Pochezze. Piccolezze. Miserie umane.
Abbiamo preso la brutta abitudine di estradarci a vicenda.
Oh, è facile dire: «Va’ sempre dritto per la tua strada. Così troverai».
Se c’è qualcosa che, per incamminarsi, è necessario perdere è proprio la «rettitudine». Il «retto» non esce mai dal seminato. Non incontra l’Altro, il Curvo. Non fa mai una piega. Ignora ogni via di fuga.
Ma, d’altra parte – il Racconto è chiaro in proposito – finché non si imbatte nei tamburi cattivi, quale ragione potrebbe mai avere il «retto» di inclinarsi a un’altra «via»?
Forse è così: forse ogni viandante va solo in cerca del tamburo buono. È sulle tracce solo di un richiamo, per saggiare la cui «bontà» deve però tirare dritto tra le pieghe delle voci che popolano il suo mondo.
Quel richiamo proviene da un «angolo» dell’Oceano del Racconto (Omero lo chiama «il tutto avvolgente»). Lo conferma Goethe: Mefistofele è entrato in casa di Faust da un angolo della Porta. Lo dice, dal canto suo, anche il catechista più ortodosso: non c’è Tempio che non si regga sulla «pietra d’angolo»! Sulla «pietra» dell’inutile, del vano e del gratuito!
E, dunque, se il Viandante è sempre a una distanza angolare dal richiamo del suo «tamburo buono», come può egli raggiungerlo tirando dritto per la sua strada?
Bisogna, capisci? – è necessario che qualcuno lo metta fuori strada. O, come nei riti di iniziazione yanomami, che qualcuno lo porti nel bosco – proprio così: che qualcuno lo getti nella «selva oscura» e gli provochi il primo spaventoso disorientamento, perché solo così – dalla Paura – egli può essere indotto a cercare la sua strada al richiamo del Tamburo Buono.
Questo Tamburo è suo, da sempre – spetta a lui soltanto, e a nessun altro: è il «timbro» della sua singolarità, la «voce» della sua eccezione. Qualcuno, non so se a torto o a ragione, dice che è il suo «dono di natura», il suo «talento» innato, il suo «genio», ma perché questa sua «genialità» gli si manifesti, è necessario che egli si conquisti la via – che se la conquisti riconoscendola e perseguendola in mezzo al frastuono dei tamburi cattivi.
La via al suo proprio genio, ciascuno se la deve sudare.
Questa via inizia sempre dalla Foresta dove le voci fanno rumore, e non ancora si compongono in una «frase» umana. Parmenide dice che, le prime «frasi», egli da bambino le udì nitrire dalle cavalle che tiravano il carro delle sue, allora acerbe, immaginazioni.
Poi, quando cominciano a distinguersi voci umane che parlano parole umane, non è che le cose si mettano meglio. Perché quelle voci, quei tamburi suonano il tamtam dell’umana «estradizione». Dai, fermati qui con noi! Lo chiamano, con l’inganno (dei Titani a Zagreo), lo forzano a uscire fuori di sé.
Guai a fidarsi!
Gli uomini – dice Utnapištim – sono tutti bugiardi. Depistano, danno false informazioni. L’estradizione è il brutto vizio del «dire» umano!
All’uomo basta una «dizione» per mettere fuorigioco l’altro.
Ma è ineluttabile che, alla fine, si troverà lui, l’Uomo, a essere estradato dalle sue bugie.
È quel che i Ciukci intendono quando parlano di «tamburi cattivi»: intendono tutte le «dizioni» a bandirlo, a fuorviarlo, a sedurlo e a ingannarlo, che strada facendo il Viandante dovrà fronteggiare, prima di giungere, se mai, a udire una volta almeno il «suo» tamburo buono. I tamburi sono «cattivi», perché strumenti di seduzione e di magia, di cui il Viandante rischia di cadere «in cattività».
Piccolezze. Minimi abbagli insignificanti. Vezzi umani. Idolatrie narcisistiche. Resti d’antiche usanze predatorie. Semi di pazzia.
«Sposami e te lo dirò».
Una richiesta esagerata, non c’è che dire!
La prima «donna» che Narciso incontra, la sua prima epifania immaginaria, la sua stessa immagine allo specchio, gli dice: «Sposami e ti dirò dove puoi trovare il tamburo che cerchi».
Non finiremo mai di meditarla abbastanza, questa prima «estradizione», questa prima sortita – fuori – nel «dire». Si tratta solo di rintracciarla, al di là dei libri del Dottore: di ritrovarla nella sua ingenuità narrativa, coperta com’è dai tamburi cattivi che c’impediscono di sentirla.
La trovi, più facilmente «dichiarata», nei deliri del presidente Schreber o negli anagrammi di Isotta sul doppio nome Tristan-Tantris.
La trovi dov’è più impensabile trovarla – in un racconto dei Ciukci.
«Sposami e ti dirò dove puoi trovare il tuo tamburo»: le voci perseguitano il presidente, frammenti di filastrocche udite da bambino lo assillano, e tutte, dico tutte, gli chiedono di «sposarlo», ma lui solo alle assonanze si concede, il suo orecchio «sposa» solo le eufonie – mentre le «male-dizioni», i «tamburi cattivi», lo tormentano!
