Disse Loki:
Entriamo dunque nelle corti di Ægir
e guardiamoci questo banchetto:
astio e lite possa io portare ai figli degli Asi
e per loro al nettare mescolare il malanno.
…
Disse Bragi:
Un posto per sedere non ti sceglieranno al banchetto
gli Asi mai e poi mai;
perché gli Asi sanno a chi fra tutti
debba toccare il sorso incantato.
(Lokasenna, 3 e 8)
Astio e lite possa io portare ai figli degli Asi – Loki di mestiere, lo sappiamo, fa il guastafeste! È bravo solo a provocare contrasti, a suscitare litigi e discordie, a insinuare diaspore, a seminare zizzania – al nettare mescolare il malanno.
Miele e fiele, dolce e amaro, sciocco e salato. Non l’uno senza l’altro.
Verità e bugia l’una nell’altra fuse, in modo da impastare una vera bugia, una bugia che fermenti nel lievito della verità.
Se gli Asi escludono a priori Loki dal «sorso incantato», è nell’illusorio tentativo di serbare la verità incontaminata. È lo stesso motivo per cui Visnu, camuffato da seducente fanciulla, distrae gli Asura dalla coppa dell’amrta. Tra le due messinscene ci sono appena dei lievi spostamenti semantici: quel che in India fa Visnu a protezione dei Deva immacolati, in Norvegia non è un solo «dio», ma sono tutti gli Dèi (gli Asi) a farlo.
A fare che cosa? a sceneggiare ciò che un Antico Copione contempla, e cioè che chi detiene la parola vera si curi di «separare» da sé il falso (sia Loki o un demone qualunque a «personificarlo» sulla Scena)…
Per separare i latini dicevano sine parare.
Dicevano cioè qualcosa come «preparare senza», ovvero contemplare sin dai preparativi un posto vuoto a tavola, magari il trono del Re in persona; nel qual caso, nessuno osi sedere a capotavola!
Più che un «non invito», qui pare trattarsi d’un invito a non (venire a usurpare un posto che non compete che a Nessuno, all’Antico dei Giorni)…
E dunque, c’è una differenza. Un conto è non essere invitato, altro (come nel caso di Loki) è essere invitato a non venire – essere esplicitamente e dichiaratamente «messo fuorigioco».
Non c’è un banchetto degli Asi all’insaputa di Loki. No, Loki lo sa, e sa che lui, a quel banchetto, non si deve presentare.
È impensabile che gli dèi debbano ricorrere alla clandestinità, per gustare in santa pace, che so?, un bel capretto («sacrificale», s’intende). Loki deve sentire l’odore dell’arrosto, ma guai a lui se osa intrufolarsi in mezzo ai Sinceri, ai Gioiosi – agli Dèi «riuniti» a mensa.
È lo stesso trattamento riservato alla Tredicesima Fata.
Le viene detto: «D’accordo, sei una fata – ma non come le altre. Perciò, tu, sei pregata di non venire!».
Tutte le dee, e le ninfe di grazia, possono tranquillamente venire ai banchetti generali degli dèi dell’Olimpo greco. Tutte, tranne Eris.
Pure lei è chiamata a non presentarsi.
A presentarsi, semmai, in un modo e a un grado di presenza sconosciuti agli altri commensali, diciamo i «regolari».
Ma perché l’intruso resti fuori dalla parola (potrà mai rassegnarsi a una tale separazione?), qualcosa in cambio bisognerà pur dargliela.
Ma cosa?
Così, si narra, la dea Atena placò le Erinni del matricida Oreste: in privato colloquio offrì loro
un luogo d’asilo, una grotta, un altare («nuove stanze», Eschilo, Eumenidi, 1005), dove risiedere ed essere venerate, rimanendo tuttavia estranee: «straniere residenti» vengono chiamate (ibidem, 1012 e 1019).
Le senza immagini e senza nome avranno un’immagine e un nome.
(Hillman, La vana fuga dagli dèi)
Dare un’immagine, dare un nome alle Assenti, ospitarle nello sguardo e nella parola: ecco con quale promessa Atena persuase le tre Signore della discordia a lasciare in pace Oreste, a non affliggerlo più coi loro incubi.
D’incerta origine è il nome delle Erinni, ma come non pensare a Eris, la «non desiderata»? o meglio: la Desiderata a non sedere al banchetto, la Esclusa dal «sorso incantato», dalla parola immacolata?
Eris ed Eros sono le due opposte gradazioni di uno stesso «er», di un «dire» tale che quel che nell’una (Eris) suona contrasto e disgiunzione, nell’altro (Eros) si manifesta come smania di congiunzione.
C’è la parola d’Amore, e c’è la parola di Discordia.
L’angelo e il diavolo, dunque! – figli gemelli di una stessa Madre.
Quel che l’uno mente, l’altro lo smentisce!
Dire e disdire: biforcuto dilemma radicato nella parola.
E perciò grande confusione. Ecco perché Loki è invitato a non venire, e le Erinni sono pregate di non abitare in città.
Rinunciando – solo così!, potranno annunciare la loro presenza?
Ma come, se non per mezzo di un «dire» che rispetti i diritti dell’Angelo e del Diavolo, di Eros e insieme di Eris?
Di un «dire» che sia, esso, lo «straniero residente» nella parola. Che nella parola non metta mai casa, che sempre vi sia di passaggio, giusto il tempo d’insinuarvi un non, e poi sparire, svanire, perdersi in un remoto «in vano», nel Paese dei vaneggiamenti inutili, dei deliri franchi, nel folto di boschi senza capo né coda, di forre inesplorate, dietro spine e rovi che per cent’anni una siepe eressero a guardia di Rosaspina addormentata (crediamo, in santa pace).
