Pavel Kutzko – Quella Matta di Semele!

… perché se c’è un momento in cui dobbiamo ricorrere alla Metafora, uno di quei momenti in cui ne abbiamo urgente bisogno – è quando abbiamo a che fare con la Morte. Se vogliamo, non tanto afferrare logicamente che cos’è la Metafora, ma sentirla mentre ci parla in bocca, e prenderci i benefici di questo suo «dire», o detto più esplicitamente: se Semele-bruciavogliamo giocare al suo gioco … è qui, dove essa gioca a smarcarsi dalla Morte, a districarsi dai suoi invisibili lacci, che ci conviene indugiare. Perché è qui che essa scatena tutta la sua magia, tutti gli artifici della sua «potenza».

La Metafora gioca. È la Matta di tutti i mazzi di carte. È la Grande Illusionista, la Signora dei Tarocchi. La Perla Oscura di tutte le conchiglie. L’Eccentrica su cui tutte le filosofie da sempre si concentrano – e questo è il paradosso: che la si debba prendere per il Centro, quando il «centro» stesso è solo una delle sue infinite possibili Metonimie. Solo uno dei suoi infiniti giochi di prestigio.
La Metafora è il joker. Può in ogni momento ribaltare le sorti. È essa stessa la Sorte che può o non può, all’occorrenza, essere sorteggiata. Non conosce altra oscillazione che tra la Pazzia e la Pazziella. Tra il Serio e il Faceto. Tra il Seriale e il Discontinuo. Tra la Legge e la Rivolta. Tra il ti amo e il vaffanculo!

Ogni volta che il Filosofo s’è trovato a dover fare i conti con il «centro» della sua propria «filosofia», per fissarlo in una qualunque definizione (e dunque scipparlo alla sua «ambiguità originaria»), ha dovuto fare i salti mortali per nascondersi alla Pazziella da cui questo suo «serio» pensare «in serie», questo suo pensare «sistematico», in illo tempore ebbe origine.
E viceversa: ogni volta che il Comico s’è lasciato andare allo «spirito» che alimenta le sue spiritosaggini, e se solo un poco s’è azzardato a illudersi di poterlo padroneggiare come suo proprio singolare «avvenimento», ovvero a pensarlo come suo proprio «talento», ha imboccato la via alla Pazzia, e il suo «dire» ha preso la piega proprio di quella Pazzia contro cui era insorto il suo primo «riso».

Il Centro del circolo, il germe «pazzerello», è dentro e fuori di noi. E lo Spirito della Metafora spira a favore e contro le nostre follie. Le accende e le spegne, per gioco.
Non c’è un giocattolo all’origine del suo Gioco. Né una Regola che immobile sia centrata nell’osservanza imperitura di se stessa, una Regola cioè che non faccia all’occorrenza anche eccezione a Se Stessa. Che razza di Metafora sarebbe, se non si sottraesse all’«identità» che essa stessa, di volta in volta, si dà?
Vedi, anche il Dottore lo dice: il Sé è la Legge che, volendo, legifera contro la Legge. La Metafora ha dunque questo di «prestigioso»: che in un istante, come il Purusa indù, «brucia» ogni precedente. Ogni nesso di causa e causato. Salta di palo in frasca. Di quel salto che solo essa è capace di saltare, quando abbiamo a che fare con la Morte.

Perciò, il Poeta dice: la Notte sarà nera e bianca. Dice che la Metafora vincerà anche la Morte, e che ci sarà il giorno in cui anche la Morte morrà: il giorno in cui la Metafora distruggerà il segno della nigredo della Morte, o qualcosa del genere.
La Metafora è la Fenice: non c’è memoria che non rinasca dalle ceneri di un oblio! La Metafora ci distrae dalla Morte: annientando il suo «corpo», sottraendosi alla fissità dei Segni (tanto dei Significati che dei Significanti) ci elargisce, essa sola, una «distrazione» dalla paura del «faccia a faccia» con la realtà della Morte. La Metafora ci sposta altrove. Ci dà sempre un alibi. L’illusione di un possibile «biancore» che prodigiosamente sorge dal nero della Paura. Sorge, ed è desiderio, voglia di vivere che ci dona.

