Si racconta pure una storia a proposito di Epimenide, che una volta cominciò a interessarsi della filosofia orientale e fece un lungo pellegrinaggio per incontrare Buddha.
Quando fu finalmente al suo cospetto, Epimenide disse: «Sono venuto per farti una domanda: qual è la migliore domanda che ti si possa fare, e quale la migliore risposta che si possa ricevere?».
Buddha rispose: «La migliore domanda che si possa fare è quella che mi hai appena fatto, e la migliore risposta che si possa ricevere è quella che ti sto dando».
(Smullyan, Cinquemila avanti Cristo … e altre fantasie filosofiche)
Il Sofista ha ragioni da vendere: perché negargli il diritto a dire e disdire il fondamento primo della Parola?
Che la Parola «possieda» verità, e che questa «verità» possa o debba venire a galla nello scambio di domanda e risposta, è una fandonia che neanche i grilli eleverebbero più a postulato, essi che pure danzano liberi di palo in frasca, usi a cantare filastrocche che Pinocchio, ahimé, non vorrebbe sentire.
Domanda e risposta «dialogano» da sempre, ma solo quelli che hanno da assolversi da grandi colpe (immaginarie, ovviamente) confidano, ingenuamente, nella potenza della Dialettica.
Una domanda «viva», una domanda «reale», una domanda «orale», è sempre qualcosa di più, qualcosa d’incontenibile nei confini di una Logica.
Buddha sa essere «sibillino»: al postulante non postula che l’eco senza corpo della sua stessa domanda.
Nessun trovatore può trovare altro che ciò che cerca: ciò che ha perduto lui, non l’ha perso un altro. E poiché l’ha perso dinanzi allo specchio del suo narcisismo originario, può ritrovarlo solo là dove gli viene rinfacciato: nelle parole del Buddha che «fronteggiano» la sua domanda, solo per specchiarla.
Solo per restituirla alla sua «doppiezza»: essa è, sempre, la domanda di qualcuno. L’Immagine è, sempre, l’immagine di Narciso. La maschera è, sempre, la maschera di un Carnevale.
Perciò, ogni burattino che voglia esibirsi nel teatro di Mangiafoco, deve come il buon Pinocchio prima spiaccicare sul muro almeno quell’ombra minima di se stesso, da cui – invisibile – filtra la Voce della Gente, la Presenza dell’altro «messa di traverso» (lonza, lupa e leone) sulla via del suo destino: la Voce del Mondo che l’interroga.
Chi è, come dice Dante, che «sé con sé misura»? le orbite planetarie, la soffusa luce della Luna, i nomi stessi delle Stelle del Firmamento, non sono la metrica di qualcuno? O chi appartiene all’ombra di se stesso, lui sì giunge impunemente, al riparo d’un faggio, a farsi infine una domanda a cui non sa rispondere altro che evasivamente guardando fuori dalla finestra, altro che vagamente sperando di fiutare il perché dei fiori da un indizio tutt’altro che sottile, come il sorgere e l’appassire dei mondi?
C’è sempre però un professore che dalla cattedra domanda, un grillo che dal muro a Pinocchio rinfaccia che, a disdire i fondamenti della Parola, finirà per dare ascolto solo a un’improbabile Fata turchina.
Ma per chissà quale stramba dottrina il Gatto e la Volpe se le diedero di santa ragione. Santa è la guerra, santa è l’ingiustizia reciproca tra erbe e fiori. Ecco perché da che mondo è mondo, in questa solenne buffonata che è l’esistenza «tra gli uomini» nella «lingua degli uomini», non ho mai visto gli occhi tuoi sorridermi.
Questo pensò di Buddha il «suo» Epimenide di turno.
… è perché i tuoi occhi sono il mio specchio fedele, è perché un Buddha che seduto se ne sta sulla cima del monte, a nessuno nessun altro responso dà che un’eco della sua stessa domanda.
Così come la Sîmorgh non è che i trenta uccelli riflessi nello sguardo d’ogni suo dirimpettaio, e il discepolo che solleva l’ultimo velo della dea di Sais, altro non vede che il suo stesso volto.
Chi ha sepolto i cinque zecchini d’oro nel Campo dei miracoli?
A mani vuote tornò Epimenide dal pellegrinaggio d’Oriente. Perché il Gatto e la Volpe l’avevano fuorviato?
Tornò dicendo che ogni postulato non è che l’ombra d’un postulante, e che chi ascolta i grilli farebbe bene a non ignorare che tutti i mondi altro non sono che parole dette a vanvera e poi storpiate da quel maestro ozioso che risponde al nome di Mefistofele.
Tornò dicendo che ogni enigma è, sempre, una diavoleria. E che per fare un diavolo ci vogliono, come per il simbolo, due «dialoganti». Devono solo essere un po’ più crudeli di quelli che dicono di voler salvare il mondo.
(Pavel Kutzko, E se al-Manalkan fosse l’ombelico del mondo?)