Fu comune opinione tra coloro (ed erano di gran lunga i più) i quali ponevano il Paradiso terrestre in questa nostra terra, e lo dicevano tuttavia esistente, che esso, o non si potesse per nessun modo trovare dagli uomini, o, se pur si poteva trovare, fosse loro impossibile di penetrarvi.
I Padri sono concordi su questo punto. L’impossibilità di penetrarvi si faceva venire, di solito, dal volere divino, per decreto del quale il Paradiso terrestre doveva, dopo il peccato, rimanere inesorabilmente chiuso ai viventi; ma si faceva anche venire da difficoltà naturali, che non lasciavano via da passare a chi avesse in animo di recarvisi.
Brunetto Latini, ripetendo quanto molti avevano affermato prima di lui, dice nel Tresor: Et sachiez que après luoi pechiéz dou premier hom, cist leus fu clos à tous autres. […]
Che anche Dante avesse il monte di Paradiso in conto d’inaccessibile, sembra risulti dal racconto che Ulisse fa del suo viaggio (folle volo) nell’oceano.
Il Geografo Ravennate s’ingegna di mostrare, con ogni maniera di buoni argomenti, come non sia possibile agli uomini penetrare nel Paradiso, e il Mandeville, cui duole di non averlo potuto visitare, dice, ripetendo ancor egli cose già dette da altri, che molti tentarono inutilmente di andarvi, e che l’altezza e l’asprezza dei monti, e le strane fiere che infestano il paese d’intorno, non lasciano che nessun vi si accosti.
Né Fioretti della Bibbia si legge: «Questa montangnia si dice ch’è sì alta et dura e aspra fortemente e sì maravigliosa che neuno huomo per sua bontà non vi poté mai salire, né là drento intrare, secondo quelli che vi sono stati nel paese».
Perciò Fazio degli Uberti lo dice un monte ignoto a tutta gente, e Giovanni di Hese lo descrive altissimo, con le pareti a perpendicolo, a guisa di torre, ita quod nullus potest esse accessus ad illum montem.
Ricordiamoci che per gli antichi gli Elisii erano reclusum nemus, discretae piorum sedes, regna impervia vivis; e che frugando nelle memorie mitologiche e nelle leggende, molti altri esempi si trovano di luoghi o vietati, o inaccessibili.
Del paese degli Iperborei dice Pindaro che non vi si può andare né per terra, né per acqua. All’isola dov’era l’Orto delle Esperidi, serbato agli dèi, nessuna nave poteva approdare; e al monte Qâf degli Arabi non si perviene se non per arte magica; e all’isola Bulotu, immaginata dagli abitanti di Tonga, non si approda se non per volontà degli dèi.
Il Mons Romuleus (Rocciamelone), ove un re Romolo raccolse ingente quantità di tesori, è descritto come inaccessibile nel Chronicon Novaliciense; e di una montagna inaccessibile, a poca distanza dalla città di Dio, nel Delfinato, parla uno scrittore francese del secolo XVII.
Ma, a dispetto di chi diceva che non ci si poteva andare, e di chi affermava che nessuno di coloro che avevan corsa felicemente tutta la via era poi riuscito di penetrarvi, parecchi, in vari tempi, ebbero desiderio di tentare l’avventurosa impresa; e se di alcuni la leggenda narra che non fu dato loro di passare il formidabile muro di fuoco o di diamante, e la ben custodita porta, di altri narra che superato ogni ostacolo, penetrarono veramente nell’impareggiabile giardino, e vi fecero alcuna breve o lunga dimora, e ne tornarono per dare altrui alcun debole ragguaglio delle sue inenarrabili meraviglie.
Ricordiamo, anche a questo proposito, che gli Elisii antichi furono, più di una volta, penetrati da vivi, e che altri consimili esempi si trovano in altre mitologie. […]

Ecco qua, anzi tutto, una leggenda celebre, la quale è ispirata bensì da quel fervore di fede e di desiderio che informa le altre di carattere più risolutamente ascetico; ma vuol essere pure considerata come una naturale espansione e prosecuzione storica, se così posso esprimermi, di un tema leggendario anteriore, in quanto viene ad esplicare ed a compiere, in conformità di certi postulati della coscienza religiosa, una storia mitica non compiuta e non chiusa.
Intendo dire la leggenda di Seth, mandato dal padre infermo, e già vicino a morte, al Paradiso terrestre per procacciare l’olio della misericordia.
Questa leggenda ebbe a congiungersi poi con quella del legno della croce, e delle due se ne formò una assai complessa, la quale nel medio evo più tardo, a partire dal XII secolo, ebbe così gran diffusione che nessun’altra ebbe l’eguale.