Perciò, è quando deve «bruciare» il terrore con cui ci cade addosso, la prima volta, l’evidenza della Morte – è allora che la Metafora «gioca» a favore dei vivi e contro i morti. È in quel momento che la Regina dei morti dispiega ai vivi i suoi «doni». È allora che Madonna, provvidenziale, si rivela Datrice a noi di Intelligenza. Dal suo corpo spunta il nostro Grano, in senso proprio e in senso figurato. Dal suo Spirito spira ogni soffio di ogni nostro vento di primavera. Di ogni «ricominciamento». Dal suo Dolore ogni nostra gioia sgorga. Dalla sua muta Malinconia ogni nostro grido selvaggio attinge il suo entusiasmo bacchico.

Romano-nascita-Bacco
Giulio Romano – La nascita di Bacco

La Signora dei morti, Semele, la Datrice di vita – è la Metafora che ci parla in bocca. E ci accomuna, a nostra insaputa, in uno stesso rogo linguistico: a bruciarci, l’un l’altro, i ricordi – a dirci e a disdirci reciprocamente, come dice Anassimandro, «secondo l’ordine del Tempo». La Metafora, infatti, non può essere «detta» altrimenti che come lei stessa si «disdice». La Fenice non può nascere che dalle proprie ceneri. La Metafora vive attraverso la morte di tutti i suoi segni. A noi produrli! A lei consumarli!

Il centro della Metafora è fuori e dentro i segni che produciamo – perché siamo l’uno (incastonato) nel tempo e nel destino dell’altro, e tanto più ci siamo coinvolti – quanto più nel desiderio di produrre e riprodurre altro ancora c’immergiamo.
Tanto più fuori di noi ci spingiamo – quanto più dentro ci afferra la forza della Metafora.

Nietzsche la chiama volontà di potenza: la Metafora, volendo, può sempre cambiare le carte in tavola. La Metafora è il Trionfo del Possibile. Perciò può, dalla morte, creare vita nuova. Può al passato dare un avvenire. La Metafora è sempre Possibile, anche se a volte questo le è possibile solo al prezzo di una «fedeltà» qual è quella che Dioniso richiede a tutte le (anime) baccanti. A tutte le sue «invasate» Dioniso domanda di accecarsi a ogni (ingenua) credenza nella realtà del Reale.
Perché non c’è Reale che realizzi altro che la momentanea fissazione dei Segni di una nevrosi. Così almeno dice Dioniso.

Dice: non farti incattivire dalle apparenze dei morti, non assaggiare il loro cibo, non fumare il loro sigaro, non provarci nemmeno a guardarli negli occhi. Anche solo l’unghia dell’alluce di un loro piede, se la guardi, sei perduto per sempre.
Qualunque «segno», anche il più piccolo e insignificante, di cui la Metafora si serve per «spostarti» dalla morte alla vita, è condannato a scriversi sul morto, a fare del morto la Superficie delle sue (nuove) iscrizioni, delle sue (moderne) metonimie, degli anagrammi e degli anacoluti (momentaneamente) «viventi».

Qualunque «segno» userai per segnarti la via, dice Dioniso, non idolatrarlo, perché esso ti getterà, prima o poi, in un labirinto, in cui dovrai perderti. Perché il Gioco della Metafora è un gioco a perdere «fissazioni», solo se lo lasci libero di scongiurare ogni sua possibile congiura: ogni sua tentazione «reale», ogni sua illusione «vitalistica».
La Matta ti farà gioire della sua Morte solo se ti asterrai dal misconoscere l’ambiguità della sua (salvifica, tragicomica) Potenza linguistica, sempre binaria, sempre et-et, mai aut-aut.
Non tracciare, dice Dioniso, nessuna frontiera, neanche provvisoria, tra la Pazzia e la Pazziella, tra la Tragedia e la Commedia, tra la Filosofia e il Qualunquismo. E tanto meno tra la Vita e la Morte. Faresti la fine di Penteo! Avrai a pentirtene, senza sapere di chi o di che cosa.

bosco-notturno

L’estradizione dei morti, ci fa osservare Kerényi, non ha inizio con l’editto napoleonico – come in qualche modo siamo spinti a credere da Baudrillard. L’estradizione è antica, è già all’opera nella filosofia di Platone e di Epicuro, è già in giro tra i Greci antichi l’idea dell’aldilà della morte. Del suo essere altrove – non qui dov’è la «vita».
Diciamola meglio: là dove c’è un «culto dei morti», è sempre all’opera un pregiudizio vitalistico. Non c’è nessun’idea di vita là dove non si dà alcun «valore» alla morte: non c’è nessun «umanesimo» e neanche nessuna metafisica, là dove ancora non si è emancipata una pazzia dalla pazziella, o viceversa.

