La storia di Sansone spicca nella Bibbia per le assurdità di cui appare intessuta, e gli allievi nei presbiteri si devono essere scervellati a lungo sull’arma con cui uccise i Filistei: una mascella d’asino.
Il versetto di Giudici, 15: 19, («Dio aprì una cavità che era nella mascella, e ne uscì dell’acqua»), sta lì a ricordarci che non si tratta di un osso come tutti gli altri né, come è stato suggerito di recente, del «luogo» di esso. Perché quella mascella è in cielo: era il nome che i babilonesi davano alle Iadi, situate nel Toro come «Mascella del Toro».
Ricordiamo il detto classico «le pluvie Iadi»: è perché Υάδες significa «acquose». Nel poema della creazione babilonese (Enûma eliš), che precede Sansone, Marduk usa le Iadi come una specie di boomerang per distruggere la progenie dei mostri celesti, e tutta la storia si svolge fra gli dèi.
Sappiamo anche che la possente arma di Indra, il vajra, il Fulmine fatto con le ossa di Dadhyac dalla testa di cavallo, non era di questa terra.
Il carattere universale di questa storia è tale che la si deve considerare diffusa in tutto il mondo.
Nell’America meridionale, dove i tori erano ancora sconosciuti, gli Arawak, i Tupi e i Quechua dell’Ecuador parlavano della «mascella del tapiro», che si ricollegava al gran dio Hunrakán, l’uragano, che sa certamente come uccidere le sue migliaia d’uomini.
Nel nostro cielo, il Sansone celeste è Orione, il cacciatore formidabile, alias Nimrod; come tale lo ritroviamo anche in Cina sotto il nome di «Zan Signore della guerra», capocaccia della caccia d’autunno, ma le Iadi si sono trasformate in una rete per l’uccellagione.
In Cambogia, è Orione stesso a diventare una trappola per tigri; il Borneo, che non dispone di tigri, supplisce coi maiali; nella Polinesia, del tutto priva di selvaggina grossa, troviamo Orione sotto forma di un’enorme trappola per uccelli. È questa la trappola che Maui, eroe-creatore e burlone, usò per catturare l’uccello-Sole, ma quando l’ebbe catturato, si mise a percuoterlo con – guarda caso! – la mascella di Muri Ranga Whenua, sua rispettabile nonna.
Riportato sulla terra, Sansone – il biblico Simšôn – diventa un personaggio assurdo, o meglio un non-personaggio, salvo che per la sua maniacale violenza e le improvvise passioni.
Fa una certa impressione, dopo averne letto la caotica e bizzarra biografia, trovare a conclusione «e giudicò Israele per vent’anni»: se mai vi fu un uomo senza giudizio, era proprio questo massacratore scatenato; ed è assai dubbio, come nota Frazer, che egli abbia mai dato lustro alla sua professione. Eppure, alla sua persona è accordata un’importanza misteriosa.
Su di lui vennero ad accumularsi innumerevoli fiabe classiche, come quella dell’«uomo la cui anima era altrove» (il tema dell’anima esterna), o l’insistente motivo del tradimento fatale da parte di una donna, che ritroviamo in Eracle e in Lleu Llaw Gyffes.
Ma più ancora, egli è un montaggio incoerente di funzioni non umane che non si riusciva più a mettere insieme in modo intelligibile e che vennero quindi raggruppate con cinematografica precipitazione. Anche la sua impresa da giovane Eracle (fare a pezzi un leone) si trasforma in un baleno nel tema della generazione delle api da una carogna, che richiama la veneranda βουγονία del quarto libro delle Georgiche.
Tra le molte imprese assurde ve ne sono alcune che acquistano dal contesto un rilievo particolare. […] Per es., catturare e chiudere in un recinto trecento volpi e legarle a due a due per la coda solo per sfogare un rancore sembra più il sogno di un delinquente minorile, di un Paul Bunyan o di uno Starke Hans, che non l’impresa di un guerriero.