Tale leggenda ci pervenne in narrazioni di tutte le lingue parlate da popoli cristiani, conservata in libri d’ogni titolo e qualità, distribuita in numerose versioni, le quali furono dottamente paragonate fra loro e raccolte in gruppi e categorie. […]
La prima memoria, sino a noi pervenuta, di un’andata di Seth al Paradiso terrestre, si ha probabilmente in quell’Apocalissi greca […] intitolata Apocalissi di Mosè.
Quivi si legge che Adamo, giunto all’età di 930 anni, e infermo, mandò Eva e Seth al Paradiso terrestre, per ottenere, a sollievo delle sue sofferenze, l’olio di misericordia.
Cammin facendo, Seth è morso dal serpente. Giungono alla porta del Paradiso, ma non ne varcan la soglia; l’arcangelo Michele dice loro che non avranno, per ora, quanto desiderano, e li fa tornare addietro, annunziando che in capo di tre dì Adamo si morrà.

Nella Vita latina di Adamo ed Eva si ha, con lievi differenze, lo stesso racconto: Michele dice ai due pellegrini che l’olio di misericordia non sarà conceduto se non passati 5500 anni; che allora Cristo, figliuolo di Dio, scenderà in terra, si farà battezzare nel Giordano, risusciterà Adamo e gli altri morti, e a tutti i credenti in lui largirà l’olio tanto desiderato. Così li accomiata, annunziando che ad Adamo non rimangono se non sei giorni di vita.
Si può tener per certo che entrambi questi racconti derivino da una fonte più antica, rimasta sinora sconosciuta.
Il Racconto della Vita passa nell’Evangelo di Nicodemo, con questa sola diversità di rilievo, che di Eva più non si parla, e Seth compie solo il viaggio, e solo ascolta le rivelazioni dell’angelo.
Da indi in poi Eva rimane esclusa dalla leggenda, la quale, come ho detto, si lega all’altra dell’albero della croce, e fa corpo con essa. Questo congiungimento si può dire che fosse inevitabile, provocato, e in certa maniera imposto, da quel vivo e tenace desiderio cui ho accennato, di raccostare alla caduta la redenzione, di contessere, per così dire, in un’unica trama i fatti dell’una e i fatti dell’altra.
Leggende intorno al legno onde fu formata la croce, strumento di redenzione, dovettero sorgere assai per tempo, ed era naturale che alcune, se non tutte, facessero venire quel legno dallo stesso giardino ov’era stato commesso il peccato, e dallo stesso albero che aveva dato esca al peccato.
Di più leggende simili, che poi furono sopraffatte da una finzione più rigogliosa, e che meglio appagava il sentimento e la fantasia dei credenti, è rimasta memoria.
«Una tradizione greca narra senza più che un ramo dell’albero nel cui frutto peccò Adamo, fu trasportato a Gerusalemme; e ne sorse un grande albero, donde fu fatta la croce. Altri dicono che Adamo stesso portò seco dal paradiso un frutto o un rampollo dell’albero. Secondo una terza versione Dio dopo il peccato svelse l’albero e lo gittò di là dal muro del paradiso. Mille anni più tardi Abramo lo trovò e lo piantò nel suo giardino. Un angelo (o Dio stesso) gli annuncia che su di esso Dio (egli) verrà crocifisso»
(Mussafia, Sulla leggenda del legno della croce)

O prima o poi, una di tali leggende doveva incontrarsi con la leggenda di Seth, e mescendosi con essa, dare origine a una tradizione nuova, secondo la quale l’albero onde fu fatta la croce sarebbe venuto da un virgulto, o da semi che Seth stesso riportò dal Paradiso.
E in questa forma la leggenda trionfò.
Non può essere compito mio tener dietro alle troppe versioni in cui essa ebbe a spartirsi, e al moto dei suoi vari elementi, i quali senza posa si accozzano insieme, si disgiungono, trapassano da luogo a luogo e gli uni agli altri sottentrano, come fanno i pezzetti di vetro multicolore nelle mutabili figure del caleidoscopio.
Io mi contenterò di dar qui la sostanza di un racconto latino, il quale è certamente anteriore alla fine del secolo XIII, e in cui la leggenda appare in tutta la sua pienezza.
Questa, nella forma che in esso consegue, «ottenne straordinario favore, e si diffuse per tutta Europa, dall’Irlanda e dalla Svezia alla Spagna, dalla Cornovaglia alla Grecia» (Meyer), dando luogo a traduzioni e rimaneggiamenti innumerevoli.
Adamo ha vissuto 932 anni nella valle d’Ebron, nella terra d’esilio. Egli è stanco di estirpare i rovi dal suolo, stanco del male e dei mali che vede crescer nel mondo, fra la sua posterità, stanco di vivere.
