si estinse dinanzi alla Bellezza. E se le corna gli spuntarono, fu solo perché si vedesse e fosse a tutti manifesto che a morire era il Cervo. E che se qualcosa rimaneva, non era che l’avanzo di un desiderio che «s’innalzava» nel suo ultimo sospiro analfabeta per ricongiungersi al suo «fuoco celeste».
Adesso che il Cervo aveva incontrato un nuovo «alimento», adesso che il suo sguardo, sia pur non volendo, aveva incrociato quello della Dea, per questo non era più Cervo. Era incappato nella fortuna dell’Uomo. In quel «non-Nulla» che il Caso vuole che sia l’Uomo a inseguire per tutta la vita, senza poterlo vivere, ma solo morire, e solo il giorno che gli riuscisse di annientarsi, come il Cervo, nel fuoco del suo miraggio.
Il Racconto turco dice che la fortuna, il qut, dell’Uomo-Cervo giace, come la sua stella, in fondo al Süt aq köl: c’è poco da fare – ammonisce il «sempliciotto» Amleto mentre continua, giocando, a far girare la sua trottola – essere nell’assenza di Cervo o assentarsi all’essere Uomo: come può non essere questo il nostro problema?
E soprattutto come non vedere che non è di un dilemma, ma di un complicatissimo problema «cornuto» che si tratta?
Si tratta della Ramificazione dei nostri desideri, costretti a «innalzarsi» fino al loro «annientamento», e ogni volta a estrarre ciascuno il «non-nulla» che il Caso gli fa incontrare, senza che nessuno di essi sappia dire in anticipo se è un diavolo o un angelo quello che gli sta dicendo: «Vieni via con me! Seguimi! Ti porto a prendere quella cosa»!