È come se le Scritture si fossero ricordate che Sansone doveva apparire come gran cacciatore, ma avessero sbagliato nella collocazione dell’occasione delle sue cacce. Dopo tutto, i leoni non si trovano dietro ogni siepe, e ci si può arrangiare anche con le volpi, se non altro per dar fastidio.
Però Ovidio (Fasti, 4: 631 ss.) ci informa che in aprile, durante la festa di Cerere, si usava inseguire per il Circo volpi col pelo in fiamme, e questo potrebbe essere il vero contesto. Le moderne spiegazioni a base di «riti della fertilità» sono talmente futili che verrebbe forse più a proposito rammentare i trecento «cani» scelti reclutati da Gedeone per la sua schiera e a tutt’oggi inspiegati.
E si dovrebbe anche considerare una ricorrenza ancor più importante, messa in rilievo da Felix Liebrecht: la «Festa di Sada», nella quale si dava fuoco ad animali e li si rincorreva per le campagne dell’Iran. Questo però ci ricondurrebbe al Libro dei re di Firdusi e, più in là, a tutto il problema della Cinosura, e dal momento che ciò richiederebbe un’analisi di tutto quanto era sottinteso all’accensione dei fuochi celesti, non possiamo addentrarci ora nell’argomento. […]
Il disegno generale della tragedia è chiaramente difettoso, più difettoso ancora della maggioranza dei racconti biblici, superbamente indifferenti al nostro genere di considerazioni.
Se è vero che Sansone era stato generato come «uomo per Dio tenuto in serbo» per sollecitudine del Signore «che cercava un’occasione contro i Filistei», non è però paragonabile a capi come Giosuè e Gedeone. Mitologicamente parlando, egli rimane un «missile sfuggito al controllo».
Per la maggior parte, le grandi gesta del passato mitico-storico non avrebbero meritato l’attenzione dei mezzi d’informazione, ma le imprese di Sansone hanno talmente poco senso, anche nell’ambito ridottissimo dei giochi di potere in Palestina, che Milton fatica a giustificare all’uomo le vie di Dio.
Alcuni eventi «centrali», quali la caduta di dinastie reali – avvengano in Grecia, a Babilonia o in Danimarca – sanno mandare risonanze più autentiche e più profonde. Ecco perché grandi motivi, come quello del «buio a mezzogiorno» o dell’«abbattimento dell’edificio», si combinano in un disegno più vasto, di natura evidentemente cosmica, che qui [nel racconto biblico] rimane oscurato. […]
In quanto al motivo del crollo della casa, la cosa ci è familiare.
La storia tramanda confusamente almeno un evento simile: l’edificio in questione era la più antica casa di riunione dei pitagorici; il racconto si presenta come un sobrio resoconto dell’esito di un conflitto politico, ma la leggenda di Pitagora venne così abilmente costruita nei tempi antichi con materiali prefabbricati che è lecito dubitarne.
L’essenza del vero mito è quella di mascherarsi dietro a particolari apparentemente oggettivi e quotidiani, presi in prestito da circostanze risapute.
Comunque sia, in molte altre storie la distruzione dell’edificio è legata a una rete. L’Amlethus di Saxo non fa crollare i pilastri, riappare invece al banchetto apprestato dal re per le sue stesse presunte esequie, e getta sui convitati ubriachi a mo’ di rete l’arazzo fatto da sua madre e brucia la sala.
L’episodio ricorda la caduta della casa degli Atridi: la rete gettata da Clitennestra sul re che si dibatte nel bagno non può essere capitata lì per caso. Ma questa è una traccia incerta, almeno per il momento.
Il Libro Sacro dei maya quiché, il famoso Popol Vuh («Libro del consiglio»), parla di Zipacná, figlio di Vucub Caquix (= «Sette uccelli ara»).