Ci vuole sempre una fissazione narcisistica, per fare di un gioco a confondere i vivi e i morti, il presente e il passato, una maledetta distinzione seria.
Come se i bambini non scoprissero, in tutta la sua evidenza, in un sol colpo tutta la Morte dell’universo, e insieme tutta l’insensatezza del vivere in cui, fino a un istante prima, erano inquietamente immersi. Inquieti come i morti.
Perché anche i morti sono inquieti. E questa inquietudine eterna, è tutto ciò che ci scambiamo, a turno benedicendolo o maledicendolo, «secondo l’ordine del tempo».

«Il tema è sempre un’idea», dice Kerényi – è un’idea inesauribile.
Il movimento (lo slancio di vita, il primo sorriso del bambino) è sempre un dono di grazia della Metafora: una inesauribile volontà di spostamento. Una voglia incessante di venir via dalla Fame e dalla Morte.
È la Metafora, è la Matta Semele, è la Matrice impazzita di desiderio (altro che Narciso!), a bruciare e rinascere dalle sue ceneri. A rimuovere e sul rimosso a scrivere memoria in ciascuno di noi.
Dioniso si scrive, la prima volta, su Semele – e la seconda nel Nome del Padre Zeus.

Un conto è distinguere i vivi dai morti, altro è escludere che i vivi possano essere già morti e che i morti siano ancora di là da venire a vivere.
Si può distinguere e includere. Distinguere non è necessariamente escludere.
L’aut-aut non è obbligatorio: non c’è Pazzia che non sia incentrata in una Pazziella, né una Pazziella che non sia in fuga dalla Pazzia.

Bacco-Dioniso-mosaico

A separare e insieme escludere i morti, a estradarli assai prima che ci pensasse Napoleone è un antico pregiudizio vitalistico.
Se l’essente è essente perché vivente – come possono i morti abitare in un «Essere» da cui sono stati «logicamente» espulsi a priori?
Ma là dove la vita non si scambia con la morte, o meglio: là dove la vita si scambia sì con la morte, ma a sua insaputa, senza cioè sapere di che materia è fatto il filo della cucitura delle sue ferite – non sono i morti in realtà a essere messi al bando, ma la Metafora.
È Semele a essere estradata e, con lei, ogni agire o pensare dionisiaco.

Morti, diteci – per favore, fateci un segno, fateci capire com’è che voi ve la sbrigate con la Morte!
Ricorriamo alle parole dei morti, ogni volta che apriamo bocca. Ogni volta che diciamo: buongiorno, ciao, come va? – stiamo facendo parlare parole morte, e le facciamo vivere in uno scambio che crediamo solo tra vivi, quando invece viviamo sulla parola che ci hanno lasciato i morti. Viviamo sulla pelle dei loro segni, delle loro scritture.

Non sta vivendo adesso la mia parola sulla pelle di Kerényi? E la sua non campò cent’anni sulla pelle dei mitologemi greci e non greci?
E dimmi: chi parlò e disse la prima parola del Racconto?
Chi se non la Morte quando ebbe così tanto orrore di Se Stessa che ci gridò in gola la prima comica bestemmia: il primo sorriso, che non avevamo neanche sei mesi!
E ora, la «vita» dei Vitalisti che vuole fare? vuole emanciparsi da quella prima salvifica pazziella che ci estraniò alla paura e c’introdusse nella Casa dei Canti?

Che importa se non canto più come allora!
Se non faccio ridere, è perché sono stati messi al bando i pagliacci!
L’importante è che io intoni il «sesto canto» della mia Sposa sciamanica!
Il resto è solo fumo che esce dai sigari dei morti.

(Pavel Kutzko, Nel labirinto di al-Manalkan)