Chiama a sé il figliolo Seth, e lo manda al cherubino che con la spada fiammeggiante sta a custodia dell’albero della vita, per avere da lui certezza dell’olio della misericordia che Dio promise al peccatore il giorno stesso in cui fu commesso il peccato.
Va’, dice egli al figliolo: tu conoscerai il cammino dalle impronte che noi vi lasciammo, tua madre ed io, venendo in questa valle, e sulle quali non è più cresciuta l’erba.
Seth s’avvia, giunge alla porta del Paradiso. Il cherubino saputa la ragione del suo venire, lo invita a mettere il capo dentro alla porta, e a gettar gli occhi sul giardino: tre volte pronunzia l’invito ed altrettante Seth vi si conforma.
La prima volta questi contempla la vaghezza del Paradiso, vede le piante e i fiori, il fonte lucidissimo da cui nascono i quattro fiumi, e sopra esso un’arbore ramosa, ma nuda di frondi e di corteccia.
La seconda, scorge un gran serpente avvolto al tronco della pianta.
La terza, vede l’arbore elevata sino al cielo, e sulla cima un bambino appena nato, e, da basso, le radici, penetrate sin nello inferno, ove gli si scopre l’anima di suo fratello Abele.
L’angelo spiega a Seth la visione, gli annunzia la venuta del Redentore, e, nell’accomiatarlo, gli porge tre granella del pomo fatale onde mangiarono i suoi genitori, ingiungendogli di porli sotto la lingua di Adamo, quando, di là a tre dì, questi sia morto.
Seth se ne torna, e Adamo, udite da lui le parole dell’angelo, ride per la prima volta in sua vita (deve intendersi dopo il peccato), e muore. Seth gli pone sotto la lingua i tre semi, e sotterra il padre nella valle d’Ebron, e dai tre semi nascono tre virgulti, di cedro il primo, di cipresso il secondo, di pino il terzo, i quali così si rimangono, senza mai crescere oltre l’altezza di un cubito, e senza mai perdere il verde, sino al tempo di Mosè.
Questi, giunto col suo popolo, dopo l’uscita dall’Egitto, nella valle d’Ebron, conosce essere nelle tre verghe alcun che di miracoloso, le toglie di terra, sana con esse coloro che erano morsi dai serpenti, e con esse fa scaturire l’acqua dal sasso; poi, conscio della morte vicina, le ripianta alle radici del monte Tabor, o dell’Oreb, ed entrato, ivi presso, in una fossa, rende l’anima a Dio.
Mille anni stanno le verghe in quel luogo, sino a che Davide, per avvertimento del cielo, le viene a levare, e le porta a Gerusalemme, dove, poste in una cisterna, metton radice, e si uniscono in un’unica pianta, cui Davide, per trent’anni di seguito, cinge, ogni anno, di un cerchio d’argento.
Davide sa già, per rivelazione divina, che della pianta si farà la croce, per la cui virtù si cancellerà il peccato. E la pianta cresce lo spazio di trent’anni; e sotto di essa piange Davide i suoi peccati, e sotto di essa compone il salterio; poi muore.

Salomone gli succede, e dà opera a compiere il Tempio. Un giorno, gli artefici, abbisognando di una trave, recidono l’albero miracoloso; ma poi, per quanto si argomentino, non riescono ad adattare il legno ov’era bisogno, e Salomone, chiamato a veder tal miracolo, ordina che il legno sia posto nel Tempio, e da tutti onorato.
Una donna per nome Massimilla vi si pone sopra a sedere, e incontanente le sue vesti prendono fuoco, ed ella grida: Signore mio, e Dio mio Gesù; udite le quali parole, gli Ebrei, come bestemmiatrice, la trascinano fuori della città, e la lapidano, facendo di lei la prima martire; poi tolgono la trave dal Tempio, e la gettano nella probatica piscina che, per nuovo miracolo, acquista virtù di sanare gli infermi.
Sdegnati, gli Ebrei tolgon la trave dalla piscina, e la gettano, a mo’ di ponte, sul Siloe, perché sia calcata dai piedi dei passanti.
Viene a Gerusalemme la regina di Saba, e ricusa di passare sulla trave, sapendo a che sia serbata, e profetizza il Messia.
Venuto il tempo della passione, gli artefici fanno con essa la croce su cui è confitto Cristo.
Ho detto che non intendo tener dietro alle numerose versioni della leggenda; solo ricorderò che in una di esse i viaggi di Seth al Paradiso sono due; e che talvolta l’angelo dà a costui, non già le tre granella, come nel racconto testé riferito, ma un ramoscello dell’albero della scienza, e che da quel ramoscello pende ancora, in uno o due casi, parte del frutto morso da Eva.
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