Costui vede quattrocento giovani trascinare un tronco enorme con cui vogliono fare la trave del comignolo della loro casa. Da solo e senza fatica, Zipacná trasporta la pianta là dove è stato scavato il foro per il palo che dovrà sostenere la trave. I giovani, invidiosi e impauriti, cercano di uccidere Zipacná schiacciandolo nel foro, ma egli riesce a fuggire e fa crollare la casa sopra le loro teste. Essi vengono trasferiti in cielo «in gruppo» e da loro prendono il nome le Pleiadi.
C’è poi un autentico «vendicatore del padre», Tawhaki delle Tuamotu, il quale, dopo lungo peregrinare, arriva nell’oscurità alla casa della banda di spiriti maligni che avevano torturato suo padre. Su di loro suscita per incantesimo «il freddo intenso di Havaiki» (l’aldilà) che li fa addormentare: «Quindi Tawhaki raccolse la rete datagli da Kuhi e la portò alla porta della casa delle riunioni. Diede fuoco alla casa. Quando le miriadi di spiriti maligni gridarono assieme: “Dov’è la porta?”, Tawhaki disse forte: “Eccola qui”. Essi pensarono che fosse stato uno della loro banda a parlare, e così si avventarono a capofitto nella rete e Tawhaki li arse nel fuoco».
Che cosa sarà mai questa rete?
Lo apprendiamo dalla storia di Kaulu: questo eroe avventuroso, volendo distruggere una donna cannibale, volò prima dal gran dio Makalii e gli chiese le sue reti, le Pleiadi e le Iadi, nelle quali intrappolò quella creatura malvagia prima di bruciarne la casa.
È chiaro chi fosse il proprietario delle reti di lassù: nel Globo Farnese, le Pleiadi sono nella mano destra di Orione, e in passato ebbero il nome di λαγωβολείον («rete per lepri»), mentre le Iadi servivano per la caccia grossa.
Alla fine di questa diffusa esplorazione, è giusto chiedersi: chi poteva essere Sansone? Un dio, chiaramente, nonché una Potenza Planetaria, tali essendo gli dèi nei tempi antichi. Come Susanowo, Maschio Prode Rapido Impetuoso, e come il Forte Nazireo, egli possiede tutti i contrassegni che appartengono a Marte e a nessun altro.
Sicché, mentre cercavamo di delineare l’episodio conclusivo dell’indagine su Amlethus-Kronos, Signore del Mulino del cosmo, è comparso quest’altro: il nuovo e formidabile personaggio di Marte, o Ares, come lo chiamavano i greci. Egli è destinato a comparire più di una volta.
È comunque indubbio che il nome di Sansone emerga del tutto spontaneamente in rapporto con il Sampo, la macina originaria; esso rientra in modo chiaro e inequivocabile nel disegno amletico. Ma dobbiamo riconoscere a questo punto l’intrusione di questa nuova Potenza planetaria. […]
Evidentemente esiste, nel Grande Racconto una fase in cui lo scatenarsi dei poteri distruttivi di Marte si combina in un composto fatale con l’implacabile disegno di vendetta di Saturno. Nel caso dell’epifania Amlethus-Sansone, nessuno potrebbe negare che questa feroce potenza (o momentanea combinazione di potenze) rivesta qui la figura del gigante cieco Orione, chiamato anche Nimrod il Cacciatore, che brandisce le Iadi e muove il Mulino delle Stelle, al pari di Talos, il bronzeo gigante cretese.
Perché il particolare che corona tutto e chiude la questione è appunto questo: Orione è cieco, l’unica figura cieca della mitologia delle costellazioni.
Si dice, è vero, che egli abbia poi ricuperato la vista, come si addice a un personaggio eterno; ma la leggenda lo ritrae così, nell’atto di guadare le impetuose correnti del gorgo ai suoi piedi (luogo in cui è destinato a ricomparire), guidato dagli occhi di un Pollicino seduto sulla sua spalla, il cui nome, Κηδαλίων (Cedalione), suggerisce un’occupazione da farsa sboccata.
(Santillana-von Dechend, Il mulino di Amleto)