Una vecchia leggenda attestata sia nel Râmâyana che nel Mahâbhârata narra che al tempo dei tempi, in quei tempi remoti, quando non tutti gli uomini erano ancora «uomini di città», quando il Tempo Umano ancora sonnecchiava tra le oscure pieghe delle sue origini, c’era un «bruto» che s’aggirava solitario nella Foresta.
Era un uomo? non era un uomo?
Se era un uomo, dice la leggenda, non era però un uomo come gli altri, nulla a che vedere coi «civili» sudditi del vicino regno di Anga. Era un «selvaggio». Anzi, a sentire la leggenda, era un «divino» selvaggio: una scheggia di natura, «divinamente» ancora intatta. Ancora incosciente del suo avvenire.
Il suo nome era Vibhândaka, e la leggenda lo «deifica» a tal punto da farne nientemeno un figlio di Kašyapa, avatar a sua volta di Visnu.
Diciamo così: al tempo dei tempi, in quei tempi remoti, viveva nel bosco un Santo Selvatico Eremita – talmente «selvatico» che, a quel che dice il Racconto, «il suo corpo era coperto di peli fino alla punta delle unghie».
Nato nella Foresta, nella Foresta trascorse tutta la sua vita in compagnia delle bestie e, in particolare, di una Cerva, la sola, a quanto risulta, con cui perfino «copulava».
E da una di queste «copule» gli nacque l’unico figlio: Rsyašrnga, «corno di cerva». Gli nacque un figlio in tutto e per tutto umano, tranne che per quella sorta di protuberanza che gli era spuntata sulla fronte – eredità, senza dubbio, delle corna «materne», ultimo «resto» animale nella sua nuova identità umana, il corno a cui si deve il nomignolo con cui è passato alla Storia, pardon: alla Leggenda.
Quel suo corno, a quanto pare, fu per le Genti dell’India antica il primo Portafortuna. Dice infatti il Racconto che sul regno di Anga s’era abbattuto il flagello della siccità. Dice che non cadeva una goccia di pioggia da tempo immemorabile, e che tutti i maghi e gli stregoni che il re Lomapâda aveva convocati si erano dichiarati impotenti a risolvere il problema.
«Le Stelle – dissero – non ci sono propizie. La Cerva è adirata con noi, perché da troppo tempo non ci abbeveriamo più alla sua sacra fonte. Le acque sono ostruite, i canali prosciugati e le nuvole amano migrare altrove. Abbiamo sentito dire però che nella Foresta che confina col tuo regno vive tuttora un Figlio della Cerva. Manda a chiamare lui, ché lui solo può commuovere sua Madre e indurla a liberare le Acque!».
Il Racconto dice che furono gli stessi sacerdoti a consigliare al re lo stratagemma con cui attirare in città Rsyašrnga.
«Non c’è che un modo – dissero. – Manda da lui le cortigiane più esperte nelle arti amorose! E se non bastasse, mandagli la fanciulla più seducente che vive nella tua casa!».
Il consiglio parve subito al re Lomapâda così buono che nella Foresta, assieme alle donne più attraenti del suo regno, mandò addirittura la propria figlia adottiva, Šântâ.
«Va’ da lui – le disse il padre. – E a lui concediti, a patto però che venga a far cessare la siccità che ci affligge!».
Le cose andarono come facilmente possiamo immaginare: Rsyašrnga fu sedotto e portato via, per sempre, dalla Foresta; venne in città e fece cadere la pioggia tanto a lungo invocata, e da quel giorno non fu acceso un fuoco su un solo altare del regno di Anga, se non in presenza del Figlio della Cerva – il Solo che dall’arsura sapeva come ottenere, con l’intercessione di sua madre, l’Acqua che disseta.
Perché – dice proprio così l’Antico Narratore – «se il Fuoco l’accende chi lo padroneggia, l’Acqua invece da sé si dispensa solo a chi ne ha sete e ne dipende».