Minuzie … se non fosse che Narciso sa. Sa che solo il suo Fantasma può guidarlo al suo Tamburo.
Bazzecole … se non fosse che Dante sa che solo Beatrice può liberarlo dal «dire» poetico a cui, per tutta la vita, lo ha incatenato a rimanere devoto.
Cosucce comiche, lo dice lui stesso. Per favore, niente discorsi seri!
Ciascuno è chiamato a stringere un patto, a pattuire una (santa) alleanza coi propri fantasmi infantili. Ciascuno l’ha dovuto fare, s’è dovuto assoggettare a questo vizio umano di fuorviarci e di estradarci a vicenda – per provare a illudersi di ritrovare fuori quel «pezzo» di Sé che è il Tamburo Buono, il Dono di grazia o di natura.
Narciso smania di «copulare» col suo Fantasma! È il narcisismo della sua immagine allo specchio che lo pretende. L’ha stregato e ora pretende di fare «tutt’uno» di questa frattura – che è il prezzo del loro raddoppiamento speculare, il debito che ciascun viandante contrasse con se stesso, quando «Uno divenne Due».
Bada bene: non «divennero», ma divenne – Lui – Due.
Si sposò – non si sposarono.
Sole e Luna, non hanno mai cessato di essere una sola Luce.
E quando lei gli ha chiesto: «in cambio cos’hai portato?», quando Beatrice a Dante (al Guaglione di nove anni!) ha domandato: «tu cos’hai da dare in permuta del tuo Tamburo?»… quando nel «dire» tra Beatrice e Dante è accaduta questa domanda – in quel preciso istante s’è deciso tutto.
Cosa può rispondere lo Sposo alla Sposa?
Può dire, come il Viandante nel racconto dei Ciukci: «nulla, non ho portato nulla da dare in cambio», anche se in tasca ha le due perle che gli ha dato in consegna il padre – o può, come Dante, tirarle fuori immediatamente e dirle, quelle due «paroline» ereditate dal padre. Ecco: può rispondere «ti amo» o, il che è più o meno lo stesso, può dire le due parole di Narciso, dire per es.: «a dio».
Ma poiché non c’è Viandante che non si metta in viaggio da bambino, poiché non c’è viaggio che non cominci dalla Selva Oscura yanomami, poiché nessun bambino parla, se non per gioco, le parole dei grandi – le due perle non fanno ancora, nella sua bocca, una frase di senso compiuto: fanno piuttosto «le due mani» della sua prima Metafora, «le due ali» della sua prima Fantasia. Fanno il tan e il tris di Tristano e del suo «pseudonimo» Tantris! Fanno, o non fanno (è tutto qui il gioco con cui i bambini giocano al «dire» umano), una «bella», una «buona» differenza nella (cattiva) ripetizione.
Ripetendo l’uguale (la rima, l’assonanza, l’allitterazione) trovano, o non trovano, il «modo» di costringere il Tamburo a cantare la loro Novità.
Nessun bambino stringe un patto (e si sposa con la sua immagine) sul significato delle parole. Lo stringe nel Suono! Il suo «tempio», come dice Rilke, è nell’udito! Se si sposa alla sua immagine, è per sapere dov’è il Tamburo della sua voce! Se si lascia estradare dal miraggio seducente della sua Sposa, è perché testardo non dispera di giungere, tramite lei, e solo da lei guidato, alla Casa dei Canti.
Perché, pensaci!, che se ne farebbe del Tamburo, se poi non avesse quel canto nuziale da cantare?
È allora che i Tamburi diventano «cattivi»: quando suonano il tamtam di una ripetizione, quando riproducono «ad arte» (e questo è il guaio) solo i primi «cinque canti» appresi dalla Signora, e non pure il Sesto.
… e io fui sesto fra cotanto senno!
Il Sesto Canto dello sciamano è quello che fa «svenire e rinvenire» chi lo canta. Quello che lo fa andare e venire dall’altro mondo. Quello che ha «la leggerezza dell’uccello, la rapidità del cigno, il volo del gabbiano».
Il Sesto Canto è quello che tutto ciò che canta è un «respiro a nulla», il solo canto che non può essere «estradato», perché vola sopra i tamburi, perché sorvola le parole della canzone, perché si è sciolto finanche dal legame della sua Sposa Immaginale, perché non ha più bisogno di una Traccia da seguire – e di lassù libero canta, finalmente, il Nulla che il Cantore ha da cantare.
È il canto che non significa nulla. Che non significa altro che quel Nulla iniziale, che le «perle» del Padre erano servite solo a camuffare e rinviare. Quel canto è tutto suono. E il suo cantore (chi non lo vede?) è più suonato che suonatore, e perciò vola, al di là dei tempi e dei luoghi, al di là degli anni e dei secoli. Perché è assestato, guarda un po’, di nuovo nella Siesta del Nulla iniziale.
Pochezze. Miserabili demenze. Lucciole per lanterne.
Abbiamo preso la brutta abitudine di negare l’essere al Nulla.
E poi andiamo a cercare dio, per riempire quel vuoto. A volte ci bastano due paroline per non vederlo: Padre Eterno.
Questo è quanto avanza, dacché, da queste parti, sono passati i Predatori a cavallo. Tanto tempo fa. Ci hanno portato via la gioia di essere Nessuno.
(Aiguesmortes, Udite! Udite!)