Rosaspina dormiva nel letargo delle Furie (così i latini chiamavano le loro Erinni). In preda agli incubi di presenze che a Rosaspina si presentavano «senza immagine e senza nome»…
Negando affermare: fu questa l’arte sottile di persuasione che Atena usò in privato colloquio con le Erinni?
Le persuase a ritagliarsi il proprio luogo di epifania in una certa zona di frontiera, a starsene perennemente rintanate in una grotta nel bosco, da cui – la storia di Enea docet – si va all’altro mondo, al mondo in cui le ombre sono ombre di nessun corpo.
Immagini di nessun Immaginato. Di quel Nessun che siede nel posto vuoto a tavola, appunto.
La tredicesima fata, la Discordanza, la Furia, l’«ira di dio», possiede un fuso a cui ogni anima, curiosa, è destinata a pungersi. Ma puoi anche dire: fra tutte le fate che i grammatici chiamano congiunzioni, ce n’è una un po’ speciale: è sempre una congiunzione, solo però che essa è disgiuntiva.
Una fata anche lei, ma differente da tutte le altre. Anche lei, come tutte le altre, è una congiunzione – ma il suo modo di congiungere e mettere assieme (secum parare) è un sine parare, in quanto tiene «logicamente» assieme due cose (per es. vita e morte, verità e menzogna), ciascuna delle quali, per essere, deve essere senza l’altra.
Sì, vabbè, ma queste sono chiacchiere. Intanto, Rosaspina s’è punta, e adesso, per colpa del fuso di quella Strega, dorme e non si sa se mai si risveglierà.
Eppure, facci caso, anche Rosaspina era stata invitata dai genitori a non andare in quella certa stanza (della Tessitrice). Insomma, c’è da prendere atto che la bambina è stata già toccata, per conto suo, dalla peste della Disgiunzione.
Come estrarre dal dolore più estremo, dalla puntura della morte, elisir di nuova vita? – ecco a quale ardito catechismo Rosaspina è chiamata.
È chiamata dal patetico a estrarre poetico.
Dall’insopportabile pathos dell’angoscia di quel «non» che le annuncia, insieme, il tramonto della sua «infanzia» e l’alba di una luce che vedrà spuntare solo dopo che l’avrà dormita per cent’anni – da questo «non» che le «interdice», che le dice «tra le righe» senza mai dire apertamente, l’accesso a quel certo Ripostiglio di antiche memorie, la bambina è chiamata a farsi un racconto della propria «fattura» (ποίησις).
Poteva andarle peggio. A qualcuna, per risvegliarsi a Se Stessa, a Colei che era prima del «non», prima dell’irruzione della negatività del primo desiderio, è richiesto che baci, non una, ma almeno tre volte il brutto rospo per liberarlo dall’incantesimo.
Vuoi, davvero, gioire?
E allora: se sei maschio fuma, se sei donna profuma!
È tutta qui, la scienza che gli Sciti si tramandano!
Solo un modo di celebrare la vita in morte, sull’esempio di Leucotoe.
Annientandosi, elevarsi al paese di Nessuno.
Dal «non» che inchiodò, sulla scena, l’astuto Loki al tabù d’assaggiare il «sorso incantato», nacque l’ambigua figura di Colui che insieme è l’Intruso e l’Escluso. Colui, la cui «presenza» (a capotavola, nel centro cioè della Struttura del Racconto) è sempre ordinata ad assentarsi, a stare fuori dal Racconto.
Nel centro del Racconto, ma mai raccontata.
Da quel che nessuna Rosaspina potrà mai dire, dalle Erinni che sono i suoi demoni «senza immagine né parola», è da lì, da quel «buco nero» che il Silenzio pretende in pegno dalla parola, che proviene la santa medicina che guarirà la sua anima.
Messo alla porta, cacciato di casa, chiuso fuori – e insieme spinto dentro, fatto entrare di traverso, a forza, fuori squadra, il centro del Racconto è insieme l’Assente Impersonale e il solo che è sempre Presente in tutti i racconti.

Le Erinni, per es.: finché non hanno immagine né nome con cui una per una chiamarle, restano escluse – e perciò furenti infieriscono sul povero Oreste. Ciò che stravolge Oreste, è il non poterle esprimere né a colori né a voce … eppure esse sono là, e Oreste ne patisce la presenza, avvolte nel nero mantello della paura di Niente e di Nessuno.
A intrudersi riesce solo chi, come le Erinni, trova accoglienza (ambigua) nel repertorio delle metafore e delle metonimie umane.
Assise al banchetto della lingua e dell’immaginazione, stanno le fate, le enunciate, le immaginate, le descritte, le avvistate. Ma sul fondo della lingua e dell’immaginazione, taciuta in quanto Persona del Silenzio, sta anche la Fata che è enunciata da un non, immaginata come se non ci fosse, come una «di passaggio», come una «residente straniera», una che compare qui ma che di qui non è.
Di un compromesso, certo che si tratta di un compromesso! A vicenda si promettono «tregua» Asi e Vani, Deva e Asura, Dèi e Titani, Angeli e Diavoli a tutte le latitudini immaginali.
Ma tu, se bevi il piscio di uno sciamano, anziché a teologia ti ritrovi iscritto a un semplice corso di narrativa.
Errando da un racconto all’altro, in nessuno di essi «mettendo casa», mai sedendoti a tavola come un invitato «normale» a questa o a quella parrocchia, ma sempre in piedi, sempre di passaggio … a modo tuo comprenderai quel che, in privato colloquio, Atena disse per convincere la Tredicesima Fata a farsi enunciare dal «Non».
A una doppia (sofistica) negazione persuadendola, di sguincio la pose come «nominata» nella trama del racconto, e come «avvistata» ne affidò il segreto in custodia alla sua controfigura egizia, la dea di Sais!